Il Governo Meloni presenta la sua prima legge di bilancio
e, come ampiamente preannunciato, si ripresenta per l’ennesima volta la
telenovela del “taglio al cuneo fiscale”: una specie di creatura
mitologica sempre evocata (e spesso già praticata, come vedremo) al
grido di “mettere soldi nelle tasche delle persone”, ma mai
capace di rilanciare positivamente i salari e nonostante ciò
continuamente indicata come causa principale di un presunto
“insopportabile costo del lavoro” che impedirebbe alle imprese nostrane
di pagare in maniera adeguata i propri lavoratori.
Prima di commentare l’intervento
inserito in legge di bilancio, è opportuno ricordare che cos’è il cuneo
fiscale, e richiamare qualche dato di realtà relativamente alla sua
entità.
Il cuneo fiscale, definito come la
differenza fra il costo che l’impresa sostiene per un lavoratore e il
salario netto che questo riceve, è dato principalmente dalla somma di
imposte dirette (a carico del lavoratore, anche se trattenute dal datore
di lavoro) e contributi previdenziali (sia a carico dell’impresa che
del lavoratore); tutte voci, come si vede, che fanno parte a pieno
titolo del salario corrente o differito (e già questo dovrebbe chiarire
l’ipocrisia di chi sostiene che “per aumentare i salari occorre tagliare il cuneo”).
Solitamente, il cuneo fiscale viene espresso in misura percentuale,
come rapporto fra il cuneo stesso e il costo del lavoro complessivo.
A questo punto, vista l’insistenza con
cui nel nostro dibattito pubblico viene posta la questione, le prime
domande da farci sono: ma veramente in Italia il cuneo fiscale è alto in
maniera così anomala (ad esempio rispetto ad altri paesi)? Ed è questo
il motivo per cui gli stipendi italiani sono così bassi?
Beh, non si direbbe, almeno a leggere i dati pubblicati dall’OCSE nel rapporto “Taxing Wages”
che, prendendo ad esempio un lavoratore singolo senza figli e con un
salario pari al salario medio nazionale, ci dice che l’Italia è
posizionata sì nella parte alta della “classifica” relativa al cuneo
fiscale, ma comunque alle spalle di altri fra i più importanti paesi
europei.
Insomma, a dire dell’OCSE, il Italia
il cuneo fiscale è sì alto ma comunque inferiore a quelli di altri paesi
europei talvolta portati ad esempio per quanto riguarda il livello
salariale.
Ma allora, se il valore assoluto del
cuneo fiscale non serve a giustificare i nostri salari da fame, non sarà
che l’insistenza data a questo tema dipende dal fatto che si tratta
comunque di un dato in crescita? Eh no, neanche questa spiegazione regge
(ci dice sempre l’OCSE); infatti in Italia il cuneo è calato di 0,7
punti dal 2010 ad oggi, e addirittura di 2,8 punti se prendiamo a
riferimento salari più bassi, pari a due terzi del salario medio.
In altre parole, nonostante (o, se
preferite, proprio perché) il mantra di qualsiasi governo negli ultimi
15 anni sia stato “finalmente ora interverremo sul cuneo fiscale”, in
realtà tale aggregato è stato già oggetto di numerosi interventi (tanto
da parte di governi di centro-sinistra che di centro-destra), e
nonostante questo sfidiamo chiunque a sostenere che i salari, specie
quelli più bassi, abbiano incrementato il proprio potere di acquisto
nello stesso periodo.
Ripetiamo quindi quello che questi
dati ci dicono: NO, non è vero che il cuneo fiscale in Italia è
straordinariamente alto rispetto agli altri paesi europei, e SÌ, il
cuneo è già diminuito nel corso degli ultimi anni, ma questo non ha
portato nessun beneficio ai lavoratori.
La domanda naturale da porsi diventa
allora: perché un intervento che dovrebbe nelle intenzioni dei
proponenti “mettere più soldi in tasca” ai lavoratori non ha alcun
effetto sulle loro condizioni? Ci sono almeno tre risposte possibili:
1. Il taglio del cuneo fiscale
rappresenta una minore entrata per lo Stato, ma per un paese come
l’Italia (che più di altri ha imboccato la via dell’austerità imposta
dalle regole di bilancio europee) il dogma del pareggio di bilancio
impone che a una minore entrata corrisponda un aumento di qualche altra
imposta, e tipicamente negli ultimi due decenni abbiamo assistito a una
diminuzione delle imposte dirette e a una crescita di quelle indirette
(ad esempio, nello stesso intervallo 2010-2021 in cui come detto il
cuneo è diminuito di 0,7 punti per i salari medi e di 2,8 punti per
quelli più bassi, abbiamo che l’aliquota IVA ordinaria è aumentata di 2
punti, dal 20% al 22%); e non si tratta – si badi – di un cambiamento
neutrale, perché le imposte sui consumi sono strutturalmente regressive
comportando un onere proporzionalmente maggiore per i redditi più bassi.
