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28/08/2020

“L’inflazione? Magari ce ne fosse...” La Fed smonta il diktat

Il capitalismo non funziona più e il quadro teorico-operativo che lo ha sostenuto negli ultimi 30 anni – il neoliberismo monetarista – non ha più alcuna funzione positiva. Anzi...

Il discorso con cui il presidente della Federal Reserve – la banca centrale statunitense – ha aperto il simposio annuale di Jackson Hole (una riunione informale dei governatori della banche centrali mondiali, con inviti “mirati”), a buon diritto stavolta si guadagna l’aggettivo di “storico”.

In poche parole, infatti, Jerome Powell ha annichilito quello che per quasi quattro decenni ha rappresentato il pilastro delle politiche monetarie mondiali: l’obiettivo di inflazione “intorno al 2% annuo”.

Non c’è mai stata alcuna prova scientifica che quel livello fosse davvero “ottimale”, così come per i “parametri di Maastricht” su cui è fondata l’Unione Europea, ma in ogni caso le banche centrali intervenivano alzando i tassi di interesse quando l’inflazione annuale accennava a salire sopra il 2%, “raffreddando” così la crescita economica. E facendo naturalmente l’opposto quando scendeva molto sotto a quel livello.

Una politica monetaria deflazionista elaborata negli anni ‘70 – quando il tasso di inflazione, causa petrolio e lotte operaie – viaggiava a doppia cifra in tutto l’Occidente. Ma che ha avuto così “successo” da risultare idiota quando le condizioni sono mutate.

Ossia già nel 2007-2008, all’esplodere della crisi finanziaria dei mutui subprime e al relativo fallimento di Lehmann Brothers e decine di altre banche d’affari minori.

A quella crisi le banche centrali reagirono con i tassi di interesse a zero (mai risaliti, da allora, tranne per un breve periodo negli Usa) e soprattutto con una batteria di “strumenti non convenzionali”, come le iniezioni di liquidità nel sistema finanziario. Il “socialismo per ricchi”, ebbe a definirlo Joseph Stiglitz, premio Nobel ed ex presidente della Banca Mondiale.

Dodici anni di quantitative easing – di fatto una “lavatrice” che sostituiva i titoli svalutati in pancia alle società finanziarie con soldi freschi appena stampati – e di inflazione a zero non hanno risolto il problema di “far ripartire” l’economia occidentale.

La crescita al massimo ha riportato ai livelli pre-crisi (e non dappertutto, come ben sappiamo in Italia), per poi assestarsi in una stagnazione che già si annunciava “secolare”.

Poi la pandemia da Covid-19, i lockdown obtorto collo e il crollo della produzione proprio là dove si era più insistito per non fermarla, per non cedere alla “dittatura sanitaria” e “difendere le imprese”.

Lo sa bene Jerome Powell, presidente della Fed, che si è ritrovato, nel secondo trimestre, con un quadro economico da incubo: il Pil a -31,7%, decine di milioni di disoccupati, milioni di contagiati, oltre 180.000 morti, un paese sull’orlo della guerra civile e le attività economiche che vanno avanti a singhiozzo.

Anche scontando il “muoia chi deve morire”, ossia facendo ripartire tutte le attività come se la pandemia non ci fosse, ci si ritroverebbe di fronte a questa situazione: la “ripresa” innescherebbe per forza di cose un aumento altrettanto rapido dei prezzi, molto probabilmente ben al di sopra del 2%.

Se quindi la Fed dovesse ancora rispettare il “vecchio comandamento” neoliberista, sarebbe obbligata ad alzare i tassi di interesse e quindi ad uccidere nella culla una crescita che riparte dal baratro del -31,7%.

Un suicidio, per gli States.

Dunque, basta con il monetarismo rigido ereditato da Milton Friedman, e addio immediato al target del 2% per l’inflazione. I tassi di interesse, di conseguenza, resteranno bassi a lungo. Anzi, lunghissimo termine, indipendentemente dal tasso di inflazione registrato anno per anno.

