È stato accennato a più riprese alle questioni internazionali collegate alla situazione bielorussa; ma esse sono rimaste quasi sempre in secondo piano, adombrate dalle discussioni, necessarie, circa i programmi post-elettorali dell’opposizione, i possibili epiloghi “ucraini” della strana majdan bielorussa, su quali prospettive si potrebbero aprire per il paese, con o senza Aleksandr Lukašenko, la componente operaia nelle manifestazioni dell’opposizione, gli scioperi nelle fabbriche statali, ecc.
A differenza di altre occasioni, le connessioni internazionali sono rimaste questa volte un po’ in sordina, anche per il basso profilo tenuto da attori la cui voce, solitamente, domina la scena: Washington, Berlino, Parigi, Bruxelles – quest’ultima, intesa sia come UE sia come NATO.
Sanzioni di prammatica a parte, a Minsk, a differenza di Kiev nel 2014, non si è puntato su un golpe violento apertamente nazista, bensì sulla tattica dello “sciopero generale”.
Di contro, si sono distinte nella foga democratica contro “l’ultimo dittatore d’Europa”, altre capitali del mondo civile, prime fra tutte Varsavia e Vilnius, anche per ragioni legate alla storia: dal Granducato di Lituania, alla Confederazione polacco-lituana, che inglobavano anche gran parte dell’odierna Bielorussia.
E, però, di connessioni internazionali, ce ne sono a sufficienza. Basti anche solo guardare alla puntualità dell’ennesimo “avvelenamento” ordito dal Cremlino (come “curiosità” storica: quando il KGB dell’URSS, ad esempio, volle davvero liquidare i principali capi nazionalisti ucraini fuggiti al seguito dei nazisti, ricorse a speciali pistole-siringhe con cianuro di potassio: a lungo i Servizi occidentali pensarono a morti naturali), questa volta ai danni del “principale oppositore di Putin”, Aleksej Naval’nyj, come recita in coro la stampa perbene: miglior momento non poteva essere scelto da Mosca per auto-accusarsi di voler infierire sul guardaspalle russo della eroina bielorussa Svetlana Tikhanovskaja!
Dunque, le connessioni internazionali ci sono, eccome: anche senza far nomi, ancora ieri Putin e Lukašenko hanno messo l’accento sulla “inammissibilità di qualsiasi interferenza esterna nelle questioni bielorusse”.
Ora, lungi da noi voler ipotizzare che, tra tali ingerenze, ce ne siano anche di mediorientali: circolano voci – quasi sicuramente non si tratta d’altro – sul fatto che tutti e tre gli ex candidati di opposizione alle presidenziali bielorusse abbiano anche la cittadinanza israeliana: di sicuro, lo stesso Lukašenko, già prima del voto, aveva accennato a quello che era allora il principale “candidato alternativo”, Viktor Babariko, come uomo di Mosca, per vent’anni al vertice di “Belgazprombank”, filiale bielorussa di “Gazprombank” e aveva biascicato di soldi russi per il finanziamento della campagna elettorale di Babariko e dell’altro candidato, Valerij Tsepkalo.
Poi, il primo non era stato nemmeno registrato dalla Commissione elettorale; il secondo se ne era andato in Russia prima del voto; la Tikhanovskja, dopo il 9 agosto, era volata in Lituania, il cui visto aveva in tasca da tempo.
Ma, venendo al dunque, certamente tutti avranno notato il tono relativamente “pacato” di molte capitali occidentali, contrapposto alle urla sguaiate dei sanfedisti polacchi e dei gauleiter lituani. A questi sono stati affidati gli accenti screanzati, mentre a Ovest, molto più accortamente, si fa di tutto per evitare l’ulteriore avvicinamento di Minsk a Mosca.
Vero è che, già da anni, non è che bats’ka Lukašenko si comporti da filo-russo tutto d’un pezzo: con il genuino argomento della “sovranità nazionale”, strizza l’occhio a est e a ovest, ma dice anche, rispondendo indirettamente ai programmi dell’opposizione che chiede il “divieto di cedere infrastrutture alla Russia”, che “noi, come per il passato, non abbiamo intenzione di vendere nulla a nessuno, non solo alla Russia”.
