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20/08/2020

Mirafiori, settembre 1980 - Il ricordo di Cremaschi


Tra le poche voci non encomistiche raccolte dai giornali in seguito allamorte di Cesare Romiti, ci sembra giusto segnalare questa intervista a Giorgio Cremaschi.

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Giorgio Cremaschi, già presidente del Comitato centrale della Fiom, e attualmente portavoce di Potere al Popolo non accetta la narrazione elogiativa di Cesare Romiti. Quaranta anni fa fu direttamente partecipe del più duro conflitto del sindacato dei metalmeccanici alla Fiat di Mirafiori: la fabbrica e gli altri stabilimenti furono bloccati per 35 giorni.

La Fiat non mollò ed il sindacato andò incontro ad una sconfitta “storica”: non seppe fronteggiare la “marcia di crumiri organizzata dal padrone” ci racconta Cremaschi. Molti lavoratori si suicidarono.

Lei su twitter ha scritto: ‘Riposi in pace Cesare Romiti. Ma se nell’ottobre 1980 avessimo vinto noi e non lui e Agnelli oggi l’Italia sarebbe un paese migliore‘. Vogliamo ampliare il discorso?

Insieme a Romiti voglio ricordare le centinaia di lavoratori che purtroppo si sono suicidati durante gli anni ’80 per le discriminazioni e la cassa integrazione. La nostra sconfitta e la vittoria di Romiti hanno rappresentato il punto di svolta affinché l’Italia divenisse quella che è oggi: un Paese liberista dove vige il dominio totale del mercato e delle imprese, dove il lavoratore è continuamente schiacciato in nome del profitto.

Il successo di Romiti è stato un passaggio di restaurazione come quello della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Usa.

Vogliamo ricordare meglio cosa accadde nel 1980 e dopo?

Lo scontro vero era sul potere: la Fiat scelse di fare lo scontro per avere il controllo totale della forza lavoro e per distruggere le libertà che avevano i lavoratori. Lo scontro sindacale di merito era sulla cassa integrazione.

Noi non negavamo la necessità della cassa integrazione, ma volevamo che non fosse l’anticamera del licenziamento. Noi volevamo quella a rotazione, suddivisa tra tutti i lavoratori. La Fiat invece fece una lista di proscrizione di 23 mila persone, che voleva discriminare o perché non sufficientemente produttivi o perché sufficientemente sindacalizzati, che furono messe in cassa integrazione a zero ore.

Noi perdemmo la lotta e molti di questi rimasero per sempre in cassa integrazione: tra di loro tanti, non vivendo con gioia la cassa integrazione, a differenza di quello che si può pensare, si suicidarono per disperazione ed emarginazione.

In una intervista del 2010 a Repubblica Romiti disse: ‘l’esito di quella vicenda fu quello di riportare i sindacati di allora a una situazione di normalità, superando le infiltrazioni terroristiche che stavano nella loro base. Al tempo stesso la conclusione di quella vicenda consentì all’azienda di riprendere il suo cammino evitando il fallimento. Ma fu una vittoria che non venne per una mia volontà di umiliare il sindacato, ma venne perché i capi del sindacato non ebbero la forza di mettere nell’angolo le forze estremiste che avevano al loro interno‘. Cosa contesta di questa ricostruzione?

Praticamente tutto: è una ricostruzione ex-post, è la favola del vincitore. Il terrorismo era un fenomeno italiano su cui occorre ancora riflettere ma non c’entra nulla con lo scontro alla Fiat: Romiti voleva ripristinare il potere, il comando dell’azienda sui lavoratori, lo stesso che c’è oggi. Certo poi ci sono voluti 40 anni per arrivare allo schiavismo odierno ma tutto parte da lì.

In realtà c’è un elemento di verità nella ricostruzione di Romiti: lui non è mai stato un uomo di destra. Era un uomo del potere delle élite di centrosinistra. La svolta liberista sia nei gruppi dirigenti dei sindacati sia in quelli della sinistra ha avuto in lui un suo artefice.

Prodi, D’Alema e compagnia sono discepoli e non nemici di Romiti. Negli Usa e in Gran Bretagna fu la destra classica a fare la restaurazione liberista, da noi invece nacque anche all’interno di una parte della sinistra, quella che veniva chiamata riformista o migliorista.

La marcia dei quarantamila riuscì poi a fratturare l’unità tra i salariati del ceto medio e quelli della catena di montaggio.

La marcia dei 40mila fu in realtà una marcia dei 10mila: si è trattato di una delle prime grandi operazioni mediatiche di amplificazione di un processo. Furono precettate dalla Fiat da tutta Italia, organizzate politicamente.

Io ero nella Fiom di Brescia e sapevamo che avevano organizzato i pullman di tutti i capo reparto e dei responsabili e dipendenti delle concessionarie. Fu una marcia di crumiri organizzata dal padrone che fu presentata come un grande evento.

Lì si misurò l’incapacità del gruppo dirigente del sindacato di allora di reggere il confronto. Infatti finì in un dramma anche perché l’accordo fu respinto dalla grande maggioranza dei lavoratori Fiat e si aprì una di quelle grandi fratture che Romiti voleva, e non tra area estremista e vertici moderati, ma tra alto e basso, tra la base e i vertici.

Con quella sconfitta si perse una idea di democrazia che era quella della democrazia partecipata e non si è più ricostituita.

Che epigramma scriverebbe per Romiti?

Credeva nella lotta di classe più dei vertici di coloro che stavano dalla parte opposta alla sua.

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