Come per ogni “svolta” conservatrice, c’è la necessità di mostrare anche molta continuità, per non scioccare “i mercati” e gli operatori. Dunque Powell ha spiegato che il 2% resta un obbiettivo, ma il calcolo non avverrà più su un singolo anno solare, ma su un “periodo più lungo”. Indeterminato.

In pratica, sarà tenuta d’occhio una media del tasso di inflazione su vari anni, in modo da lasciare alla Fed il massimo di elasticità sulle mosse da fare in merito ai tassi di interesse. In fondo, è stato detto, veniamo da un lungo periodo di tassi di inflazione molto al di sotto del 2% (per qualche tempo anche sotto lo zero). E dunque, se Powell avesse indicato un numero di anni preciso si sarebbe trovato in una posizione molto difficile.

È stato calcolato che, per esempio, per compensare l’inflazione non maturata fin qui, la Fed avrebbe dovuto lasciare il tasso di interesse a zero per 42 anni. Tanto varrebbe chiudere l’istituto e lasciare che i soldi escano dil bancomat...

Ma la giustificazione teorica di Powell è stata più articolata. “Questo cambiamento – ha spiegato – riflette il nostro apprezzamento per i vantaggi di un mercato del lavoro forte, in particolare per molti nelle comunità a reddito basso e moderato. Il livello massimo di occupazione è un obiettivo ampio e inclusivo.”

È da sottolineare il fatto che anche il “tasso di disoccupazione”, secondo la curva di Phillips, presentava un suo livello “ottimale” al di sotto del quale i salari avrebbe cominciato a crescere “troppo” e dunque a far salire l’inflazione. Ma da anni i salari sono in arretramento, in tutto l’Occidente, senza che ci sia stato un benché minimo vantaggio macroeconomico (per forza, diciamo noi: se i salari sono così bassi, ne soffre la “domanda interna” e dunque la crescita è per metà inchiodata, dipendendo solo dalle esportazioni).

Anche su questo fronte, però, Powell non rilascia nessuna indicazione su quale percentuale di disoccupazione rappresenterà in futuro quel “livello massimo”. Mani libere, non c’è più una teoria-guida, parametri condivisi, Washington consensus, si va a naso...

È trasparente che la Fed, sicuramente più di Trump, vive la preoccupazione per le crescenti tensioni sociali. E chiunque abbia la testa sulle spalle, anche in ambito capitalistico, sa che oltre un certo punto le cose diventano ingovernabili. Dunque, bisognerebbe incentivare sia un maggior livello di occupazione sia salari mediamente più alti, specie sulle basse qualifiche professionali, spesso al di sotto del livello di sopravvivenza.

La Fed di Powell non arriva a tanto e del resto sarebbe poco credibile, dopo oltre 30 anni passati a favorire il taglio dei salari per aumentare i profitti.

Ma già l’abbandono del target del 2% è un terremoto di cui appare complicato prevedere le conseguenze nel medio periodo.

La Bce e l’Unione Europea, come sempre, dovranno rapidamente rivedere le proprie strategie di politica monetaria e non solo.

Se infatti l’inflazione non è più il “nemico assoluto”, anzi, dovrebbe in qualche modo venir stimolata (e non per via monetaria, visto che dopo 13 anni di “politiche non convenzionali” è ad encefalogramma piatto), tutto l’insieme di parametri e trattati costruiti per imporre austerità e taglio del debito pubblico deve esser ripensato, riscritto, ricontrattato tra i Paesi dell’Unione.

Emerge con chiarezza anche la differenza. Gli Usa sono un paese, con un solo governo e la necessità di promuovere politiche grosso modo “paritarie”, con effetti non troppo squilibrati tra i vari territori.

L’Unione Europea, al contrario, vive di competizione interna tra 27 Stati e ha scritto le proprie regole interne per promuovere questa competizione a scapito della “solidarietà”. Anche gli sconvolgimenti sul “mercato del lavoro”, dunque, possono essere distribuiti in modo asimmetrico, proprio com’è stato finora.

Il capitalismo non funziona più, ma non passa la mano soltanto per questo. Si va verso un lungo periodo di troubles, perché soluzioni a portata di mano (e di teoria economica) non ci sono. Ma anche su quelle la competizione prevale.

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