di Giorgio Bona
Qui le precedenti puntate.
I mondiali di calcio del 1982 restarono memorabili per l’impresa
della nostra nazionale, che portò a termine una vittoria contro
nazionali allora ben più blasonate come Argentina, Brasile e Germania.
Mentre l’Italia si trastullava, riversandosi in piazza per
festeggiare il grande evento, ecco che in una piccola città che non
superava i 40000 abitanti emergeva un problema di gravità assoluta.
Il controllo avviato in un percorso riservato sui certificati di
morte per mesotelioma sul territorio casalese e dintorni, al “Registro
Tumori” di Torino, tornò al mittente con una risposta che metteva in
luce la drammaticità della situazione: l’elevata mortalità causata
dall’amianto a Casale Monferrato era di venti volte superiore a quella
attesa.
Mesotelioma pleurico. A pronunciare il suo nome si prova un senso di
terrore. Il panico di una città che si confronta con quel male
invisibile. Come cantava Gaber, quelle cellule enormi voraci affamate di
noi, ci mangeranno come vermi.
Il mesotelioma è un tumore maligno che può colpire le membrane
sierose di rivestimento di vari organi, in particolare i polmoni. La
cancerosi comincia con l’inalazione. Gran parte delle fibre viene
eliminata con l’espettorato o con le feci. Circa il 70%. Il restante 30%
attraversa l’endotelio e penetra nei tessuti interstiziali.
Le fibre tendono ad accumularsi, prevalentemente, a livello del terzo
inferiore del polmone, in posizione contigua alla pleura viscerale.
I macrofagi alveolari sono in grado di trasformare gli idrocarburi policiclici in cancerogeni attivi.
Non stiamo ad approfondire quelli che sono gli elementi scatenanti le
cellule impazzite che portano alla drammatica risoluzione dello
sviluppo di questo cancro che non lascia scampo.
È sufficiente dire che chi ha avuto o ha la disgrazia di trovarsi in
questa tragica situazione si trova un killer dentro con la pistola
puntata pronto a fare fuoco. La mira è precisa. Non lascia scampo.
In genere il periodo di latenza è dell’ordine di decenni, si possono superare i quarant’anni dall’inizio dell’esposizione.
I sintomi del mesotelioma sono legati ad una compressione dei visceri
che sono a contatto con la massa tumorale. Il primo segno nelle forme
toraciche è costituito da un versamento pleurico spesso emorragico, con
recidive, affanno, mancanza di respiro e febbre.
La frequenza della patologia dipenderebbe dal tipo di fibre, dalle
loro dimensioni, dalla durata dell’esposizione e dalla esposizione ad
altri fattori come il fumo o altre sostanze chimiche.
Come già ribadito, il mesotelioma maligno ha un lunghissimo periodo
di latenza. Questo è dovuto a una ragione ben precisa, ovvero le fibre
di amianto impiegano parecchio tempo prima di arrivare alla pleura.
L’incidenza e la mortalità per mesotelioma maligno hanno mostrato un
incremento in questi ultimi anni. Questo è dovuto a un aumento
dell’utilizzo di amianto dopo la seconda guerra mondiale.
Ulteriori incrementi sono previsti per i prossimi anni per poi, si
spera, decrescere in relazione alla riduzione dell’uso del materiale e
alla crescita di interventi di prevenzione.
Quando sul finire degli anni '70 la Comunità europea manifestò la
necessità di regolamentare l’utilizzo dell’amianto, applicando sui
sacchi etichette informative per documentare i rischi procurati dalla
polvere, l’AIA propose un’etichetta con toni miti. Non doveva comparire
la parola cancro e occorreva affermare che l’uso improprio del materiale
poteva arrecare danni.
Nonostante queste fossero le premesse, la scritta che comparve sui
sacchi di materiale dello stabilimento inglese “Tuner & Newall” era
diversa: respirare polvere di amianto può provocare cancro e altre
malattie letali.
Viste le pressioni sul tema amianto – salute, l’AIA, sulla pessima
pubblicità al prodotto che veniva dal Regno Unito, elaborò una comoda
via d’uscita che contribuì a ritardare ancora la presa d’atto del
problema: il pericolo della fibra si manifesta se non vengono utilizzate
le precauzioni necessarie.
Quindi guanti, mascherine e cappe di aspirazione garantivano la
lavorazione sicura e controllata. Intanto c’era il tempo di trovare e
sviluppare materiali sostitutivi per la continuità dei profitti.
Con l’ordinanza 83 del 1987 l’allora sindaco di Casale Monferrato,
Riccardo Coppo, bloccando la Eternit, proibì la produzione di amianto su
tutto il perimetro casalese, interpretando l’interesse dei cittadini e
schierandosi al fianco dei sindacati e dei familiari delle vittime.
Era un forte segnale di discontinuità con il passato. I produttori di
amianto impugnarono l’ordinanza, ma non coltivarono il ricorso, forse
perché a causa dei morti in aumento, ebbero paura di un effetto
boomerang.
Occorre precisare che ci fu in quel periodo una politica molto
improntata sulla “prudenza giuridica”, per cui loro poterono agire
ancora qualche anno.
Poi lo stato riuscì a metabolizzare la decisione del comune di Casale
affiancato dalle associazioni sindacali con la legge 257 del 27 marzo
1992 che non insabbiò la questione amianto, ma riuscì a mettere sul
tavolo le richieste risarcitorie e previdenziali di centinaia di
lavoratori italiani.
Ci si è chiesti come era potuto accadere? Profitto. Profitto. La
prima vera ragione è che si erano messi davanti a tutto gli interessi
economici. Tutto questa a discapito della collettività.
La decisione di far fallire la Eternit italiana fu presa a Zurigo nel
1983. Il 23 dicembre di quell’anno il gruppo Eternit fallì.
Intanto, già dal 1981, era stata avviata una causa civile contro la
fabbrica di Casale e l’Inail accertò la nocività ambientale in tutto lo
stabilimento.
Proprio nell’anno in cui si decise per il fallimento la pretura di
del capoluogo monferrino avviò un’indagine rivolta ad accertare la
responsabilità e la causa delle numerose e continue morti dei lavoratori
e cittadini casalesi.
La fase istruttoria durò sei anni e si concluse con la condanna di
quattro dirigenti accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose
plurimo aggravate.
La multinazionale dell’amianto cercò in qualche modo di isolare le
decisioni dei dirigenti italiani tutelandosi da eventuali azioni penali
successive, offrendo ai curatori del fallimento 5,5 miliardi di lire da
ripartire in maggior misura per i gruppi di Casale e di Napoli.
La contropartita stava nella rinuncia a una serie di azioni legali.
Anzitutto la richiesta di indennizzo dei danni correlati all’amianto.
Gli obiettivi erano quelli di mantenere il caso a livello locale,
lasciare fuori la proprietà da responsabilità dirette e, in ultimo,
minimizzare il danno economico oltre che di immagine.
Tutte le strategie messe in atto per lungo tempo non riuscirono a
spegnere la voce di Casale Monferrato. La città non si fermò alla
chiusura dello stabilimento. La lotta proseguì e la città diventò un
pilastro della lotta all’amianto, gettando le basi per il grande
processo Eternit che riunì 2897 parti offese e 6932 parti civili contro
il belga Louis De Cartier e lo svizzero Stephan Schmidheiny,
responsabili delle società Eternit SpA.
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