Basterebbe l'incipit per ridare lustro a un aggettivo ormai
logoro come "kafkiano" e consegnare "Dead Man" alla storia del cinema a
stelle e strisce. Nero di carbone in volto, labbra bianche (quasi un minstrel,
verrebbe da pensare) e occhi di ghiaccio, il macchinista-indovino
scruta il passeggero William Blake e ne diviene interprete: "Guarda
fuori dal finestrino. Non ti torna alla memoria di quando eri nella
barca? E di quando quella notte eri disteso, lo sguardo rivolto al
cielo, e l'acqua di cui ti ricordavi non era poi così diversa dal
paesaggio... Tu ti chiedesti: ‘Come mai il paesaggio si sta muovendo ma
la barca è ferma?' E ancora... Da dove vieni tu?"
Soltanto
questi cinque minuti racchiudono, liofilizzati, tutto Kafka, tutto
Jarmusch, tutto Cormac McCarthy, tutto Samuel Beckett. Minuti che
procedono a singhiozzo fra squarci di visione, racchiusi in minime
porzioni di filmato poi riconsegnate all'oblio. Impressioni registrate
da quel substrato della coscienza non vigile. Movimenti involontari.
Particolari d'ambiente: il dettaglio della lampada a olio che dondola,
gli sguardi incuriositi dei passeggeri. Ancora il treno, luogo
cinematografico per eccellenza: noir, western, migliaia di partenze e di
addii, mozziconi ancora umidi ammassati nei posacenere a specchio,
cabine letto in cui si ha amato o ucciso. Il particolare dei macchinari
fumanti, tedesco (meglio: "langhiano") all'inverosimile. Pistoni in
funzione. Il fingerpicking di Neil Young che, a passo di
lumaca, sfibra la sei corde in un balbettio di elettricità pura. Blake,
timido e riservato, che cerca un appiglio visivo, ma tutto gli è estraneo.
"Guarda, stanno sparando ai bisonti" dice ancora il macchinista, impassibile, mentre dai finestrini del vagone si consuma la carneficina. E continua a fissare Blake. Impaurito, William si raggomitola su se stesso, aggrappandosi alla sua valigia, al pezzo di carta che certifica la sua assunzione presso la ditta Dickinson, alle certezze che, passo dopo passo, gli verranno tolte. Come svanite. Dissolvenza.
*****
Filmato in uno splendido bianco e nero, "Dead Man" non è un film western (alcuni lo hanno paragonato al "guscio di un western") e non rispetta nessuno dei clichè o dei codici morali che, da Ford in poi, hanno contraddistinto il genere in questione, nemmeno dopo la rivoluzione messa in atto da Sam Peckinpah. I riferimenti appaiono altri, per lo più estranei: le meditazioni sacrali di Yasujiro Ozu, l'epica di Akira Kurosawa, il gusto per la decostruzione di matrice postmoderna dell'Altman di "McCabe & Mrs. Miller" o, se proprio si vuole fare gli chic, la mistica vergata da Alejandro Jodorowskj ne "El Topo" (tutti film fatti su misura per "Fuori Orario", tanto per intenderci). Questo perché "Dead Man" è un percorso interiore, un'allegoria esistenziale ambientata casualmente (mica poi tanto...) nel Far West ma in realtà senza tempo né spazio, solenne tentativo di visualizzare (l'assenza del)la vita e, in contemporanea, perfezionare i canoni estetici di una poetica intera.
La trama è presto detta: il giovane William Blake (un Johnny Depp che sarà ormai stereotipato quanto si vuole, ma resta corpo cinematografico di rara malleabilità) giunge da Cleveland alla città di Machine, lì ha un paio di "disavventure" con la gente del luogo e, gravemente ferito, si trova costretto a fuggire attraverso labirinti di boscaglia e montagne. A guidarlo in questo percorso è l'indiano sui generis chiamato "Nessuno", mediatore fra la cultura occidentale e quella dei pellerossa, bislacca figura in cui collidono i temi, da sempre cari a Jarmusch, dell'integrazione e dell'amicizia fra stranieri. Mentre i due "senza patria" penetrano la natura ispida e terminale del landscape, il loro cammino assume, poco a poco, i connotati di un percorso iniziatico durante il quale Blake si prepara al trapasso, al proprio impercettibile dissolversi in slow motion. L'apprendimento della violenza e la comprensione della sua crudele poesia ("Sembra quasi una cazzo di immagine sacra" bofonchia uno dei sicari incaricati di stanarlo, guardando il cadavere di uno sceriffo) sono, in questo contesto, tappe obbligate per dare senso a un'esistenza percepita come forma neutra, mediana: innocuo meccanismo biologico disposto a "farsi vita" soltanto nel momento in cui Blake lascia di sé traccia, seminando cadaveri.
