22/10/2017
1953. Opposizione in parlamento e sciopero generale contro la “legge truffa”
Il compagno Felice Besostri, anima cuore e bandiera delle battaglie (vinte) in Corte Costituzionale versus “Porcellum” e “Italikum” lamenta in una sua mail “mentre si fa una deforma istituzionale con una legge ordinaria incostituzionale come il Rosatellum 2.0 senza reazioni apprezzabili delle forze di opposizione, che chiamerei di rassegnazione, fa pensare”.
Disponendo della sola arma della memoria (ormai labile) e non disponendo di alcuna facoltà per stimolare i partiti dell’opposizione e i sindacati nel senso indicato giustamente da Besostri, non posso far altro che offrire al dibattito una ricostruzione (parziale) sul “come” e “perché” fu condotto dalle opposizioni di sinistra lo scontro, in Parlamento e nel Paese, avverso quella che poi sarebbe passata alla storia come “legge truffa”. Correva l’anno 1953.
In premessa aggiungo un ricordo personale: come si noterà per coloro che avranno la pazienza di leggere in quel frangente furono proclamati dalla CGIL ben due scioperi generali.
Chi scrive visse quelle vicenda da ragazzo con grande interesse e partecipazione soprattutto stimolate per via familiare appartenendo infatti ad una vera e propria stirpe di operai di fabbrica iscritti, militanti, dirigenti del PCI.
Ebbene, in quella fase storica si stava vivendo in una città industriale come Savona una fase di scontro sociale molto forte attorno al nodo della riconversione dell’industria bellica, con conseguente difesa dei posti di lavoro nella siderurgia e nell’elettromeccanica.
Savona e Vado Ligure contavano, allora, circa 10.000 addetti nelle fabbriche e gli scioperi risultavano manifestazioni imponenti con la presenza di tutta la Città e il seguito di scontri anche molto violenti con la polizia (i famosi “scelbotti”) che caricavano ed eseguivano caroselli con le jeep salendo sui marciapiedi dove i manifestanti (presenti tantissime donne) cercavano di rifugiarsi.
Un vero e proprio clima di tensione che si ritrovò identico nell’occasione degli scioperi riguardanti la legge elettorale: certo erano tempi da “cinghia di trasmissione” ma la qualità della consapevolezza e della tensione politica erano tali da far comprendere subito agli operai e alle loro famiglie l’importanza della posta in gioco anche sul piano della rappresentanza istituzionale.
Altra cultura politica e altra tensione morale!
Le formule elettorali hanno sempre fornito l’occasione per dibattiti molto accaniti e intensi tra le forze politiche, che hanno cercato frequentemente (come poi è stato realizzato in tempi più recenti) di elaborare dei meccanismi utili alla contingenza della fase e alla convenienza di parte, piuttosto che puntare su di una prospettiva di tipo “sistemico” fondata su di un’analisi di lungo periodo.
Ho pensato allora fosse utile, non soltanto per ragioni di carattere storico, rievocare quel passaggio assolutamente fondamentale nella Storia della Repubblica.
Andando per ordine: il 18 aprile 1948 nelle elezioni per la I legislatura repubblicana la DC aveva ottenuto il 49,8% dei voti e la maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati, formando un governo quadripartito presieduto da De Gasperi e comprendente il PSDI, il PRI e il PLI.
Prima dell’inizio della II legislatura si svolgono in Italia, in due tornate, tra il 1951 e il 1952, le elezioni amministrative e si compie, tra De Gasperi e il Vaticano uno “strappo” circa la proposta, rifiutata dal Presidente del Consiglio, per la formazione di un “listone” alle elezioni comunali di Roma comprendente anche i neo-fascisti del MSI.
L’esito complessivo della tornata amministrativa 51-52 mette in allarme la maggioranza di governo.
Infatti, la DC vede diminuire il suo consenso di ben 13 punti percentuali rispetto al 1948.
Questo significava che, se lo stesso fenomeno si fosse riprodotto al momento delle elezioni politiche, la topografia del Parlamento sarebbe stata profondamente modificata.