Se è legittimo dubitare della risolutezza di Lukašenko, le cui privatizzazioni procedono non alla velocità desiderata dall’Occidente o da parte della sua nomenklatura, ma procedono, c’è da dire che, nell’entourage del bats’ka, ci sono fautori sia dell’uno sia dell’altro schieramento geopolitico e non è escluso che “il dittatore” sia obbligato a venire a patti ora con gli uni, ora con gli altri.
Gli osservatori più sinceri, da giorni consigliano al presidente, tra i primi passi da intraprendere, una volta stabilizzata la situazione, avviato il dialogo con la “società civile” e soprattutto coi lavoratori, di sbarazzarsi della propria quinta colonna, sia questa insediata ai vertici politici o dei grandi complessi industriali ancora non privatizzati, sia di orientamento occidentale o orientale.
Il capitale, sia americano che tedesco, russo, francese o italiano, è lì con la bava alla bocca, in attesa che il ritmo e l’ampiezza delle privatizzazioni assuma le dimensioni volute. Tutto questo, non cambia ovviamente quanto scritto in precedenza su questo giornale, a proposito delle fantomatiche propensioni “comuniste” o addirittura “staliniste” del bats’ka bielorusso.
Quindi, sul piano internazionale, i nessi con la Bielorussia possono definirsi a partire da Mosca, Varsavia, Vilnius (certo un attore non protagonista) e un Occidente che pare volersi muovere per ora con passo felpato.
Il polonista russo Stanislav Stremidlovskij ricorda la perenne rivalità tra Varsavia e Mosca, per l’influenza sul territorio – Ucraina, Bielorussia, ecc. – che separa l’una dall’altra e ricorda come, a differenza dell’Ucraina, le regioni occidentali della Bielorussia (le une e le altre sono rimaste sotto il dominio polacco dal 1920 al 1939) ospitino nutrite comunità polacche e una parte dei circoli dirigenti di Varsavia riconosce che solo il dialogo con Mosca può fruttare politicamente nell’influenzare tali comunità.
Ci sono inoltre i concreti interessi di svariate imprese polacche che investono in Bielorussia e, grazie all’Unione doganale tra Bielorussia, Russia e Kazakhstan, trovano la strada asfaltata anche per gli altri due mercati. Dunque, a dispetto delle urla di scena, dietro le quinte si bada concretamente “all’interesso”, come dicevano i vecchi fiorentini.
Certo, la Polonia ha annunciato la volontà di accogliere i bielorussi che desiderino lasciare il loro paese, facilitando le procedure di frontiera e chiedendo ai consoli polacchi di rilasciare il maggior numero di visti possibile “in caso di minacce”; ma il vice Ministro degli esteri polacco, Paweł Jabłoński ha invitato l’Unione europea a rispondere alla situazione in Bielorussia non solo con sanzioni, ma anche con un’alternativa al riavvicinamento con la Russia.
Addirittura da oltreoceano, The American Conservative scrive che i dimostranti che da alcune settimane affollano le strade di Khabarovsk, nell’estremo oriente russo, dopo l’arresto dell’ex governatore, negli ultimi giorni scandiscono anche “Viva la Bielorussia”, in solidarietà all’opposizione anti-Lukašenko, come a dire che, anche in Russia, è il momento di farla finita con la presidenza di Putin.
Dunque, scrive la rivista yankee, è il caso che gli USA e i loro alleati europei agiscano con la massima cautela e non ripetano i passi sconsiderati della presidenza Obama, a proposito dell’Ucraina nel 2013-2014, allorché si affrettarono a dichiarare “legittima” l’opposizione nazista a Viktor Janukovič.
Con ogni evidenza, The American Conservative ha in mente che ogni passo affrettato di Washington nel riconoscere l’opposizione bielorussa, potrebbe avvicinare ancor più Minsk a Mosca e scompigliare “l’interesso”. La rivista ha invitato anche la NATO alla cautela e l’Alleanza, per bocca del segretario Jens Stoltenberg, ha assicurato di limitarsi a “seguire attentamente la situazione”; ovviamente, avvicinandosi ai confini lituani e polacchi con la Bielorussia.
Quantomeno “curioso”, per dire, che l’inamovibile ministro degli esteri bielorusso Vladimir Makej, considerato quasi il “controllore” delle mosse di Lukašenko e visto da alcuni come “uomo di Mosca”, nel colloquio telefonico con il vice Segretario di stato USA David Hale circa le prospettive di un’ulteriore cooperazione tra Minsk e Washington, abbia ringraziato Hale per aver sostenuto “la sovranità e l’indipendenza del Paese”.
