Nei giorni scorsi abbiamo preso pubblicamente una posizione piuttosto netta sui comportamenti giudiziari dell’enfante prodige
della politica cittadina e questo ci ha fatto “guadagnare” qualche
attenzione da parte della Digos romana, arricchendo così l’intera
vicenda, già piuttosto triste di suo, di tutte quelle sfumature che
separano il grottesco dal ridicolo. Ora che la polemica si è un po’
raffreddata, soprattutto sui social, vorremmo però tornare sulla
questione per provare ad affrontare quello che per noi è il vero nodo
politico che sottende tutta questa vicenda, ossia il collateralismo al
Partito Democratico di alcuni pezzi di quello che una volta avremmo
chiamato movimento. Sgomberiamo immediatamente il campo da possibili
equivoci, non abbiamo alcuna velleità di tirare fuori scomuniche o
giudizi di natura moralistica. Qui non stiamo parlando di “tradimenti”,
carrierismi o cose del genere, che pure nelle storie anche piccole della
sinistra di movimento non sono mai mancate, quanto piuttosto di scelte
politiche che nel corso del tempo immaginiamo siano state attentamente
ponderate e che, però, proprio per questo, crediamo vadano criticate con
estrema nettezza.
Immaginiamo che in questi anni di continuo arretramento sociale e
politico in alcune aree della sinistra antagonista sia progressivamente
maturata l’idea che l’unico modo per garantire una qualche efficacia
alla propria azione non potesse essere altro che il lavorio ai fianchi
del PD e del centrosinistra. Una sorta di lobbing del sociale
che facesse perno sulle “affinità elettive” con qualche dirigente
particolarmente illuminato, o sensibile su specifici temi, e che ha
spinto più di qualcuno a fare direttamente il “salto della quaglia” ed
entrare per provare a “cambiare da dentro”, per “spostare l’asse a
sinistra”, per “imporre i nostri temi”... Ancora una volta: nessun
giudizio morale. Siamo i primi a sostenere che in politica, all’interno
di un orizzonte strategico chiaro, ogni passaggio tattico, anche quello
più spericolato, possa trovare una sua giustificazione. E questa cosa
l’abbiamo imparata da Machiavelli prima ancora che da Lenin. Ma in
mancanza di questa prospettiva, e soprattutto in assenza di una solida
autonomia politica, la tattica finisce immancabilmente per trasformarsi
sempre in uno sterile tatticismo, più o meno eclettico e, oltretutto,
quasi mai efficace. Un piccolo cabotaggio elevato, in nome del
“realismo” e del “pragmatismo”, ad unica strada percorribile, per quanto
scivolosa, e in cerca, proprio per questo, di continue
(auto)giustificazioni: il “pericolo” delle destre, la minaccia populista,
il sovranismo, l’avanzata di Salvini, ecc. ecc.
Ciò che colpisce di più, però, è l’assoluta incapacità da parte di
questi pezzi di movimento di leggere e comprendere la vera natura del
PD, della sua base sociale, degli interessi economici che rappresenta e
dunque della funzione politica che è chiamato a svolgere, tanto a
livello nazionale quanto sul piano internazionale. L’architrave politica
su cui poggia il “blocco egemonico” che, a partire dagli anni Novanta,
ha governato i processi di globalizzazione e di liberalizzazione dei
flussi di capitale in funzione degli interessi della grande borghesia
sono, da sempre e non a caso, le socialdemocrazie europee e i
democratici statunitensi. Nel corso di questi anni e in nome della
“modernizzazione” i maggiori partiti della “sinistra” sono transumati
armi e bagagli dalla parte di quelli che fino a solo poco tempo prima
erano gli avversari, se non proprio i nemici di classe, assumendo il
capitale e non più il lavoro come proprio referente sociale. Basta
voltarsi indietro solo di qualche anno per rendersi conto di come ogni
misura di precarizzazione e destrutturazione del mercato del lavoro,
ogni controriforma del sistema pensionistico, ogni taglio al salario
indiretto e al welfare, nonché tutte le grandi privatizzazioni,
l’imposizione della svalutazione interna attraverso l’adozione della
moneta unica, la costituzionalizzazione del Fiscal Compact e
l’imposizione dell’austerity come disciplina di bilancio, portino sempre
in calce la firma di un qualche governo di centrosinistra o di un
governo “tecnico” appoggiato comunque dal centrosinistra e dal PD.