Inoltre, il dato che emergeva in modo chiaro dai risultati elettorali era quello della tendenza di un sistema che nella sua prima manifestazione era apparso fortemente bipolare (il Fronte Democratico Popolare aveva ottenuto il 31%, quindi i due primi partiti assommavano circa all’80% dei voti), a diventare almeno tripolare a causa della forte legittimazione ottenuta nella competizione, soprattutto al Sud, dal Partito Monarchico e dal MSI.
Questo risultato produsse nella classe politica di governo e in particolare all’interno della DC quella che viene comunemente definita come “sindrome di Weimar”: ovvero il timore che i partiti posti ai due estremi dell’arco parlamentare possano strategicamente unire le loro due opposizioni contro il governo e rendere, di fatto, il sistema ingovernabile.
In questo clima è maturata, nel timore che lo scontro Est-Ovest potesse travalicare i confini della guerra fredda e portare il mondo verso un terzo conflitto mondiale, la decisione (fortemente sostenuta dagli Stati Uniti) di “blindare la democrazia”, attraverso un cambio del sistema elettorale che permettesse alla formula degasperiana del centrismo di mantenere e consolidare la guida del Paese.
Si avviò così, sul finire della I legislatura, in Parlamento e nel Paese un acceso dibattito, sul progetto di riforma elettorale presentato dal ministro dell’interno Scelba nell’ottobre del ’52.
Con esso si intendeva promuovere l’assegnazione di un premio d maggioranza del 65% dei seggi al partito o alla coalizione di partiti apparentati che ottenessero a livello elettorale un consenso pari almeno al 50% più uno del totale dei voti validi (come si può osservare si trattava, comunque, di un vero e proprio premio di maggioranza, e non di un premio di “minoranza” come nella formula attuale).
La determinazione con cui il governo perseguì l’approvazione del progetto, dimostrata dall’aver posto la “fiducia” in entrambi i rami del Parlamento, l’anomalia delle procedure (in particolare nell’occasione del voto finale al Senato) e le accuse di volontà di manipolazione del risultato elettorale che entrambe le opposizioni lanciarono a più riprese alla Democrazia Cristiana restarono nella memoria collettiva attraverso l’epiteto appunto – di “legge truffa”.
PCI e PSI, in particolare Togliatti, continuarono in quei giorni a puntare continuamente il dito sulle presunte analogie tra la legge elettorale del Governo e la Legge Acerbo (notare la similitudine con le obiezioni avanzate ai nostri giorni, in particolare al riguardo dell’Italikum: nel caso che stiamo esaminando, però, si trattava di una vera legge con premio “di maggioranza” e non di “minoranza” come si è preteso di fare al giorno d’oggi ricevendo la solenne bocciatura della Corte Costituzionale).
L’atteggiamento tenuto da PCI e PSI nei confronti di questo sistema era mosso anche dal timore che tutto questo fosse propedeutica ad una svolta autoritaria a destra e ciò li spinse, quindi, a presentare quattro pregiudiziali sulla pretesa incostituzionalità sulla legge, oltre che una richiesta di sospensiva avanzata da Pietro Nenni. Ma la sera del 9 dicembre la Camera le respinse.
La prima pregiudiziale presentata intravedeva la presunta incostituzionalità della legge nel fatto che “la proporzionale pura sta alla base della nostra Costituzione” e che “la proporzionale rappresenta la conquista più avanzata della Democrazia”. Ma la richiesta non venne accolta dal Governo perché la Carta Costituzionale – rispose Scelba – non contemplava alcuna norma in base alla quale la Camera avrebbe dovuto essere eletta col criterio proporzionale integrale e che neppure esisteva un criterio generale in favore del proporzionale.
La seconda invece riguardava il principio dell’uguaglianza del voto, che con il nuovo sistema elettorale prefigurato dalla legge, secondo le sinistre, sarebbe stato violato. Ma anche questa fu rigettata dal ministro Scelba, che osservò come tale eguaglianza non veniva meno per il semplice fatto che tale criterio era seguito “da Paesi di antica ed autentica democrazia e non è stato seguito per l’elezione del Senato. Per l’elezione di un Senatore, ad esempio, furono necessari 125mila voti in Piemonte, mentre ne bastarono 41 mila in Basilicata”. In effetti, già in quegli anni, in Francia si votava col premio di maggioranza ed in Inghilterra col collegio uninominale. Inoltre la Costituzione si limitava ad escludere il solo voto plurimo.