Non a caso, quindi, più ancora che nei confronti di Varsavia, Minsk vede nella Lituania il principale centro del tentativo di majdan bielorussa. È così che, dal 17 al 20 agosto, l’esercito bielorusso ha tenuto esercitazioni in prossimità del confine tra i due paesi, con la partecipazione di reparti missilistici e di artiglieria, mezzi corazzati e meccanizzati.
I rapporti tra i due paesi si erano inaspriti già molto prima del voto, anche per la realizzazione di una centrale nucleare, costruita con fondi russi dalla russa “Rosatom” nella regione di Grodno, a una ventina di km dalla frontiera con la Lituania e considerata da Vilnius una minaccia alla sicurezza nazionale.
D’altra parte, sempre Vilnius conta sul fatto che il transito di merci e prodotti energetici da e per la Bielorussia, che non ha sbocchi al mare, passi per il porto lituano di Klaipeda – come del resto sta già avvenendo ora, con Lukašenko; ovviamente, meglio se con il “Coordinamento dell’opposizione”: ma insomma, pecunia non olet – ad esempio per le forniture petrolifere americane. Anche i soli diritti di transito fanno gola a Vilnius, la cui economia non è certo rosea.
A conti fatti, comunque, più che la storia, ciò che preoccupa Minsk – e soprattutto Mosca – sono le possibilità che NATO e USA si servano dei territori di Polonia, Lituania e Lettonia, quali piazzeforti per un intervento in Bielorussia e, quindi, contro la Russia. Nell’ampio programma “democratico” dell’opposizione, tra uscita dallo Stato unitario Russia-Bielorussia, rottura di ogni accordo doganale, economico, culturale con organizzazioni di cui faccia parte Mosca, privatizzazioni, esclusione di qualsiasi contatto con la Russia, adesione a UE e NATO, c’era prima di tutto l’uscita immediata dalla Organizzazione per l’accordo sulla sicurezza collettiva, cui Minsk partecipa insieme ad Armenia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia e Tadžikistan e che, in queste ore, sembra essere il protagonista della disputa est-ovest.
La Bielorussia è considerata strategica dalla NATO, oltre che per la presenza sul suo territorio di impianti militari (missilistici e aeronautici) russi, anche per la sua posizione, proprio a cavallo tra Polonia e Paesi baltici. Non è questo il luogo per dilungarsi su come, proprio dalla Bielorussia, quale strada diretta per Mosca (nel famigerato “piano della disfatta” del maresciallo Mikhail Tukhačevskij, si diceva che i tedeschi avrebbero attaccato dalla Bielorussia solo se avessero voluto annientare la Russia e che quindi si doveva rafforzare la direttrice ucraina, sguarnendo quella bielorussa: i tedeschi erano a Minsk al quinto giorno di guerra!) siano passati tanto Napoleone, quanto Hitler.
Pare sufficiente menzionare la questione del cosiddetto “Przesmyk suwalski”, l’ipotetico corridoio di circa 100 km che va dal confine bielorusso alla regione russa di Kaliningrad e coincide grosso modo con la frontiera tra Polonia e Lituania e considerato dalla NATO uno dei punti deboli dell’Alleanza. Stabilito il controllo libero e democratico sulla Bielorussia, il problema cadrebbe automaticamente.
Dunque, per ottenere tali risultati, sembra più opportuno puntare su carte più “vellutate”, che non spingano Minsk nel diretto abbraccio di Mosca. Una di queste, già nel 2015, in occasione delle precedenti presidenziali bielorusse, era stata il premio Nobel per la letteratura assegnato a Svetlana Aleksievič, oggi inserita di diritto nel Consiglio di coordinamento dell’opposizione (la Procura bielorussa ha avviato un procedimento nei confronti dei suoi 35 componenti, in base all’art. 361 del CP: tentativo di presa del potere) e il cui nome, insieme a quelli di politici, intellettuali, registi, manager, per lo più sconosciuti al pubblico occidentale, è visto da il “quotidiano comunista” quale sicura garanzia di anti-sovietismo e anti-stalinismo e, dunque, della rispettabilità di tale onorevole consesso golpista.
A ognuno il suo.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento