Una narrazione tossica e fuorviante accompagna oramai ogni aspetto della vita politica, sociale ed economica del nostro paese. Di fake news in fake news, si sta costruendo un mondo virtuale, immaginario, totalmente slegato dalla realtà: persino quegli indicatori che fotografano nitidamente una depressione economica senza precedenti, una disoccupazione dilagante, e la diffusione di lavoro precario, sottopagato e senza più uno straccio di tutele, vengono opportunamente manipolati e travisati.
Anche la legge di stabilità, che ha iniziato in questi giorni il suo percorso normativo, non sfugge a questa logica.
Si tratta di una legge di stabilità “snella ma efficace” ha tuonato, soddisfatto, il duo Gentiloni-Padoan. Più che snella ed efficace (certamente lo è per le imprese) si tratta di una legge di stabilità disarmante, per la nonchalance con la quale vengono eluse le vere emergenze sociali del paese, e per il chiaro sapore elettorale: per tentare di attraversare indenni le imminenti elezioni, le misure più feroci sono solo temporaneamente rinviate e consegnate, come una polpetta avvelenata, all’esecutivo che verrà.
Lo sottolineano molto bene alcuni articoli apparsi sul Sole24Ore che, nel benedire la manovra, da un lato evidenziano che le misure “potrebbero garantire al Governo un percorso meno accidentato in una turbolenta fase pre-elettorale”, dall’altro affermano candidamente che si è scelta “la strada del rigore senza ricorrere a misure chock, seppur necessarie”. Come dire, è solo questione di tempo...
La legge di stabilità ammonta a 20,4 miliardi lordi (almeno per ora, perché potrebbe lievitare in corso d’opera), nei quali la parte del leone la fanno i 15,7 miliardi necessari per scongiurare gli aumenti delle aliquote Iva (le cosiddette “clausole di salvaguardia”).
La copertura arriva per 10,9 miliardi dal deficit aggiuntivo rispetto alle previsioni contenute nel DEF della primavera, spuntato nel confronto con Bruxelles.
Gli altri 9,5 miliardi saranno reperiti da un mix di “misure di razionalizzazione della spesa pubblica”, ovvero l’eterna spending review che colpirà i ministeri per un miliardo nel primo anno e poi un altro miliardo negli anni successivi, e “maggiori entrate provenienti in gran parte dalla lotta all’evasione”, ovvero entrate del tutto eventuali.
Insomma, tra i risultati che rivendica il governo vi è quello di aver disinnescato l’aumento dell’Iva che, nella propaganda giornaliera, si traduce nel ritornello “non abbiamo aumentato le tasse”.
Ma è davvero così o siamo dinanzi all’ennesima fake news?
Clausole di salvaguardia: la storia infinita di una trappola finanziaria.
Ripercorrere la storia delle clausole di salvaguardia vuol dire parlare di vincoli di bilancio, di rassicurazioni fornite all’UE circa la tenuta dei nostri conti pubblici e, più in generale, della sudditanza del nostro paese ai diktat di matrice europeista.
Il meccanismo infernale delle clausole di salvaguardia fu introdotto nel 2011 dall’allora governo Berlusconi, il quale si era impegnato con la Commissione europea a reperire entro il 30 settembre dell’anno successivo ben 20 miliardi di euro per tagliare il deficit: a garanzia del reperimento di tali risorse era stato concordato un taglio lineare delle agevolazioni fiscali o, in alternativa, l’aumento delle aliquote Iva, incluse le accise.
Il governo Monti, subentrato a quello Berlusconi a metà novembre 2011, disinnesca parzialmente quella clausola per 13,4 miliardi su 20. Per la parte mancante (6.6 miliardi) fu presa la decisione di non toccare le agevolazioni fiscali, ma di intervenire sull’IVA attraverso la previsione di un aumento dell’aliquota massima dal 21 al 22%.
Toccherà, quindi, al subentrato governo Letta, nell’ottobre 2013, aumentare l’Iva (appunto dal 21 al 22%) e, a sua volta, nella legge di stabilità 2014, disporre che, se la spending review o l’aumento delle entrate non avessero raggiunto gli obbiettivi previsti (3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi a decorrere dal 2017), i soldi si sarebbero dovuti reperire o intervenendo sulle detrazioni o con un aumento ulteriore dell’Iva.
Il governo Renzi, con la legge di stabilità disinnesca per il 2015 la clausola di salvaguardia ereditata per quell’anno, ma, contemporaneamente, a copertura delle misure intraprese ne aggiunge un’altra (comma 718 della legge di stabilità 2015) che avrebbe operato attraverso un incremento automatico e progressivo delle aliquote Iva e delle accise per il 2016, 2017 e 2108. In particolare l’aumento, per quanto concerne l’Iva, sarebbe stato dal 10 al 13% per vari beni alimentari, prodotti farmaceutici, ecc, e dal 22 al 25,5% per tutto il resto.
