Della normalizzazione, e della conseguente ri-legittimazione, del
neofascismo abbiamo scritto varie volte. Superati i clamori
dell’ennesima polemica ad usum media – stavolta è toccata ad
Anna Frank – si tornerà a considerare normale la partecipazione
neofascista alla spartizione mediatico-culturale del paese. Lo
sdoganamento passa soprattutto attraverso l’attivazione di determinati frame narrativi
falsamente obiettivi, in realtà volti alla costruzione di un ambito di
legittimità sociale del neofascismo che ne rilancia il ruolo politico.
In questi giorni sono andati in onda due “servizi” “giornalistici” sul
neofascismo romano. Il primo apparso su Nemo – nessuno escluso del 12 ottobre, riguardante Forza nuova; il secondo pubblicato sul sito del Corriere della Sera il
25 ottobre, focalizzato su Casapound e le elezioni di Ostia del
prossimo 5 novembre. Nonostante parlassero di territori ed
organizzazioni differenti, i due servizi utilizzavano lo stesso
linguaggio narrativo, il medesimo schema giornalistico.
Primo: scorrono immagini della periferia socialmente degradata,
abbandonata dalle istituzioni e dalla politica; secondo: si accavallano
brevi estratti di interviste ad alcuni residenti locali eletti a simbolo
del suddetto degrado, con ampia drammatizzazione estetica (immagini
tragiche, tappeto musicale ansiogeno, microfono aperto); terzo: arrivano
loro, i fascisti, sempre e comunque presentati come unica
presenza politica nel degrado appena raccontato. Poco importano, a
questo punto, le parole, i cori, le interviste ai militanti e dirigenti,
le contraddizioni evidenti che esprimono, il falso ruolo
dell’accusatore personificato dal giornalista: il gioco è ormai fatto.
Qualsiasi cosa dicano, pensino, esprimano, qualsiasi contraddizione può
rilevare il telespettatore, qualsiasi “sagace” domanda del giornalista,
il messaggio forte (e unico) che rimane impresso è che i fascisti
saranno pure “strani”, “estremisti”, “nostalgici” o “razzisti” ma
rappresentano comunque l’unica alternativa politica al degrado
della periferia. D’altronde il montaggio delle interviste ai vari
residenti lascia pochi dubbi: nessuno si dice fascista (e quando mai...),
ma tutti simpatizzano per i militanti neofascisti, bravi
ragazzi, in fondo e, tutto sommato, neanche così fascisti. Maledizione,
se così stessero davvero le cose verrebbe anche a noi il dubbio se
votarli o meno. Il problema è che decostruire l’artificio ideologico su
cui si fondano servizi del genere è sempre più impervio, visto che nel
frattempo non solo si è divaricato il rapporto tra realtà e verità, ma è
anche venuta meno la differenza tra realtà e racconto mediatico della
stessa.
Partiamo dal principio. Le immagini del degrado, dell’abbrutimento
sociale, della devastazione umana che regna in periferia, non hanno mai
un responsabile. Il degrado esiste in quanto tale, non è il prodotto di
determinate politiche, di particolari scelte economiche e sociali. Al
più, è “la politica” – fumosamente e indistintamente intesa – ad essere
l’unica controparte sul banco degli accusati. Una politica, attenzione,
intesa unicamente come “ceto politico”, e questo descritto unicamente
nei termini della “casta”. E’ la casta, si scorge nei servizi
giornalistici, la colpevole unica, additata al pubblico ludibrio come
fonte di ogni male. Una casta indistinta, senza differenza politiche al
proprio interno, oscura e rinchiusa nel “palazzo”. Non c’è apparente
traccia ideologica, ed è proprio questo il livello ideologico di servizi
giornalistici costruiti in questa determinata maniera. La “casta” serve
a depoliticizzare le responsabilità politiche del degrado, rendendole
indistinte, distanti, impercettibili.
Meno che mai appaiono i responsabili economici del degrado
raccontato. Nessuna relazione riusciremmo a scovare tra la penuria di
case popolari, l’aumento degli affitti, l’emergenza abitativa e il ruolo
dei palazzinari; nessun rapporto è dato rilevarsi tra l’abbandono
economico della periferia, l’impoverimento del tessuto produttivo e
l’apertura sconsiderata dei centri commerciali, cattedrali del commercio
che desertificano la produzione territoriale e aumentano la
disoccupazione nella periferia; nessun collegamento potremmo stabilire
tra il traffico, l’impossibile mobilità e la privatizzazione del
trasporto pubblico urbano; inutile tentare di legare la scarsa pulizia
urbana ai tagli del personale pubblico. Come detto in precedenza: il
degrado sociale presente in periferia non ha responsabili puntuali, ma
solo feticci da agitare utili alla contrapposizione populista (la
“casta” contro il “popolo”). Impossibile, poi, mettere in relazione i
responsabili politici di cui sopra con le scelte economiche appena
ricordate: il tutto verrebbe presentato come “ideologia”, “parlar
d’altro”, “fare politica”, esattamente ciò che vorrebbe essere espunto
dalla cornice narrativa così sapientemente costruita.
Punto secondo, i fascisti. Come abbiamo poc’anzi detto, questi vengono presentati sempre e comunque
come unica presenza politica nella periferia, ruolo questo che mette
oggettivamente in secondo piano qualsiasi altra loro presunta
contraddizione successivamente rilevata dal giornalista. Tralasciamo per
un momento il tentativo (riuscitissimo) di de-ideologizzare il
contenuto politico del neofascismo, presentandolo sempre e comunque
come “organizzazione dal basso” della “gente del quartiere”. I
neofascisti così presentati non si caratterizzano per il razzismo,
l’antisemitismo, la xenofobia, la violenza, eccetera, ma come ong del
sociale, poco politica e molto pratica, pochissimo teorica e molto
pragmatica. Come detto, tralasciamo l’argomento per concentrarci sulle
“contraddizioni” rilevate di volta in volta dal giornalista di turno.
Queste costituiscono in realtà delle false contraddizioni,
contraddizioni cioè che rafforzano – piuttosto che indebolire – la
vittima. In primo luogo, in realtà quello meno importante: stiamo
parlando di poche decine di persone (nel caso di Forza nuova, una decina
in tutta Roma). Eppure, attraverso il travisamento-bombardamento
mediatico a cui sono/siamo sottoposti, sembrano migliaia di militanti
sociali presenti nei quartieri. E’ il tipico caso di frattura narrativa
tra realtà e sua rappresentazione mediatica: a forza di parlarne la
gente crederà davvero che questi neofascisti siano tantissimi, quindi si
produrrà l’effetto assuefazione che contribuisce fortemente alla loro
legittimazione: se sono tanti significa che il loro messaggio politico è
convincente. E invece non è così: sono dieci stronzi. Ma chi lo sa?
Persino i compagni cadono nel difficile discernimento tra realtà e
rappresentazione, credendosi accerchiati da orde fasciste che però sono
tali solo in televisione (e nella virtualità online).
Secondo poi, le contraddizioni secondarie rilevate dal giornalista servono a nascondere le contraddizioni principali del
neofascismo nei quartieri popolari. Prendiamo il caso di Ostia, cioè di
Casapound. Il clan Spada, insieme ad altri (Fasciani, Senese, ecc) gestisce il racket degli stabilimenti balneari,
che è uno dei principali problemi lavorativi, economici, ambientali e
turistici del litorale. Ostia, un litorale dalle straordinarie
potenzialità turistico-ricettive, è da anni abbandonato al degrado proprio per la presenza abusiva di stabilimenti che impediscono il libero accesso al mare da parte di turisti e residenti. Ecco, tutta la campagna elettorale di Casapound a Ostia è fondata sul rapporto tra neofascismo e stabilimenti balneari. Il motivo è d’altronde immediato: la relazione, accertata,
esistente tra Casapound e gli Spada. Questo il primo caso di degrado
che ha una precisa responsabilità politica: il neofascismo. Tanto quello
sociale, che si manifesta nelle relazioni territoriali nel quartiere,
quanto quello politico che tira le fila di queste relazioni. Casapound,
presentata come “soluzione” al degrado, fa al contrario ampiamente parte
del problema.
Rimaniamo a Ostia. I suddetti clan mafiosi gestiscono anche il racket delle case popolari.
In questo caso utilizzare la parola racket è adeguato, perché non si
tratta delle occupazioni popolari e collettive portate avanti dai
movimenti di lotta per la casa o da singoli occupanti in condizione di
disagio abitativo, come ce ne sono a migliaia in tutto il territorio
romano, ma della compravendita truffaldina e sottobanco di case
appartenenti al Comune e rivendute a privati dietro compenso monetario.
Uno dei motivi (certo non l’unico) per cui a Ostia mancano le case
popolari è che queste sono sottratte alla redistribuzione prevista nelle
(pessime) graduatorie comunali, ma privatizzate di fatto dai clan
mafiosi. Torniamo così alla relazione tra Casapound e gli Spada: perché i
responsabili dell’emergenza abitativa di Ostia vengono presentati come
possibile soluzione ai problemi del territorio? Perché invece di
lasciare il microfono aperto ai selezionati residenti di Ostia non gli
viene preventivamente spiegata la natura e i responsabili della loro
condizione abitativa?
Questi e altri esempi potrebbero accavallarsi a non finire,
l’importante è però cogliere il senso di questa operazione di
legittimazione mediatica che sorregge lo sdoganamento politico del
neofascismo. Al “potere”, tanto mediatico quanto politico, non interessa
il neofascismo in quanto tale. Non siamo nella fase storica in cui c’è
necessità di governare le relazioni sociali attraverso lo strumento del
fascismo: siamo nella più perfetta pace sociale. La legittimazione del
neofascismo serve alla delegittimazione dell’antifascismo, o meglio:
all’espulsione dei caratteri antiliberali dell’antifascismo
sociale. La posta in gioco è l’impermeabilità della democrazia liberale,
la chiusura dello spazio politico per chi non riconosce le fondamenta
liberali/liberiste della rappresentanza politica, tanto nazionale quanto
europea. Il neofascismo è il grimaldello, ma utilizzato in forma
diversa da come è stato utilizzato nel Novecento. Se nel primo Novecento
è servito alla repressione delle classi popolari, e nel secondo
Novecento alla repressione delle avanguardie politiche comuniste, nel
XXI secolo questo serve alla legittimazione retrospettiva della
democrazia liberale quale unico ambito politico della ragionevolezza.
Anche gli argomenti per combatterlo vanno dunque calibrati in tal senso
(gli arnesi, invece, rimangono sempre quelli).
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