Nell'ultima scena del suo penultimo film documentario Village Visage, Agnès Varda – regista tra le pioniere della Nouvelle Vague – si reca, insieme al suo co-sceneggiatore (lo street photographer JR, con cui ha intrapreso un viaggio attraverso la Francia rurale), presso l'appartamento del vecchio amico Jean-Luc Godard, con cui aveva fissato un appuntamento.
La Varda non vedeva Jean-Luc da anni ed era emozionata all'idea di rincontrarlo. Ma il maestro non si fa trovare, lasciandole un enigmatico biglietto attaccato alla porta. La Varda ne è ferita, ma allo stesso tempo non sorpresa. Conosce Godard e un po' se lo aspettava.
Ecco, quell'assenza improvvisa sembra comprimere lo scorrere dell'Immagine–Tempo e dei fotogrammi che si sono succeduti lungo l'intero arco del film, sulla figura gigantesca di Godard. Quasi che la sua ombra abbia aleggiato per tutto il documentario.
Un'ombra ingombrante e inesorabile, come solo i Maestri Assoluti sanno essere.
Ieri mattina, quell’assenza è però divenuta realtà. Una realtà tangibile e biologica. Non più replicabile. Non più duplicabile. Impossibile da decostruire. Perché la morte la si può recitare, la si può filmare, la si può persino vivere. Ma non se ne può scavare il senso della fine.
Godard invece quel senso lo ha voluto afferrare per la coda. Come il desiderio di Lacan è andato incontro alla mietitrice vestita di nero, nei panni del cavaliere de Il Settimo sigillo di Bergman. Le si è seduto di fronte, l’ha sfidata e le ha dato scacco matto in tre mosse. Dopo un'estenuante partita.
Jean-Luc Godard se nè andato così. Per scelta. Estremo atto di volontà di un artista, di un intellettuale controverso, iconoclasta, antisistema. Scorbutico, introverso, perfino lunatico. Ma umanissimo e tenero.
Un intellettuale in conflitto perenne con l'asettico dominio biopolitico del Capitale e con le sue protesi mercantili. Un artista coerente e lucido. Fino all'ultimo respiro.
Era stanco Godard. Stanco di una commedia tragica e grottesca, uscita dalla penna ormai sciatta di un dio ammuffito e ingiallito, capace di proiettare dinanzi ai suoi occhi scintillanti solo immagini dozzinali.
Goffi rimasticamenti di epoche mitologiche. Ridicoli personaggi da operetta, che si agitano sulla ribalta di un set/mondo e di un set/fabbrica che meriterebbe di esplodere come la villa a più piani nel finale di Zabrisky Point.
E allora, spegnere la luce non gli dev’essere costato troppo.
Il cinema di Godard, d’altronde, non era spettacolo. Non era prodotto. Non rientrava nella categoria marxista e debordiana della merce/feticcio.
Il cinema di Godard è opera d’arte. Capolavoro della differenza. Mai uguale a sé stesso, neanche nella segmentazione entomologica del cinéma (la più piccola unità linguistica nel codice filmico ndr). Mai identitario. Sempre decentrato. Quasi osceno (ob scena = fuori scena) per usare un concetto caro a Carmelo Bene. Brechtianamente straniante. Costantemente deterritorializzato, per dirla con Deleuze.
Una deterritorializzazione persino dell’occhio e dello sguardo nello svolgersi e riavvolgersi dell'immagine. Punto di vista sempre diverso su una realtà apparentemente oggettiva. Cinema della differenza e della ripetizione.
In girum imus nocte et consumimur igni
. Cinema dunque arso al fuoco iconoclastico della Rivoluzione. E per questo, cinema etico, poetico, politico.
Come un benjaminiano Angelo della Storia del Cinema (non a caso produsse Histoire du cinéma) Godard si è trovato di fronte alle rovine della vicenda umana e ha provato a ricomporle, attraverso le immagini. Soprattutto attraverso quella lanterna magica che è il montaggio. Baro impunito accomodato al tavolo del Tempo.
Solitudini, spersonalizzazioni, smarrimenti della contemporaneità, colpe e miserie umane. Ma anche sogni, pulsioni, grandi ideali, desideri rivoluzionari. Tutto il grande mistero della vita, con le sue emozioni più intime e nascoste, con i suoi conflitti e magmatiche dinamiche sociali, viene filtrato dalla Macchina da Presa del grande regista francese.
Godard ha reinventato il cinema e con esso lo sguardo dello spettatore e la percezione del mondo. Alla stregua di un Heisenberg, come un prestigiatore quantistico, ha tirato i dadi e ci ha mostrato le molteplici maschere di un unico volto.
Ha violentato il cinema e la sua grammatica. E con esso ha penetrato, smembrato, vivisezionato il nostro inconscio collettivo. Per poi vomitarlo sul foglio immacolato dello schermo.
Il cinema di Godard è come l'Ulisse di Joyce. Fa a pezzi codici e convenzioni filmiche, nel nome di un'immediatezza espressiva che sino ad allora la settima arte aveva solo potuto sfiorare.
Godard ha messo al rogo la teologica legge del dover essere. Ha incendiato ogni dogma, cinematografico ed esistenziale. Ha attaccato i pilastri di una società borghese in disfacimento, negli anni '60 e '70. Ha denunciato la rappresentazione merceologica delle relazioni umane. Ha condannato l'imperialismo americano. Messo al bando le regole del consumismo e del capitale. Sbeffeggiato persino il comunismo, quando – come nella scena finale di Crepa padrone tutto va bene – fa mercato dei suoi principi a soli fini elettorali.
Ma il Tempo ahimè vince, nella sua inesorabile progressione lineare. La realtà contemporanea, dominata dall'eterno presente delle merci, ha spezzato le ali dell'angelo e sparso nel vento frammenti di pellicole e frame digitali.
A noi resta un tempio azteco di fotogrammi e visioni. E il breve sussulto di uno sguardo altro!
Ciao Jean-Luc. Con te non se ne va il cinema. Con te muore l’Arte. Muore l’avanguardia come essenza politica dell’Arte.
Con te muore l’ultimo dei maoisti. L’ultimo poeta della contraddizione e della dialettica. Muore l’icona/sfregio del costume borghese.
Muore l’anarché intellettuale. Cifra essenziale della creazione e della trasformazione.
Ciao Jean-Luc. Ci mancherai. Cazzo, se ci mancherai!
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento