19/08/2020
Mirafiori, settembre 1980
Quel viaggio da Roma a Romiti, quando con Alfio Di Bella, fotografo e regista, scomparso nel 2009, andammo a vedere cosa stava succedendo alla FIAT di Romiti.
Il primo impatto furono i cancelli di Fiat Avio. Eravamo a Torino, era settembre. C’era una gigantografia di Karl Marx, in palese, quanto ironica, polemica con l’esposizione dell’immagine della Madonna davanti ai cancelli dei cantieri di Danzica. In agosto di quel 1980, Lech Walesa condusse alla vittoria Solidarność, provocando la prima profonda crepa nel sistema politico ed economico del socialismo reale, che di lì a qualche anno crollò, travolgendo anche il Muro di Berlino, e uno dopo l’altro i “paesi satelliti”, fino all’implosione definitiva dell’Urss.
Due storie di classe con esiti diversi, ma in un certo senso entrambi inattesi.
A Torino, l’attacco frontale alla classe operaia fu pianificato dalla famiglia Agnelli: si organizzarono le dimissioni di Umberto, il fratello dell’Avvocato, per mettere al suo posto il duro, bellicoso, e arrogante Cesare Romiti.
Il piano prevedeva “la ristrutturazione” della produzione, l’avvio del processo di robotizzazione degli impianti, che via via avrebbe allontanato per sempre dalla fabbrica migliaia e migliaia di operai. L’ingresso nella produzione manifatturiera di tecnologie sofisticate che arriva fino ai nostri giorni, col nome di Industria 4.0
Il momento politico sembrava propizio. Il movimento del ‘77 era in fase discendente, in seguito alla durezza della repressione della magistratura, che a partire dall’inchiesta “7 Aprile” ormai aveva carta bianca contro i collettivi del movimento. Il “caso Moro” scatenò la caccia senza quartiere non solo contro i militanti in clandestinità, ma contro le forme diffuse del dissenso: le carceri italiane si stavano riempiendo di detenuti politici.
Il PCI usciva male dall’esperienza del “governo di unità nazionale”, “il compromesso storico” era fallito: alle elezioni dell’anno prima scese sotto il 30% dei consensi elettorali, una parabola discendente che sarebbe risultata inarrestabile negli anni successivi. I sindacati erano in deficit di credibilità, fortemente messi in discussione dall’autonomia operaia, quella pratica politica che rivendicava estraneità alle tattiche governiste del PCI e soprattutto alla strategia della cogestione in fabbrica.
Si tenga conto che Luciano Lama, lo stesso che fu cacciato dagli studenti nel febbraio del ‘77 alla Sapienza di Roma, era ancora il segretario generale della CGIL, mentre il governo era diretto da Arnaldo Forlani, quello che, nei primi anni '90, diede vita al CAF – il famigerato accordo Craxi-Andreotti-Forlani – che naufragò di schianto contro gli scogli dell’inchiesta cosiddetta Tangentopoli.
La portata dello scontro in atto in Fiat non fu subito chiara, tuttavia la sensazione che stava per accadere qualcosa di molto significativo per l’intera classe operaia italiana e di conseguenza per la sinistra parlamentare e i movimenti sociali fu la leva che ci spinse ad andare a cercare l’occhio del ciclone.
Partimmo dunque alla volta di Torino, con molte domande, molta curiosità, molta preoccupazione e una telecamera.
Le prime riprese avvennero proprio davanti allo stabilimento di Fiat Avio. Quando ci videro, un delegato sindacale cominciò a inveire contro la tv di Stato che stava dalla parte dei padroni. Quando ebbe finito, gli spiegammo chi eravamo, e allora, con la stessa veemenza, il delegato riprese il microfono e cominciò a tessere le lodi della solidarietà che da ogni parte d’Italia giungeva alla classe operaia di Torino. Esagerazioni retoriche, che non corrispondevano esattamente alla realtà.
