di Emanuele dell'Atti
J. M. Keynes affermava che in tempi di disoccupazione è meglio occupare persone a scavare buche e a colmarle che non occuparle affatto. Ma al di là della celebre (ed efficace) affermazione, un aspetto centrale del pensiero dell’economista britannico, come è noto, è nell’idea dell’intervento pubblico riequilibrante a vantaggio della piena occupazione e del sostegno alla domanda.
Oggi, che di dissesti infrastrutturali ne abbiamo in abbondanza, non dovremmo nemmeno preoccuparci di scavare buche per creare lavoro. Basterebbe riempirle. Strade e autostrade impraticabili, reti idriche da potenziare, laghi e fiumi da bonificare, prevenzione del rischio idrogeologico, cura dell’ambiente. Potrebbe bastare questo, insomma, in un’ottica keynesiana, non bolscevica, per creare posti di lavoro e – se proprio siamo affezionati alla formula – “crescita economica”.
Solo che – dopo Maastricht e trattati seguenti – l’Italia si è privata degli strumenti per agire in questo senso, disapplicando e subordinando la Costituzione (keynesiana) alle norme comunitarie (anti-keynesiane). Il fine (dichiarato e perseguito: si leggano i trattati europei e si ripercorra la storia degli ultimi trent’anni) dell’Unione Europea, infatti, non è la piena occupazione, ma una certa e costante disoccupazione (unita al contenimento salariale) che possa tenere bassa l'inflazione. Obiettivo, peraltro, ugualmente non raggiunto. Come ben sappiamo.
L’UE non coincide con l’idea di cooperazione tra Stati. Essa non è un progetto democratico: è un dispositivo geneticamente neoliberale. È un’arena, un campo di gioco in cui domina la logica della competizione: non è un caso che non sia mai nato il tanto agognato esercito europeo e che non sia mai passato il disegno di una vera Costituzione politica europea. L’UE, in altri termini, non è diventata tale, cioè, per carenze o errori compiuti nel percorso: il suo scopo è – originariamente e costitutivamente – l’assenza di scopi. Un progetto “nichilista” privo di idealità sociali (cfr. D’Andrea 2022). L’UE, infatti, è stata progettata in un senso dichiaratamente anti-keynesiano e continuamente riprogrammata (dall’Atto unico del 1986, propedeutico al Trattato di Maastricht, fino al Fiscal compact del 2012) con l’obiettivo di spoliticizzare il mercato, subordinando ad esso la decisione democratica.
C’è chi ne auspica una maggiore politicizzazione, battendosi “dall'interno” – come si ama dire – per farne una federazione politica vera e propria, che abbia come architrave l’emancipazione sociale e la solidarietà. Puro romanticismo. Dovrebbe infatti accadere ciò che non può mai accadere: cioè che tutti gli stati membri, nello stesso istante, siano d’accordo nel disapplicare i trattati e scrivere una Costituzione europea con a fondamento la subordinazione dell’interesse privato all’utilità sociale. Cioè l’esatta antitesi del progetto dell’UE.
Ma il fanatismo integrazionista e l’“europeismo retorico” (ibid.) impediscono ormai di ragionare. Sono una fede. E come tutte le fedi annebbiano il pensiero razionale. La flessione sotto ogni parametro economico (pil pro capite, indice di produzione industriale, occupazione) che ha caratterizzato la maggior parte degli stati europei, Italia in testa, negli ultimi decenni non viene in alcun modo messa in relazione all’accelerazione che l’integrazione europea ha subito a partire dal 1992, anzi, si sostiene che i problemi irrisolti derivino da una ancora scarsa integrazione: un “aggiustamento epistemologico” (o più semplicemente una forzatura) tipico di chi tenta di risolvere le anomalie emergenti in un paradigma rimanendo ostinatamente all’interno dello stesso paradigma, per usare un lessico kuhniano.
L’europeismo retorico discende da un’ideologia integrazionista trasversale, eretta a bandiera in primo luogo dalla sinistra, rimasta orfana di fedi dopo aver abbandonato la prospettiva socialista. Essa ha infatti abbracciato integralmente la logica del “vincolo esterno” quasi come una misura espiativa e riparatoria rispetto al “senso di colpa” di essere stata per quasi tutto il XX secolo critica e oppositiva nei confronti delle logiche di mercato. Lo ha fatto recidendo qualsiasi legame con la propria tradizione “inter-nazionalista” e richiamandosi in maniera confusa a un mito fondativo – quello di Ventotene – estrapolandone, però, solo gli aspetti coreografici della cooperazione e della “pace perpetua” tra gli Stati e lasciando cadere tutti quegli elementi spoliticizzanti che già i due celebri autori del Manifesto – in particolare Altiero Spinelli – sostenevano con particolare enfasi (cfr. Somma 2022).
L’esito è stata la creazione di una nuova linea di demarcazione tra sinistra e destra: “europeista” la prima, “nazionalista” la seconda. Facendo della più classica linea di demarcazione capitale/lavoro un aspetto meramente decorativo, utile solo per marcare il territorio. A fronte di una sinistra che obliterava il conflitto sociale sostituendolo con un’ideologia astrattamente europeista, perciò, la destra ha trovato un nuovo terreno su cui giocare la sua partita, cioè quello della difesa degli interessi nazionali, coincidenti, però, non certo con quelli delle classi lavoratrici, bensì con quelli del ceto imprenditoriale.