La terza pregiudiziale invece intravedeva una violazione del principio di tutela delle minoranze etniche presenti nella Valle D’Aosta ed in Trentino Alto-Adige, mentre la quarta – mossa da Togliatti – accusava il governo di voler spianare con questa legge la strada ad un Governo “oligarchico” e quindi ad una successiva riforma arbitraria della Costituzione. Ma anche questa osservazione fu facilmente rigettata dal ministro dell’interno, in quanto, anche se la Democrazia Cristiana avesse ottenuto nella prossima futura legislatura la maggioranza assoluta, essa da sola non avrebbe mai ottenuto quella maggioranza di due terzi necessaria per modificare la Costituzione.
Infine, nelle votazioni seguite subito dopo, le quattro pregiudiziali poste da Togliatti, Basso, Ferrando e Francesco De Martino, riunite poi in una sola, furono tutte respinte per appello nominale, con 314 voti e 180 contrari. Invece successivamente, con 296 voti contro 207 – a scrutinio segreto – venne respinta la sospensiva presentata da Nenni.
Numerose furono le manifestazioni organizzate da PCI e PSI contro questa decisione e a Roma una dimostrazione fu dispersa dalla celere.
Il 20 gennaio la CGIL proclamò uno sciopero generale e in piazza la polizia fu costretta ad intervenire con gli idranti per evitare il precipitare della situazione. In uno di questi scontri rimase contuso fra gli altri anche il deputato comunista e direttore de “l’Unità” Pietro Ingrao. Numerosi furono gli arresti.
Il 21 gennaio dopo una seduta di oltre 70 ore, nel corso della quale intervennero tutti i deputati dell’opposizione, il governo chiese ed ottenne la fiducia. Quindi la legge elettorale venne finalmente approvata con 332 sì e 17 no. Durante il dibattito finale Palmiro Togliatti propose in extremis il ritiro di tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione a patto che il Governo si fosse impegnato a sottoporre la nuova legge ad un Referendum popolare, da tenersi contestualmente al voto delle politiche, ma il Governo rifiutò decisamente la proposta. A questo punto l’opposizione di sinistra abbandonò l’aula per manifestare il proprio dissenso per questa inusitata procedura della fiducia e verso il presidente della Camera Gronchi che l’aveva avallata. Quindi il vicepresidente della camera Fernando Targetti e gli altri membri dell’Ufficio di presidenza appartenenti a PCI e PSI si dimisero.
Il 22 gennaio una delegazione di deputati dell’opposizione (composta dallo stesso Fernando Targetti, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Fausto Gullo e Tomaso Smith) illustrò al presidente della Repubblica Luigi Einaudi le ragioni dell’ostruzionismo sulla legge elettorale e denunciò l’incostituzionalità del modo di procedere del presidente della Camera Gronchi. Einaudi però obiettò loro che non era di sua competenza tenere conto dei rilievi che riguardavano la procedura parlamentare, la cui disciplina ed applicazione era sempre rientrata fra i poteri propri dell’Assemblea attraverso l’emanazione del suo regolamento.
Intanto la legge continuò il suo percorso di approvazione ed il 27 gennaio arrivò alla commissione interni del senato, dove si cominciò ad esaminarla in sede referente, e il 12 febbraio l’aula approvò – con 165 sì e 111 no – la procedura d’urgenza per una discussione veloce della legge, che iniziò il 7 marzo.
In senato però la situazione si mostrò essere più difficoltosa del previsto per il Governo, ma questa volta non solo a causa delle opposizioni. Il presidente dell’aula, Giuseppe Paratore, un liberale di vecchio stampo (da giovane era stato segretario nell’ultimo governo Crispi), era contrarissimo a questa – fino ad allora – inusitata procedura di porre la questione di fiducia su una legge elettorale allo scopo dichiarato di troncare l’ostruzionismo dell’opposizione. Infatti il primo giorno in cui la legge approdò in senato, Paratore ammonì da subito De Gasperi affinché questa insolita procedura “non rappresenti un precedente”. Quindi il PSI e il PCI ne approfittarono per ottenere il suo appoggio riguardo quella proposta di referendum, con cui si sarebbe chiesto ai cittadini se erano favorevoli al nuovo meccanismo previsto da questa legge. Ma il governo rifiutò di nuovo energicamente questa offerta delle opposizioni per due ragioni: per l’imminenza della scadenza della legislatura e soprattutto perché il ricorrere ad un Referendum non abrogativo era estraneo alla carta costituzionale.
