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16/07/2021

Tre questioni su Cuba

In questi giorni, di fronte ad alcune proteste di piazza a Cuba si sono palesati processi che abbiamo già visto e vissuto in passato e nuove torsioni convergenti sul medesimo obiettivo: rovesciare il modello politico e sociale cubano.

A questa conclusione puntano da sessanta anni una dozzina di amministrazioni statunitensi (democratiche o repubblicane che siano), i liberali europei ed anche pezzi della sedicente “sinistra” occidentale.

Lo fanno con motivazioni diverse, ma giungono alla stessa conclusione. Ragione per cui, se si entra in campo, non si possono fare sconti.

La prima questione. Cuba, anche così come ci viene restituita da sessantadue anni della sua esperienza rivoluzionaria, è comunque migliore di quella che sarebbe stata o che avrebbero voluto che diventasse gli Usa, i liberali europei e un po’ di “sinistrati” italiani.

Per sostenere questa affermazione così perentoria è sufficiente guardare la situazione nei dintorni di Cuba, a parità di popolazione e risorse disponibili. Cuba non più socialista sarebbe migliore di Haiti, della Repubblica Dominicana, degli Stati centroamericani o della stessa Puerto Rico che pure è una delle stelle sulla bandiera Usa? Evidentemente no.

La seconda questione. Ho visitato Cuba negli anni più difficili. Quel 1992 e 1993 del “Periodo Especial”, in cui l’economia era crollata a livelli inimmaginabili e insopportabili perché non c’era più né un campo socialista, né un paese interessato all’interscambio con Cuba e con le poche risorse di cui dispone quest’isola.

La situazione era assai peggiore di adesso sotto ogni tipo indicatore eppure… Eppure Cuba non si è piegata.

Anche in quegli anni settori della popolazione hanno protestato, sono scesi in piazza di fronte a problemi seri come un’alimentazione adeguata e magari più varia di quella consentita dalle tessere alimentari. Pochi lo ricordano, ma anche in quell’occasione Fidel Castro scese nelle strade e si confrontò con la rabbia e le preoccupazione di una parte del suo popolo.

Il carisma del Comandante e un senso della dignità popolare molto più diffuso che dalle nostre parti riuscirono a gestire una crisi che avrebbe piegato le gambe a qualsiasi altro governo.

Dieci anni dopo, nel 2003 la situazione era cambiata immensamente in meglio. Nel frattempo, dopo anni di isolamento totale, Cuba cominciava infatti a raccogliere i benefici del suo esempio di resistenza e dal 1998 altri paesi latinoamericani, come il Venezuela, cominciavano il loro processo di transizione progressista e popolare.

L’ondata progressista in America Latina si diffuse rapidamente negli anni successivi in Brasile, Bolivia, Ecuador, Argentina, Nicaragua. Resisteva solo l’asse del Pacifico (Cile, Colombia, Perù) ancora saldamente legati all’egemonia degli Stati Uniti ma oggi investiti da una crescente spinta al cambiamento.

Cuba dalla fine dei drammatici anni Novanta, ha avuto la possibilità di interscambiare le proprie scarse risorse con le cose più necessarie allo sviluppo del paese. Il blocco statunitense si era fatto più feroce internazionalizzandosi, cioè impedendo a paesi o aziende che avessero voluto commerciare con Cuba di poterlo fare anche negli Stati Uniti.

Un ricatto pesantissimo. Ma il fatto che diversi paesi latinoamericani avessero mandato a bagno l’arroganza Usa, consentiva di limitarne gli effetti e di aggirarne gli ostacoli.

Cuba scambiava conoscenza in cambio di carburante, medici e insegnanti in cambio di alimenti o materie prime. Aveva ingaggiato una rognosa scommessa sull’afflusso dei turisti, che l’ha costretta ad una doppia circolazione di moneta e alle inevitabili disuguaglianze che questa porta con sé.

In un altro paese questo avrebbe portato ad un conflitto di classe durissimo tra i diversi settori della popolazione, ma a Cuba è stata gestita – come meglio è stato possibile – una redistribuzione sociale delle risorse disponibili nelle condizioni date.