Machine è l'ultima fermata di un uomo che già aveva perso tutto (i genitori, la fidanzata) e che si prepara all'ultimo viaggio: la pallottola conficcata vicinissima al suo cuore è indizio del processo di decomposizione, silenziosa ma ingombrante presenza di una morte "in potenza" che attende di farsi evento sensibile. Ci sarebbe voluto Chris Watson (ex Cabaret Voltaire) a piazzare microfoni dentro la quasi-carcassa e registrare il tutto, ma fa niente: basta (e avanza) concentrarsi sulla macchina da presa, occupata a interiorizzare un paesaggio di corpi senza peso, spesso facendosi tutt'uno con il senso di disorientamento provato dal protagonista nel vedersi scivolare via da se stesso, dal proprio essere. Un togliere (da noi stessi, dagli altri) senza avere in cambio alcunché, se non la consolatoria cessazione degli affanni. E del proprio respiro.
Nessuno (rivolgendosi a Blake): "Hai ucciso l'uomo bianco che ti ha ucciso?"
Blake: "Io non sono morto..."
Dissolvenza.
Quello di Jarmusch resta, in fondo, teatro dell'assurdo, degli accostamenti improbabili: il giullare Roberto Benigni nel jailbreak movie "Down By Law", Forest Whitaker a misurarsi con le arti samurai in "Ghost Dog", il bambolotto Iggy Pop e l'orco Tom Waits a farsi un caffè e mal celare la reciproca (e si spera finta) antipatia in uno degli episodi più spassosi di "Coffee And Cigarettes". Personaggi che, a scapito del loro intimo fulgore, sono condannati in partenza, poiché a nulla servono i loro tentativi d'evadere da una realtà estranea, aliena tanto quanto il risuonare "ungherese" di "I Put A Spell On You" (Screamin' Jay Hawkins) nei ghetti di New York, durante quel memorabile carrello di "Stranger Than Paradise".
Pure in "Dead Man" resta intatto il gusto per il paradosso e il confronto fra culture, così come l'utilizzo di espedienti narrativi apparentemente risibili: l'intrallazzo del protagonista con la ragazza che fabbrica rose di carta, i cazzeggiamenti dei tre gringos assoldati per "finire" Blake, o l'incontro con un trio di guerci in cui ancora Iggy Pop veste i panni della massaia (!). Eppure lo humour beffardo che sgorga dall'opera non riesce a far passare in secondo piano l'intima tragicità di un road movie tranquillamente equiparabile non tanto alla (ri)scoperta di un "Nuovo Mondo", quanto all'esplorazione di un'eterna e immutabile wasteland senza identità.
undefinedRoad movie perché tutti i film di Jarmusch, in un modo o nell'altro, lo sono. In ognuno di essi emerge, per mezzo del viaggio (poco importa che sia effettivamente "sulla strada" e ne rispetti i canoni formali), un nuovo volto dell'America che contraddice il precedente. Un'America indecifrabile, inafferrabile perché spettro, lenzuolo fissato alla meglio sui pioli dell'anonimato. Un cumulo di frammenti e interrogativi che il recente, sottovalutato e invero splendido "Broken Flowers" trasfigura in "leggera" investigazione sulla natura della materia degna di un Antonioni o, volesse il cielo, d'uno Tsai Ming-Liang. Soprattutto, il cinema di Jarmusch è diventato, col tempo, ricerca di verità e di saggezza, voglia di senso. Perché l'America non esiste. Esiste il Mondo. Dissolvenza.
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