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14/01/2021

Ma quale crisi di governo, questa è lotta fra classi

S’è scatenata l’agguerrita pattuglia acrobatica dell’establishment italiano, che va da Confindustria alla finanza, compenetrando i meandri delle grandi e piccole rendite da paradisi fiscali, passando per pezzi forti di oligarchie economiche e tecnocratiche, fin dentro categorie del turismo e del commercio: tutti quelli che sono ingrassati con le politiche neoliberiste temono il governo non gli dia la parte di Recovery che pretendono spetti loro.

È la nervatura del consenso verso la destra. Ma la destra urlacchia e provoca, fa propaganda, si è infilata nel cul de sac del sovranismo, che non giova all’economia di mercato. E poi il loro campione, Trump, è andato giù dal trono, il che dice che sarebbe meglio riposizionarsi.

È qui che Renzi ha individuato la crepa nella quale infilarsi: tra una destra ciarlatana e politicamente inconcludente e la paventata saldatura Pd-M5s, che è vissuta come un pericolo, perché si teme aspiri a tutelare i redditi, a rafforzare la presenza dello Stato sul mercato, a diminuire spazi all’iniziativa privata, per esempio nella Sanità.

Attenzione: aspira. Perché quello che s’intravede nel piano che sarà presentato a Bruxelles è un elenco di tecnicalità e di buone intenzioni, che poi verranno negoziate, e alla fine può succedere che il disegno di un bel cavallo bianco – a furia di togli, aggiungi, cancella, modifica – finisca, invece, per raffigurare un vecchio e stanco cammello, come recita una famosa storiella, che si raccontava tra i pubblicitari ai tempi di Madison Avenue.

Pertanto, Matteo Renzi, che oggi appare un guastatore, può essere in realtà un interlocutore credibile in certi ambienti. Perché ritenuto capace di coniugare la continuità del liberismo con aperture socialmente sensibili al disagio: pensate alle politiche dei bonus, che hanno dato un po’ di soldi freschi in cambio di diritti, che è stata la filosofia del suo governo.

Una specie di giocoliere, che, come al circo, fa roteare in aria e riagguanta al volo due birilli, uno raffigurante Milton Friedman, l’altro John Maynard Keynes. D’altronde, questo è stato il modo, già sperimentato durante la crisi globale del 2008, per continuare a favorire l’accumulazione capitalistica, temperandola con misure governative che mitigassero il rischio di ribellione, di conflitto tra classi.

Non ci sono dubbi, allora, che la sostanza della crisi di governo non è tanto una crisi provocata dall’ego di Renzi che si scontra con quello di Conte.

Sono scene e scenari di lotta di classe: i miracolati del neoliberismo si arroccano, vogliono rientrare delle perdite subite durante i lockdown. Gli investimenti pubblici previsti dal Recovery plan prefigurano, al contrario un cambiamento del modo di produrre valore: green economy, digitalizzazione, economia circolare, riduzione degli impatti ambientali, investimenti per la Sanità, la Cultura.

Dunque, si tratta, almeno nelle intenzioni dell’asse Pd-M5S, di alimentare politiche che diano linfa a nuove esperienze imprenditoriali, che in gergo si chiama “innovazione”.

In definitiva, Matteo Renzi ambisce a essere il mediatore politico di queste visioni contrapposte. Questo è il senso della sua scommessa contro l’attuale governo, comunque vada a finire la querelle sul Recovery plan con Conte.

Ma se questo è il vero campo di battaglia, c’è qualcuno che brilla per la sua assenza sulla scena politica. Questo qualcuno sono in realtà tanti.

Sono i lavoratori che continueranno a lavorare tanto e guadagnare poco – in presenza o in smart working – sono quelli che perderanno il lavoro e temono di non venir ricollocati, se non a condizioni al ribasso; sono i precari il cui orizzonte sarà sempre più fosco, aumenteranno di numero, ma non di peso contrattuale; sono le donne, i cui diritti civili, ma anche economici, saranno ancora contendibili tra l’integralismo cattolico e una debole concezione laica dello Stato; sono i giovani la cui disoccupazione era già alta prima della pandemia, il cui futuro è stato espropriato da progetti inesistenti e da promesse mai mantenute.

Non ci sono santi, né bonus né ristori; questa classe non è rappresentata, se non dalla rabbia e dal rancore che si sfogano spesso sui social, tubo di scappamento fumoso di un motore sociale grippato.

La domanda è: non sarebbe tempo che le mille sfaccettature della dissidenza e dell’antagonismo al sistema sociale in vigore, che qualcuno si ostina ancora sperare di riformare e che è invece un implacabile nemico giurato dell’uguaglianza, della ridistribuzione della ricchezza, della pacifica convivenza umana con l’ambiente, della libertà e delle libertà, della socializzazione della creatività, del sapere e della ricerca scientifica; non sarebbe ora, dunque, che i protagonisti di ciascuna di queste esperienze alzassero finalmente la testa dal proprio specifico intervento nel mondo del lavoro, nel sociale, nel femminismo, nell’ambientalismo, nei movimenti LGBTQ+, del volontariato, della cultura e capissero la necessità politica della riappropriazione di un discorso pubblico collettivo sulla liberazione dal sistema capitalistico, causa dei disastri ambientali, sociali, economici, umanitari, pandemici?

È tempo di esplicitare e dare forza a una visione alternativa della politica.

Anche perché i soldi del Recovery plan non sono una manna, non cadono dal cielo, sono il ricavato delle tasse che pagano in maggioranza i lavoratori, assieme a tutti i soggetti sociali subalterni che ogni volta hanno sempre pagato caro il prezzo della crisi, ma anche quello della successiva ripresa.

Una ragione sufficiente per essere soggetti finalmente protagonisti – senza fittizie intermediazioni partitiche o sindacali – di scelte politiche e organizzative, utili a un presente più giusto e un futuro promettente per tutti, non più passivi spettatori degli intrighi di Palazzo.

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