Se ci
mettessimo davvero a scavare ci accorgeremmo però che c’è di più,
perché in realtà l’assemblaggio di questo blocco egemonico, che la
marxista statunitense Nancy Fraser ha puntualmente definito come quello
del “neoliberismo progressista”, è andato ben oltre la semplice
cooptazione politica delle socialdemocrazie occidentali. Anzi, per un
lunghissimo periodo ha rappresentato una vera e propria alleanza de facto,
più o meno consapevole, tra i settori più dinamici dell’economia
globale e le correnti più “liberali” dei movimenti sociali. Meritocrazia
al posto dell’uguaglianza, diritti civili in cambio di quelli sociali.
Attraverso questo scambio tra la questione sociale e il riconoscimento
culturale “il nuovo spirito del capitalismo” è riuscito a cooptare nello
sviluppo della network economy postfordista molte delle istanze e delle
rivendicazioni dei nuovi movimenti, rendendoli così incapaci di
intercettare ed organizzare le istanze di quei soggetti che in questi
decenni sono stati lasciati indietro dai processi della globalizzazione
economica. Ed è proprio in questo “frame” crediamo, e non nelle ambizioni
di qualcuno, che vanno ricercate le ragioni profonde di quel “salto”
politico a cui accennavamo sopra.
Tutto questo ha avuto, ovviamente, anche un riverbero metropolitano
che, almeno a Roma, ha portato alla definizione di un vero e proprio
nuovo “regime urbano”. Un sistema di potere economico, politico e
mediatico che in questi anni ha di fatto trasceso le contingenze
elettorali e che, anche in questo caso, ha visto nel PD e nei suoi
predecessori (PDS, DS) il proprio perno politico. Nel corso degli anni
Novanta, anche a seguito della crisi della pubblica amministrazione,
delle partecipazioni statali e della spesa pubblica che erano stati
tradizionali motori di crescita della città insieme alla rendita
immobiliare e al settore delle costruzioni, Roma ha mutato pelle. E si è
trattato di un vero e proprio cambio di paradigma rispetto al passato.
Una trasformazione che ha prodotto e accompagnato il passaggio dal
modello della “città manageriale”, in cui la politica era soprattutto
impegnata a gestire e riallocare i trasferimenti dello Stato centrale, a
quello della “città imprenditoriale”, in cui tutte le amministrazioni,
indipendentemente dal loro colore politico, si sono preoccupate quasi
esclusivamente di mettere a valore le porzioni di territorio più
“appetibili”, provando a connetterle con i flussi finanziari globali.
Per chi ancora se ne ricorda tra il 1993 e il 2008, sotto le giunte
Rutelli e Veltroni, la stampa celebrò questa profonda trasformazione
della capitale parlando enfaticamente di un “modello Roma” che poteva e
doveva essere esportato anche in altri contesti urbani. Si trattava di
uno sviluppo legato all’economia della conoscenza e alle nuove
tecnologie, e orientato verso il turismo di massa, la finanza,
l’audiovisivo, la cultura, la ricerca e, soprattutto, fondato su una
rendita immobiliare sempre meno ritagliata sulla tradizionale figura del
“palazzinaro” e del “generone” romano, e sempre più collegata, invece, a
quella dei grandi gruppi bancari e immobiliari internazionali.