Nei fatti, tuttavia, anche le seducenti istanze della destra hanno dato prova di totale incapacità di tutela degli interessi nazionali. L’attuale compagine che ci governa, infatti, anche se ha costruito i suoi consensi sulla critica alla fede europeista, ha dimostrato (e continuerà a farlo) che nonostante i finti bracci di ferro propagandistici con la Commissione europea e nonostante le finte battaglie culturali per la “italianità”, non si distanzierà di un millimetro da questa matrice ideologica (oggi detta “agenda”) e dai suoi correlati operativi e procedurali (taglio della spesa pubblica, pareggio di bilancio, allarmismo economico) che – come segnalavano avveduti e inascoltati economisti come Federico Caffè – costituiscono una vera e propria tragedia per i lavoratori (non solo) italiani (Fazi 2022).
Chi si richiama convintamente ai valori del socialismo, perciò, oggi dovrebbe avere il coraggio di tematizzare la questione dell’integrazione europea con maggiore lucidità e individuare nuovi strumenti teorici che sappiano decifrare e decriptare il presente, togliendo i paraocchi ideologici e rinunciando, quando è il caso, alle vecchie categorie interpretative. Nel contesto odierno, infatti, “i nostri vecchi argomenti laici, illuministi, razionalisti, non sono solo spuntati e inutili, ma anzi fanno il gioco del potere” (Pasolini 1975: 127). Occorre allora un lavoro ancora più faticoso che in passato. Uno sforzo che sappia riconoscere le insidie che si annidano in ciò che viene presentato come “integrazione”, “opportunità”, “innovazione”. Che sveli e denunci ciò che il potere chiama “riforme” col fine di mascherare la staticità sociale: la “neolingua del circo mediatico” (Preve 1999: 40), infatti, mutando il significato delle parole, ha mutato anche il significato del termine “riformismo”, che cessa di significare “cambiamento graduale”, per diventare una sorta di lasciapassare per lo “smantellamento neoliberista del welfare state e delle conquiste centenarie del vecchio riformismo laburista e socialista” (ibid.).
Il lavoro più urgente, quindi, è quello di recuperare una visione teorica sistemica. Da qui riattivare, nelle forme oggi realisticamente possibili, la categoria del conflitto a sostegno di quella ampia maggioranza che non beneficia dei privilegi dell’economia di mercato e che paga il prezzo dello sviluppo in termini materiali, psicologici, esistenziali. Consapevoli, tuttavia, che il paradigma socioeconomico egemone non si supera dall’oggi al domani e che, probabilmente, è più realistico il ripristino di quel sistema di “economia mista” già sperimentato in Europa nel cosiddetto “trentennio glorioso” successivo al secondo conflitto mondiale e ben rappresentato in alcuni passaggi fondamentali della nostra (tradita) Costituzione.
Occorre dunque procedere con una gradualità tattica che – tenendo ferma la strategia di un orizzonte regolativo egualitario e socialista – si batta per la ricostituzione di una vera forza socialdemocratica. Una forza che non ripudi, d’un sol colpo, il mercato, che ne preservi talune dimensioni ma in un quadro costituzionale orientato all’utilità sociale (v. art. 41) e che rimetta in moto il conflitto redistributivo per recuperare terreno rispetto alle innumerevoli e cocenti sconfitte subite nella lunga e sfibrante “lotta di classe dall’alto” (Gallino) condotta negli ultimi trent’anni dai grandi gruppi economico-finanziari ai danni dei lavoratori e della dimensione pubblica in generale: si vedano, tra le altre cose, l’umiliante e grottesca metamorfosi della scuola in senso burocratico-aziendale e l’erosione lenta e costante della sanità e del diritto alla salute perpetrati negli ultimi decenni da governi di vario colore politico, in ossequio alle direttive (esplicite o implicite) di Bruxelles.
L’attuale sinistra è all’altezza del compito? La risposta è decisamente negativa. Anzi, l’attuale sinistra non ha nemmeno l’intenzione di riappropriarsi di quella tradizione di lotta ai meccanismi perversi della mercificazione totale che l’hanno caratterizzata nel secolo scorso. E tra l’altro è divenuto stucchevole e ozioso trastullarsi con la questione se esista ancora o meno la sinistra o se il PD sia o no un partito di sinistra: la sinistra ha ormai completato la sua metamorfosi da tempo e oggi non rappresenta più i lavoratori. Essa è il principale garante dei dogmi neoliberali e, benché sul piano del significante rimarchi differenze valoriali e identitarie rispetto alla destra, sul piano del significato si mostra omologa alla sua controparte politica, discostandosene solo per questioni tecnico-procedurali, avendo come referente elettorale principalmente i ceti medio-alti.
Una dinamica storicamente già nota, se pensiamo agli inizi della storia unitaria del nostro Paese, dove destra e sinistra erano espressione del medesimo ceto politico, quello che afferiva al campo liberale, con distinzioni poco nette, sicuramente non riconducibili alla più netta linea di demarcazione novecentesca. Le cose, come è altrettanto noto, cominciarono a cambiare solo con l’elezione del primo deputato socialista e la successiva fondazione del Partito dei lavoratori italiani (1892). Nasceva in Italia la prospettiva del socialismo. Che allora – come oggi – era ben altra cosa dalla “sinistra”.
La storia può cambiare solo con una sua rinascita.
Riferimenti bibliografici
D’ANDREA, Stefano (2022), L’Italia nell’Unione Europea. Tra europeismo retorico e dispotismo “illuminato”, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino.
FAZI, Thomas (2022), Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, Milano, Meltemi.
GALLINO, Luciano (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza.
PASOLINI, Pier Paolo (1975), Scritti corsari, Milano, Garzanti (ristampa 2021).
PREVE, Costanzo (1999), Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, Pistoia, Editrice Petite Plaisance.
SOMMA, Andrea (2021), Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Roma, Rogas edizioni.
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