Il piano di attacco di Romiti aveva creato un profondo senso di disorientamento. La reazione si dimostrò frammentata, per non dire sporadica. Mentre lo scontro tra operai e capi, con il contorno delle guardie che tentavano di proteggere i crumiri era invece duro.
Davanti a uno del cancelli di Mirafiori, un operaio, che aveva sul volto i segni di uno scontro fisico, ci disse del clima pesante: istigati dall’arroganza di Romiti, capetti e guardioni sembravano volersi riprendere quello spazio di manovra che gli era stato negato negli anni delle lotte, dei cortei interni, delle assemblee, degli scioperi a gatto selvaggio. Soprattutto di notte, volavano cazzotti e sprangate tra gli operai ai picchetti e le guardie che tentavano sortite dei crumiri.
Torino sembrava narcotizzata. Come nell’attesa della sciagura incombente, la città assisteva allo scontro con una sorta di rassegnazione, come a sperare che il ciclone passasse senza fare troppi danni. In realtà, a partire proprio dai quei mesi cruciali, la città si sarebbe trovata a subire pesanti cambiamenti, che produssero laceranti mutamenti del tessuto sociale e produttivo, addirittura lo stesso senso di appartenenza alla tradizione di una città cresciuta attorno alla fabbrica.
Tutto a Torino dipendeva dalla fabbrica: lavorare, abitare, fare la spesa, muoversi, tutto era condizionato dal ritmo dei tre turni in fabbrica: mattino, pomeriggio e notte.
Fiat dava il ritmo alla vita, come il capovoga avrebbe dato il ritmo ai rematori, pestando sul tamburo della galea.
La nostra rete di accoglienza e ospitalità funzionava e riuscimmo a trovare sistemazioni abbastanza confortevoli. Passammo una notte in bella casa di Ivrea, dove nessuno di noi era mai stato. Ivrea che aveva forti sentori di Olivetti.
Non riuscimmo a incontrare nessuno dei collettivi di Torino. C’era disorientamento e anche molta cautela, molti sentivano sul collo il fiato caldo della repressione. Facemmo una puntata a Milano, ma anche lì il movimento sembrava non rendersi conto della portata degli avvenimenti.
In altri tempi, studenti e collettivi di quartiere delle grandi città si sarebbero mossi decisamente contro il progetto di Romiti, il cui vero obiettivo era non solo vincere la più grande vertenza mai scatenata da Fiat, ma umiliare la classe operaia, riprendersi il pieno controllo degli stabilimenti, dare un segnale totale di rottura tra fabbrica e territori. La ristrutturazione era anche e soprattutto un progetto politico.
È in questo contesto che matura la più grande sconfitta della classe operaia italiana, capace di disarticolare negli anni a venire la lotta di classe nel nostro paese.
Berlinguer andrà davanti al famoso Cancello 5 di Mirafiori a promettere di battersi a fianco degli operai, promessa che rimase non attuata né attuabile. Romiti giocò la carta della più smaccata provocazione: organizzò la famigerata “marcia dei 40 mila”. Entrarono in campo i segretari confederali di CGIL, CISL e UIL.
La vertenza fu tirata per le lunghe, per fomentare sfiducia e rassegnazione. Con l’interessamento del governo Forlani, le parti firmarono l’accordo che trasformò i licenziamenti in cassa integrazione. Col risultato di finanziare la ristrutturazione di un’impresa privata col danaro pubblico.
Vi furono numerosi episodi di suicidio tra operai espulsi: l’attacco portato alle “tute blu” arrivò in profondità, fin dentro la cultura operaia, mise in crisi l’etica del lavoro.
Riportammo a casa frammenti di verità. Appunti visivi di una realtà i cui contorni si sarebbero svelati negli anni successivi.
Non fu neppure facile raccontare la sensazione del fallimento epocale, quasi mancassero anche le stesse parole per dirlo. Oggi sappiamo che cosa intuimmo.
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