La cosa ha creato malumori, rimostranze, contestazioni? Certamente. Le contraddizioni non possono mai essere negate o nascoste, ma possono essere gestite sulla base della visione politica e sociale che ispira un modello di società.

Negli ultimi anni, il circuito virtuoso della solidarietà tra i paesi latinoamericani con Cuba si è interrotto con l’ondata restauratrice e sobillata dagli Usa in molti paesi: dal Brasile all’Argentina, all’Ecuador e dai tentativi di destabilizzazione in Venezuela e Bolivia.

Le risorse prima scambiate ed assicurate da questo circuito sono tornate a farsi scarse, mentre gli ostacoli frapposti dall’internazionalizzazione del blocco statunitense continuavano ad agire, impedendo a Cuba di accedere al credito commerciale, ai mercati, all’interscambio normale per altri paesi. Ed infine bloccando il flusso delle rimesse degli emigrati cubani all’estero verso quelli residenti nell’isola.

Se produci un medicinale efficace e poi non puoi venderlo in altri paesi, che ripercussioni ha questa cosa? Se per accedere ad un prestito hai condizioni più pesanti di altri, che ripercussioni ha questa cosa? Se far arrivare alimenti da un altro paese ha dei costi più alti perché chi te li vende deve mettere in conto le sanzioni statunitensi, che ripercussioni ha questa cosa? Se i dollari dei familiari all’estero non possono più arrivare, che ripercussioni ha questa cosa?

Chi dice che il blocco Usa non è il problema, o non conosce il problema o mente sapendo di mentire.

E poi è arrivata la pandemia di Covid 19. Che ha messo in ginocchio paesi potenti, ma che a Cuba, per esempio, ha significato lo stop alla principale entrata di valuta cioè il turismo.

Terza ed ultima questione. Le proteste di queste giorni si basano sugli effetti di questa situazione, aggravati dalle preoccupazioni della pandemia di Covid 19, che pure a Cuba è stata governata molto meglio che in qualsiasi altro paese centro e latinoamericano. I dati parlano chiaro.

Difficoltà nell’approvvigionamento alimentare e insicurezza dovuta alla pandemia, hanno fatto anche loro cortocircuito. E’ legittimo che settori della popolazione pretendano dallo Stato maggiori garanzie e maggiore sicurezza di fronte ad una crisi con molte incognite.

Non è invece accettabile che su questa legittima preoccupazione agiscano, interferiscano e soffino sul fuoco agenti esterni. E le agenzie statunitensi fanno questo lavoro da anni, sistematicamente, ripetutamente, cercando tutti i varchi possibili per farle detonare e piegarle ai propri interessi. Si chiamano guerre ibride ossia un mix di sanzioni economiche, attacchi informatici, uso dei social network – quando possibile anche azioni militari “coperte” o palesi – che hanno l’obiettivo di danneggiare all’interno i paesi “target”. Ormai sono sdoganate come le guerre possibili del XXI Secolo e vengono combattute sotto gli occhi di tutti.

La gente a Cuba è scesa in piazza per farsi sentire. In tutto il mondo, di fronte ad un problema, si fa così. Ma è scesa in piazza anche quella parte di società cubana convinta che mandare all’aria il modello politico-sociale cubano non sia affatto un vantaggio ma, al contrario, una jattura.

A Cuba adesso ci sono tensioni sociali, come avviene in ogni società dove agiscono processi e contraddizioni reali. Ma sull’esito di queste tensioni e sui soggetti in campo, non si possono avere dubbi: è bene che a gestire i passaggi e le contraddizioni sia una Cuba ancora socialista, piuttosto che le forze che puntano a farne una terra di nessuno come Haiti o altri disastrati stati centroamericani.

Cuba lo ha fatto negli anni terribili del “Periodo Especial” ed ha rimesso in moto la storia in un intero continente. Dobbiamo agire affinchè Cuba sia in grado di farlo ancora ed ancora meglio. Glielo deve l’intera America Latina e glielo dobbiamo anche noi.

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