Il Partito comunista che autorevoli politologi hanno dato più volte per spacciato si appresta a celebrare il 19° congresso, a quasi cento anni dalla sua fondazione nel 1921 a Shanghai. E, contrariamente alle profezie di sventura, l’ascesa della Cina e i cambiamenti nell’assetto internazionale gli stanno restituendo un rinnovato protagonismo.
A tenere banco in queste ore sono soprattutto le previsioni sui nomi dei cinque nuovi membri del potentissimo Comitato permanente del Politburo che verranno scelti per affiancare il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang. “Questo non è Game of Thrones!” ha sbottato il Quotidiano del popolo contro i media occidentali, tutti concentrati sul toto leader.
In effetti ciò che andrebbe analizzato con più attenzione, al di là dei pur rilevanti giochi della élite al comando, è la capacità del Pcc – nato avanguardia rivoluzionaria di intellettuali e militari e cresciuto fino a trasformarsi in una organizzazione di 90 milioni di iscritti che tiene assieme padroni e lavoratori – di gestire i processi di trasformazione in un paese di 1,4 miliardi di abitanti non ancora completamente uscito dalla povertà e segnato da profonde differenze regionali e diseguaglianze crescenti.
Ebbene negli ultimi cinque anni trascorsi tra il 18° congresso e quello che si apre dopo domani (oggi per chi legge, ndr) nella Grande sala del popolo di Pechino, il Partito si è auto inflitto una gigantesca mani pulite per combattere i tarli del malaffare; ha affrontato l’altrettanto perniciosa catastrofe ambientale; ha intrapreso un cambiamento di modello produttivo per portare l’economia cinese al livello di quelle più avanzate.
La Commissione centrale di vigilanza ha punito decine di migliaia di funzionari corrotti di ogni grado, stroncando la carriera anche ai principali avversari politici di Xi. Il governo centrale ha varato leggi e imposto direttive che hanno ridotto l’inquinamento atmosferico. I massicci investimenti in automazione e ricerca e sviluppo stanno trasformando l’ex fabbrica del mondo in un paese capace di sfornare brand innovativi, soprattutto nel settore hi-tech, e lanciarli sui mercati internazionali.
Sotto la guida di Xi il Pcc ha mostrato una straordinaria reattività nel circoscrivere e affrontare problemi potenzialmente esiziali per il Partito-Stato.
Il tutto è stato fatto con metodi autoritari che si iscrivono nella millenaria tradizione di governo del Paese e nella storia del Partito unico che lo governa ininterrottamente dal 1949.
D’ora in avanti sarà ancora più interessante seguire il vento che soffia a Pechino, in un mondo sempre più caratterizzato dal risorgere dei nazionalismi, nel quale si affermano leadership forti come quelle di Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan o longeve come quella di Angela Merkel, mentre Donald Trump mette a nudo le difficoltà strategiche degli Stati Uniti.
E Xi Jinping?
Nei suoi primi cinque anni da segretario generale ha attaccato la burocrazia, combattuto e ridotto al silenzio le fazioni all’interno del Pcc, ha creato e si è messo a capo di una serie d'influenti comitati direttivi e ha diffuso il suo pensiero politico utilizzando tutti i media a disposizione, ha ristretto ulteriormente gli spazi di libertà a disposizione della società civile.
Un accentramento indiretto del potere nelle mani del segretario generale, senza tuttavia un vero e proprio strappo alle regole non scritte del Partito riformato da Deng Xiaoping.
La leadership cinese affronta quotidianamente una realtà più instabile di quella che hanno davanti il presidente russo e suoi oligarchi, quello turco alfiere del neo-ottomanesimo e la cancelliera tedesca delle grandi e piccole coalizioni.
Chi guida la Cina di oggi è infatti costretto a fare i conti con la contraddizione tra un Partito-Stato che continua a garantire una parte rilevante di benessere e a rivendicare il controllo sull’economia, e un sistema produttivo al centro dei veloci e imprevedibili processi di globalizzazione.
Xi Jinping, la cui popolarità non accenna a diminuire, lo sta facendo con abilità, conciliando patriottismo, confucianesimo, maoismo e liberoscambismo, e alimentando l’aspirazione del popolo a far parte di una nazione finalmente “ricca e forte”, un traguardo rincorso da tutti i governi che si sono succeduti fin dal tentativo di riforma della dinastia Qing nel primo decennio del secolo scorso.
È questo il cosiddetto “sogno cinese” di Xi, che ha bisogno di un Partito più efficiente e verticistico.
Il 19° Congresso ci dirà se il Partito è disposto ad investire questo presidente di ulteriori poteri nel tentativo di realizzarlo.
di Michelangelo Cocco - Direttore del Centro Studi sulla Cina Contemporanea, articolo ripreso da Cinaforum.it del 16 ottobre
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