La flessibilità fiscale accordata in sede europea in questi anni, ha permesso a Renzi di evitare che scattassero le clausole di salvaguardia, esattamente come accaduto a Gentiloni per la legge di stabilità dell’anno in corso.
A tal proposito, giusto per completare il quadro, è bene ricordare che l’Iva – imposta che sta tanto a cuore all’Unione Europea – ha natura palesemente regressiva in quanto incide maggiormente sui redditi bassi rispetto a quelli più alti, tanto è vero che, da più parti, si evidenziano problemi di compatibilità di questa imposta con la nostra Costituzione che, invece, è informata al principio di progressività dell’imposta (articolo 53). Insomma, eliminare l’IVA sui beni indispensabili e lasciarla unicamente per quelli non necessari e di lusso, significherebbe cominciare a riallineare il sistema tributario alla nostra Costituzione.
Come se ciò non bastasse, è bene segnalare che, in un documento della Commissione Europea del gennaio 2014, relativo alle aliquote Iva applicate nei diversi Stati membri dell’UE, risulta che l’Italia con il 22% sia assolutamente nella media dei 28 Paesi dell’Unione (21,5%).
Infatti, la Germania presenta un’aliquota del 19%, la Francia del 20% e la Spagna si avvicina all’Italia con l’aliquota del 21%.
Insomma, il risultato che il governo Gentiloni sbandiera è quello di aver scongiurato (per ora, ovviamente...) l’aumento dell’aliquota di una imposta che presenta dubbi dal punto di vista della sua costituzionalità e che oggi è già allineata alla media dei paesi dell’Unione Europea.
Non propriamente quello che si potrebbe definire un successo...
Operazione verità: le clausole di salvaguardia sono una spada di Damocle che pende sulla testa di milioni di lavoratori!
L’escamotage di utilizzare, nel caso di mancato reperimento delle risorse imposte dall’UE per abbattere il disavanzo, le clausole di salvaguardia di aumento dell’IVA, e di trasmetterle di governo in governo è stata, quindi, una prassi utilizzata da qualsiasi inquilino di palazzo Chigi per “buttare la palla avanti” e prendere tempo, senza mai rinunciare a mostrarsi credibili ed affidabili agli occhi dell’Europa e dei mercati.
Il punto politico è che quelle clausole di salvaguardia sono parte integrante di quei vincoli di bilancio (articolo 81 della Costituzione) imposti dalla governance europea che hanno di fatto trasformato i nostri diritti costituzionali in diritti destinati a valere nei limiti di un bilancio statale governato dall’esterno. La “benevolenza” con la quale le istituzioni europee, ogni tanto, concedono un po’ di flessibilità fiscale è quindi assolutamente interna a questa logica e risponde ad esigenze di mero calcolo politico dettato dalla contingenza. Allentare un po’ la corda può, quindi, servire a Bruxelles, in un dato momento, per non disarcionare il governo di turno, per non creare turbolenze, specie se in prossimità di appuntamenti referendari o di scadenze elettorali.
Ma i trucchi contabili non possono durare all’infinito: il conto presto arriverà e sarà molto salato, ed anche il cappio delle clausole di salvaguardia si stringerà attorno al collo di buona parte della popolazione.
Entro la fine dell’anno, infatti, dovrà essere ratificato il trattato di Stabilità, più tristemente noto col nome di Fiscal compact, un meccanismo infernale che ipotecherà le nostre vite per i prossimi 20 anni
E, sullo sfondo, la proposta di riforma dei trattati europei avanzata dall’ex ministro delle Finanze della Germania Schauble: spostare il potere di controllo sui bilanci pubblici degli stati membri, dalla Commissione europea (organo politico, se pur non elettivo, ritenuto addirittura troppo sensibile alle pulsioni della politica...) al MES (Fondo Salva Stati) perché quest’ultimo, composto da tecnici, garantirebbe un approccio più “neutrale”.
Insomma una sorta di FMI “made in Europe” a presidio dei nostri bilanci. Non c’è dubbio, il tempo dei trucchi contabili sta irrimediabilmente terminando.
Diventa necessaria una operazione verità per il presente e il futuro del paese. Lo sciopero generale del 10/11 e la manifestazione nazionale a Roma di sabato 11 novembre servono a questo, a squarciare il velo.
Piattaforma Eurostop
Fonte
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