De Gasperi quindi continuò nella sua strategia verso l’approvazione della legge e anche qui non mancarono quegli scontri che avevano contrassegnato il primo iter alla Camera. Il 22 marzo il vicepresidente del senato Umberto Tupini – che quel giorno presiedeva la seduta dell’assemblea di Palazzo Madama in sostituzione di Paratore – notò un numero rilevante di assenze fra i banchi della maggioranza. Quindi, malgrado il suo ruolo, sollecitò il Governo a richiedere velocemente la verifica del numero legale per impedire l’approvazione della proposta del comunista Luigi Ruggeri di inversione dell’ordine del giorno, tesa anche questa ad allungare i tempi dell’approvazione della legge elettorale. L’opposizione protestò vivacemente e bloccò per alcune ore la discussione. Allo scopo di attutire gli scontri, intervenne anche la proposta di Ferruccio Parri di ridurre ulteriormente il premio di maggioranza previsto come contropartita per il ricorso al voto di fiducia, ma anche se l’idea fu giudicata positivamente fra i vari schieramenti, non fu accolta dal Governo perché ormai mancava il necessario tempo tecnico. Una simile modifica avrebbe infatti comportato un ulteriore rinvio del testo alla Camera ad appena pochi giorni allo scioglimento della legislatura.
Giunti a questo punto Paratore, dopo un breve colloquio con il presidente Einaudi, si dimise dalla carica di presidente del Senato, sostenendo di non poter più svolgere imparzialmente la propria funzione, e dopo due estenuanti giorni di consultazioni fu scelto come nuovo presidente del Senato Meuccio Ruini, già ministro delle Colonie nel Gabinetto Nitti, che il primo giorno del suo insediamento dichiarò: “Affronto quest’opera con la stessa fermezza con la quale andai, con i capelli già grigi, sul Carso”. Il 25 marzo la sua nomina ottenne l’approvazione di 169 senatori. Quella del candidato delle sinistre, Enrico Molè, ne ottenne solo 109. Ruini nei giorni successivi si rivelò essere un’ottima scelta per De Gasperi, in quanto riuscì a dirigere con fermezza tutto il dibattito sulla legge, diventando una sorta di punto di riferimento nelle polemiche fra la maggioranza e i partiti della sinistra.
Alla fine, alle ore 15.55 del 29 marzo 1953, dopo interminabili battaglie parlamentari e dopo una seduta di 77 ore e 50 minuti, la legge venne approvata anche dal senato. Ottenne ben 174 voti favorevoli e solo 3 astenuti. Infatti l’opposizione al momento del voto abbandonò l’aula, criticando anche qui la procedura utilizzata. Poco prima del voto finale scoppiarono anche violentissimi incidenti, nel corso del quale il ministro Randolfo Pacciardi rimase leggermente ferito, mentre il ministro Ugo la Malfa fu schiaffeggiato dal senatore Emilio Lussu.
Quel giorno anche la CGIL fece la sua parte e proclamò uno sciopero generale.
L’Unità titolò “Ruini l’indegno”.
Il giorno successivo l’opposizione operò il suo ultimo tentativo per impedire la promulgazione della nuova legge elettorale. Anche questa volta una delegazione di senatori della sinistra – ma anche di altri settori politici – composta da Umberto Terracini, Ferruccio Parri, Enrico Molè, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Pasquale Jannaccone, Pietro Tomasi della Torretta ed Alberto Bergamini, chiese ed ottenne un nuovo incontro con il Presidente della Repubblica Einaudi per invitarlo a tener conto delle loro proteste, non promulgando la legge e rinviandone il testo alle due Camere per un ulteriore verifica. La richiesta non venne anche questa volta accolta ed il 31 mattina Einaudi promulgò la legge elettorale e il testo di riforma fu pubblicato nello stesso pomeriggio sulla Gazzetta Ufficiale. Pertanto essa ebbe fin da quel giorno valore esecutivo.