2. Inoltre, qualora lo Stato non
volesse aumentare altre imposte, per finanziare il taglio del cuneo
(ovviamente sempre senza sfidare il tabù dell’austerità) dovrebbe
necessariamente diminuire le proprie spese, e l’esperienza ci insegna
che la spesa sociale finisce sempre per essere il primo agnello
sacrificale; avremmo così che quei “pochi maggiori euro in tasca” se ne
andrebbero immediatamente in maggiori spese private sostenute dai
lavoratori per visite mediche, aumenti delle tariffe dei trasporti
pubblici, etc.
3. Infine, in termini di impatto
distributivo diretto l’esito di una riduzione del cuneo fiscale è
tutt’altro che scontata. Se a seguito di un simile intervento un
lavoratore si trova con qualche euro in più in tasca (pochi o tanti, non
importa), sarà gioco facile del datore di lavoro – in occasione del
rinnovo del contratto – dire qualcosa del tipo “avete già avuto” e
negare (o mitigare) la normale crescita dei salari che si avrebbe anche
in un mercato del lavoro asfittico come quello italiano. Ed è così che
un onere che dovrebbe essere sopportato dalle imprese viene invece messo
di fatto a carico della fiscalità generale. Piccoli, modestissimi
aumenti salariali che anziché andare a discapito del profitto vengono di
fatto pagati dalla collettività attraverso i tributi. Tributi che, come
noto, ricadono in larga parte sui redditi medio-bassi da lavoro o da
pensione. Insomma, una redistribuzione interna allo stesso piatto:
quello dei redditi da lavoro.
In definitiva la riduzione del cuneo
fiscale finisce facilmente per essere un ostacolo alla contrattazione
salariale anziché favorirla. Siamo noi ad essere malpensanti? In verità
la stessa cosa la dicono persino due economisti insospettabili come Boeri e Perotti,
i quali sostengono che nel giro di pochi anni le imprese riescono a
“catturare” fino al 90% del valore di una iniziativa di detassazione
inizialmente pensata a favore dei lavoratori.
Ecco dunque svelato l’arcano del
perché la strada del cuneo fiscale non solo non è adatta a difendere e
accrescere i salari, ma è continuamente evocata tanto dalle imprese (che
la vedono come via per aggirare la contrattazione salariale e quindi
non mettere in discussione i propri margini di profitto) quanto dai
governi che facilmente recuperano con la mano sinistra quanto
apparentemente concesso con la mano destra.
Con questo quadro teorico e fattuale
in testa, arriviamo finalmente a commentare l’ultimo intervento sul
cuneo fiscale, contenuto nella prima legge di bilancio del Governo
Meloni per scoprire che banalmente non c’è nessun taglio (o, se
preferite, taglia ciò che era stato già tagliato).
Infatti la manovra si limita a
rifinanziare per il 2023 (senza, quindi, renderlo permanente) il taglio
del 2% dei contributi previdenziali già deciso (in via transitoria, con
il cosiddetto Decreto Aiuti-Bis) dal Governo Draghi fino a dicembre 2022
per i lavoratori dipendenti con reddito annuo fino a € 35.000, e
aggiunge un ulteriore taglio dell’1% per i lavoratori con reddito fino a
€ 20.000: in sostanza, si stima che questo porti in tasca (ma appunto
solo ai lavoratori con salario sotto i 20.000 euro) 11 euro in più al mese.
In più, il tutto viene calcolato su base mensile, per cui basta che un
lavoratore faccia poche ore di straordinario e per quel mese rischia di
perdere anche questo beneficio. Insomma, se in generale, come detto, il
taglio del cuneo fiscale non è lo strumento per difendere i salari, il
Governo Meloni sembra essere riuscito nel capolavoro di averne inventato
una versione che non riesce neanche a mettere quei famosi “soldi in più
in tasca”! Se mai servisse ancora ecco l’ennesima prova del chiaro
indirizzo intrapreso dal nuovo Governo in continuità con i precedenti:
austerità e difesa dei profitti.
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