Sabato, nelle ore pomeridiane, il centro di Beirut è stato teatro di una mobilitazione di decine di migliaia di persone, iniziata con il concentramento in Piazza dei Martiri.
Nelle stesse ore il bilancio dell’esplosione di martedì scorso saliva a 158 morti (tra cui 43 siriani e altri stranieri), oltre 6 mila feriti e 21 dispersi, secondo le cifre riportate dal Ministero della Salute libanese.
In un messaggio televisivo Sayyed Nasrallah, leader di Hizbullah, ha categoricamente smentito che la formazione sciita nascondesse armi, munizioni, o “qualsiasi altra cosa nel porto” come riporta l’emittente «Al Manar» che ha trasmesso ampi stralci del discorso del capo della formazione.
Una illazione riportata da “alcuni TV locali ed arabe così come da alcune pagine dei social media”.
Una diffamazione che segue una precisa legge della propaganda per cui: “ripeti una bugia abbastanza volte e diviene realtà” ha affermato il leader del “Partito di Dio”, conscio del sistematico tentativo di delegittimare la formazione politica protagonista della resistenza all’invasione israeliana e alla lotta contro lo jihadismo in Siria.
Nasrallah ha ricordato l’impegno della formazione nell’aiuto materiale dato immediatamente dopo l’esplosione ed ha offerto di mettersi a disposizione per le persone che hanno perso l’alloggio: “abbiamo un esperienza ad alloggiare le persone dopo la guerra del luglio 2006, e chiedo alle persone di prendere seriamente la nostra offerta”, riferendosi al conflitto che ha opposto il Libano al tentativo fallimentare di invasione israeliana il luglio di 14 anni fa.
Nasrallah ha affermato, inoltre, di volere evitare scontri politici con le formazioni che cercano di sfruttare il disastro derivato dalle esplosioni: “la nazione necessità compassione, e più tardi potremo andare allo scontro politico”, di fatto scegliendo un invito alla calma.
Una posizione spiegabile con il delicato ruolo assunto da Hizbullah nell’attuale esecutivo.
Di diverso avviso, su questo punto, il Partito Comunista Libanese che in una dichiarazione dell’ufficio politico del 7 agosto ha invitato alla partecipazione alla manifestazione nella centrale Piazza dei Martiri dalle 16 per “rovesciare il regime omicida ed il sistema politico sostenuto dall’estero”.
La formazione, coprotagonista delle mobilitazioni dello scorso autunno, attacca duramente la trama di poteri che hanno governato il Libano dall’inizio degli anni '90 e le ingerenze straniere, in particolare quella francese.
Il PCL “considera la visita del presidente francese l’ennesimo segnale di un rinnovato sostegno e legittimazione internazionale del sistema politico” e di fatto corresponsabile della situazione che si è venuta a creare.
Chiama a raccolta i cittadini libanesi attorno al loro patriottismo che “ha dimostrato di essere una valvola di sicurezza in tutte le circostanze difficili che ha attraversato il Libano”.
Il PCL ritiene “che le forze della rivolta nazionale del 17 ottobre siano esortate a riportare il baricentro della loro azione in strada e ad intensificare lo scontro contro il sistema autoritario al potere proponendo il suo programma alternativo”.
L’ambasciata statunitense riporta che il governo degli USA sostiene il diritto dei libanesi alla protesta pacifica. In un tweet l’ambasciata dichiara che: “il popolo libanese ha sofferto abbastanza e si merita di avere leader che li ascoltino”.
Un altro esempio, oltre a quello francese, delle pesanti ingerenze che gravano sul Paese. Questa domenica proprio Macron è alla co-presidenza insieme all’ONU di una videoconferenza nel quadro degli sforzi internazionali dopo la catastrofe che saranno gestiti da ONG, bypassando di fatto lo Stato libanese, quasi a volere ristabilire una sorta di “protettorato” internazionale sul “Paese dei Cedri”.
Proprio sabato, Samy Gemayel, capo del partito Ketaëb (Le Falangi Libanesi, ovvero l’estrema destra della comunità cristiano-maronita) ha annunciato le sue dimissioni, insieme a quelle di altri due deputati dello storico partito cristiano. Dimissioni che vengono ad aggiungersi a quelle di altri due parlamentari questa settimana, quelle del deputato Marwan Hamdé, del blocco del capo druso Walid Joumblatt, e quelle della deputata della lista della “società civile” Paula Yacoubian.
Gettando benzina sul fuoco il capo della storica formazione dell’estrema destra cristiana ha affermato che “il popolo libanese deve prendere una posizione storica. Un nuovo Libano deve emergere dalle rovine del vecchio che voi rappresentate” Il messaggio lanciato all’indirizzo della classe politica, critica senza nominarlo il presidente Michel Aoun, che venerdì aveva rigettato ogni ipotesi di inchiesta internazionale sull’esplosione stimando che non avrebbe fatto altro che diluire la verità.
Un chiaro tentativo di sfruttare la rabbia di una classe media impoverita dalla crisi, che ha portato alla svalutazione della Lira Libanese, un forte aumento dell’inflazione e a limitazioni dei prelievi bancari.
Torniamo alle mobilitazioni.
Gli scontri riporta la versione inglese del sito di informazione «Al Jazeera» sono scoppiati dopo che i manifestanti hanno cercato di raggiungere la sede del parlamento.
La polizia ha fatto uso abbondante di lacrimogeni e di pallottole di gomma, e sparato in aria per disperdere la folla, con un bilancio di un morto tra le forze dell’ordine e più di un centinaio di feriti tra i manifestanti secondo quanto riporta la Croce Rossa locale.
Secondo un report della CR divulgato attorno alle cinque del pomeriggio i feriti sarebbero 238, di cui 63 trasportati in ospedale, mentre 175 sarebbero stati curati sul posto.
Esercito e manifestanti si sono scontrati nel centro con i primi che si sono avvalsi di bastoni ed i secondi che hanno risposto con il lancio di pietre.
Nelle ore precedenti erano state erette “forche” nella Piazza dei martiri, e sono stati urlati slogan contro tutta la classe politica e per le dimissioni del governo, come mostra il servizio del sito d’informazione «Middle East Eye».
I manifestanti hanno invaso differenti edifici governativi, dal ministero dell’economia a quello dell’ambiente. Nel tardo pomeriggio l’Esercito ha sgomberato il ministro degli esteri occupato da ex militari in pensione che lo avevano dichiarato “Quartier generale della Rivoluzione”
Attorno alle quattro e mezza un gruppo di manifestanti ha assaltato la Lebanon’s Association of Bank, così come il ministero dell’energia, già al centro delle proteste prima dell’esplosione di martedì scorso. L’Associazione delle Banche del Libano è stata data alle fiamme prima di essere sgomberata riporta il quotidiano francese «Le Monde».
In un annuncio serale il Primo Ministro Hassan Diab, in carica da febbraio quando il governo del precedente Primo Ministro Saad Hariri è stato costretto alle dimissioni a fine ottobre a causa delle massicce mobilitazioni anti-establishment, ha dichiarato che avrebbe proposto una bozza di legge questo lunedì per tenere elezioni anticipate, senza specificarne i termini temporali.
Secondo quanto riporta «Le Monde», il Primo Ministro avrebbe dichiarato che solo “elezioni anticipate possono permettere di uscire dalla crisi strutturale”, e che è disposto a restare in carica “durante due mesi”, il tempo necessario a fare in modo che le forze politiche trovino un accordo su questa questione.
Si apre un periodo pieno di incognite per il Libano che rischia di diventare il teatro di una proxy war a geometria variabile tesa a ridefinire le gerarchie degli attori esteri più influenti nel Paese, anche con il fine di accaparrarsi il lucroso business della ricostruzione, dettandone l’agenda politica in una forma di neo-protettorato occidentale. Uno scontro dai toni feroci che si intreccia con una triplice crisi: delegittimazione della leadership politica storica e del sistema confessionale post-coloniale, la difficile situazione sanitaria provocata dalla pandemia e la catastrofica situazione economica ora aggravata dalle conseguenze dell’esplosione. Una condizione critica che si inserisce nella riconfigurazione complessiva del “Medio Oriente” di cui il Libano è storicamente una parte essenziale.
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