Sotto la guida di giunte “progressiste”, in cui importanti
assessorati come quello alla casa e alle periferie erano addirittura
appannaggio della sinistra radicale, è stato così partorito il peggiore
piano regolatore della storia di Roma, quello del 2008, e si è andata
configurando, anche da un punto di vista urbanistico, una città sempre
più duale, in cui i benefici della crescita venivano incamerati
esclusivamente dai grandi gruppi finanziari e dai ceti sociali
medio-alti dei quartieri centrali e benestanti. Una trasformazione
sociale e politica che ha avuto la sua cartina tornasole nel completo
ribaltamento della tradizionale cartografia elettorale della città e
nell’irreversibile trasformazione del PD in “partito della ZTL”, delle
“classi creative” e del “ceto medio riflessivo”. Nonostante, almeno in
quegli anni, il tasso di crescita del Pil cittadino fosse superiore a
quello nazionale le disuguaglianze sociali, invece di diminuire, sono
cresciute prepotentemente, ma, soprattutto, la condizione di
perifericità della “città di sotto” è diventata un fattore strutturale e
funzionale a tenere viva e in efficienza la “città di sopra”. Le
periferie, dopo la stagione delle lotte e del riscatto, sono tornate ad
essere esclusivamente un serbatoio di forza lavoro a basso costo cui
attingere in maniera flessibile in funzione delle congiunture del
mercato e, al tempo stesso, una “discarica sociale” in cui riversare
tutte le contraddizioni generate da questo nuovo regime urbano. Se non
si tiene conto di questi processi non si potranno mai capire fino in
fondo le fortune elettorali del Cinque Stelle prima, e di Salvini oggi,
nelle sterminate ed eterogenee periferie romane. Per per non parlare poi
di quel 40-45% di elettorato proletario e popolare che a votare nemmeno
ci va più. Così come non si riuscirà a comprendere l’odio quasi
antropologico che quelle stesse periferie nutrono nei confronti di una
“sinistra” percepita, a ragione, come altro da sé. C’è di più, però,
perchè se si astrae da un’analisi materialista degli attori e dei
processi politici di questi anni, non solo si corre il rischio di
confondere il sintomo (per quanto odioso e detestabile) con la malattia,
ma addirittura si può arrivare al paradosso in cui la malattia viene
spacciata per cura. Un piccolo esempio ci è stato fornito proprio
l’altro ieri nel VII municipio di Roma dove, per contestare la
presidente “sovranista” passata dai 5 stelle a Italexit (il nuovo
partito di Paragone), alcuni compagni di zona si sono presentati insieme
al resto del centrosinistra sotto le bandiere dell’Unione Europea. In
sostanza sotto le bandiere dell’ordoliberismo, dell’attacco ai salari e
dell’austerità eretti ad unico orizzonte economico possibile.
Nella prossima primavera i romani saranno chiamati al voto per
eleggere il nuovo sindaco e già da qualche mese sono ripartite le grandi
manovre elettorali. Ci pare di capire, però, che questa volta almeno un
pezzo di quella sinistra che abbiamo definito “di movimento” sia
intenzionata ad andare ben oltre l’ipotesi del “meno peggio” e del “voto
col naso turato” per provare, invece, a costruire un’alleanza organica
col PD e il centrosinistra. Lo schema, andiamo a spanne, dovrebbe essere
quello visto alle ultime regionali con la lista “Emilia-Romagna
coraggiosa” di Elly Schlein, una lista che tiene insieme alcuni spazi
sociali, alcuni movimenti di lotta, associazionismo vario e singoli
esponenti dell’immancabile “società civile” e che prova a coprire lo
spazio politico a sinistra del PD, il tutto, magari, suggellato dalle
altrettanto immancabili “primarie di coalizione”. Vogliamo dirlo senza
nessuna acredine, ma con la nettezza che ci si deve tra compagni: questa
proposta non solo non è “la soluzione”, ma fa proprio parte del
problema, perché il campo in cui si è scelto di giocare è quello del
nemico di classe.
In questo momento i comunisti, e più in generale le forze della
trasformazione sociale, sono minoranza tanto nella classe quanto nella
società. Questo è vero, e del resto ce lo diciamo e ce lo ricordano
continuamente. Si tratta di un problema enorme, a cui non si può certo
sfuggire né con le derive identitarie e testimoniali, ma nemmeno col
trasformismo politico. Non sappiamo quale sia la soluzione, non abbiamo
la ricetta pronta in tasca, e comunque è un processo che va affrontato
collettivamente. Quello di cui siamo certi, però, è che ogni ambizione
di ricostruire un’internità sociale, ogni aspirazione a tornare ad
essere “maggioranza” tra il nostro “popolo”, che, lo ribadiamo, non è
quello che si rappresenta nel Partito Democratico, passa per la rottura
irreversibile con le forze del “neoliberismo progressista” e con tutte
le sue propaggini. Anche quelle più à la page come il “Cinema America”
che, nonostante tutte le “buone intenzioni” a cui non stentiamo a
credere, finiscono comunque per trasformarsi in un’operazione di “social
washing” per le classi dominanti.
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