Successivamente – il 4 aprile – Einaudi, oltre alla Camera, sciolse con un anno di anticipo dalla scadenza naturale anche il Senato, in modo da dare ad entrambe le Camere una fisionomia omogenea con questo nuovo meccanismo di voto, e furono fissate le elezioni per il 7 giugno.
Un dibattito arroventato che ebbe anche importanti conseguenze politiche sui partiti che appoggiavano la DC e all’interno dei quali non mancarono le voci di distinguo fino a provare vere e proprie scissioni che sfociarono nella formazione di liste schierate contro l’apparentamento centrista: da PSDI e PRI, Parri e Calamandrei formarono “Unità Popolare”, dal PLI l’ex-ministro Epicarmo Corbino (che aveva sostituito al ministero dell’Economia Luigi Einaudi, quando questi fu eletto alla Presidenza della Repubblica) fondò l’Alleanza Democratica Nazionale e si schierò contro la nuova legge anche un’altra piccola formazione di ex-PCI usciti dal partito a causa dello “scisma” jugoslavo e guidata dai deputati Cucchi e Magnani, “Unità Socialista”. Tre gruppi che, alla fine, non ottennero seggi al Parlamento ma le cui percentuali ebbero indubbiamente un peso sull’esito finale della vicenda.
Anche la campagna elettorale risultò particolarmente “calda”: il responsabile della propaganda del PCI, Giancarlo Pajetta, inventò il celebre motto dei “forchettoni” rivolto ai notabili democristiani e la stessa DC; o meglio un suo giovane astro emergente Umberto Tupini incappò in un clamoroso infortunio, organizzando a Roma una mostra fotografica sulla “Chiesa del Silenzio” per dimostrare le condizioni di vessazione in cui versava la Chiesa Cattolica nel Paesi dell’Est a “socialismo reale”. Fu, però, dimostrato, che la mostra era composta di fotomontaggi e che i sacerdoti ritratti dietro il filo spinato o stretti dalla guardia dei “vopos” se ne stavano tranquillamente a Roma e si erano prestati come comparse.
I risultati elettorali non furono quelli auspicati dal Governo.
A fronte di un notevole recupero da parte della Democrazia Cristiana rispetto ai risultati delle amministrative, infatti, i partiti apparentati non ottennero la maggioranza assoluta per uno scarto minimo di 34.000 voti.
Come era già avvenuto per il referendum istituzionale si parlò di brogli.
De Gasperi, però, non rivendicò il riconteggio delle schede accettando il risultato delle urne, assimilando così il risultato a una sorta di responso referendario sulla legge maggioritaria.
Lo scontro in atto produsse, comunque, un’impennata nella partecipazione, che era già stata alta nel 1948, ma che crebbe sino al 93,8% degli elettori (con il 4,6% di schede nulle e l’1,5% di schede bianche).
Comunisti e socialisti si presentarono, in questa tornata elettorale, separati ottenendo il PCI il 22,6% e il PSI il 12,7%, dimostrando quindi evidenti segnali di crescita rispetto al risultato realizzato dal Fronte Democratico Popolare nel 1948.
Le tre piccole formazioni schierate “contro” la legge maggioritaria ottennero complessivamente l’1,8% (USI 0,8%, Unità Popolare 0,6%, ADN 0,4%) ma risultarono determinanti, spostando voti proprio da PRI; PLI, PSDI nell’ostacolare il raggiungimento della soglia del 50% da parte dei partiti apparentati.
Di grande rilievo risultò, infine, l’avanzamento di monarchici e missini che ottennero rispettivamente il 6,8% e il 5,8%, avanzando nel complesso del 4% (con punte del 21,8% in Campania, anche grazie alla campagna elettorale delle “due scarpe” del sindaco di Napoli, Lauro, del 15% in Puglia, dell’11,6% in Sicilia.)
Il sistema proporzionale si era dunque imposto come la tecnica preferita per l’attribuzione dei seggi e avrebbe permeato gli equilibri del sistema politico italiano per un lungo periodo, fino agli anni’90 del XX secolo.
Concludiamo così questo abbozzo di ricostruzione usato soltanto come esempio della forza di quell’opposizione alla legge maggioritaria e del risultato, davvero “storico”, ottenuto.
Altri tempi e soprattutto diversi soggetti politici: diversi i partiti e diversi i loro gruppi dirigenti.
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