Il patto di 25 anni proposto 4 anni fa da Pechino a Teheran, con la tacita benedizione militare della Russia, scuoterà la geopolitica euroasiatica. Coinvolge interscambi strategici con le rispettive valute: gli idrocarburi dell’Iran per gli investimenti cinesi di 400 miliardi in infrastrutture, che assestano una sconfitta a Trump e al suo alleato Netanyahu.
Con la resurrezione della Russia dal cimitero geopolitico e l’irresistibile ascesa della Cina, tanto il democratico Obama quanto il repubblicano Trump hanno commesso due gravi errori geostrategici in Eurasia, in mezzo al declino globale e interno degli USA, che vivono una guerra civile strisciante e che altri equiparano a una guerra di classe e/o guerra culturale.
Il grave errore di Obama è stato quello di aver gettato la Russia nelle braccia della Cina, così che quei due paesi hanno formato un’associazione strategica, i cui effetti e portata non sono noti al grande pubblico.
Gerarchicamente, il grave errore geostrategico di Obama supera l’errore commesso da Trump, aizzato dal suo grande alleato, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, correligionario del suo genero talmudico, Jared Kushner.
Netanyahu ha spinto Trump a rompere l’innovativo accordo nucleare con l’Iran – forgiato da Obama, del 5P+1: i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania – per applicare la “massima pressione” con le asfissianti sanzioni economiche al fine di obbligare l'Iran ad accettare un nuovo trattato, favorevole a Tel Aviv. Cosa che ha spinto Teheran a gettarsi tra le braccia di Pechino.
Il peggior errore strategico di Trump – oltre a quello di rompere l’accordo che aveva concretizzato Obama sul contenzioso nucleare iraniano – è stato aver ordinato l’assassinio, mediante un drone, del carismatico generale Soleimani e del suo accompagnatore iracheno, Abu Mahdi al Mohandes, che forse non ha lasciato alla teocrazia sciita iraniana altra opzione che accelerare gli ultimi dettagli del suo patto strategico con la Cina per un quarto di secolo.
I due errori di Obama e di Trump stanno facendo rivoltare nella tomba il geopolitologo inglese Halford MacKinder, perché hanno fatto andare in mille pezzi tutti i suoi assiomi euroasiatici sui quali si era basato il dominio anglosassone degli USA e del Regno Unito per controllare il mondo.
Curiosamente, l’avvicinamento dell’Iran a due superpotenze, Russia – massima superpotenza nucleare, nell’era delle sue armi ipersoniche – e Cina, massima superpotenza geoeconomica (quando si misura il suo PIL mediante il potere d’acquisto e/o il potere di parità d’acquisto), evidenzia l’isolamento euroasiatico degli USA, che hanno subito seri danni in tutto il Grande Medio Oriente e ai quali resta solo l’aleatorio salvavita dell’India, che, cosa certa, mantiene a sua volta ottime relazioni con la Russia.
Simon Watkins, della Oil Price, informa che un anno fa il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Zarif, ha fatto visita al su omologo cinese, Wang Li, per presentargli una tabella di marcia su un “partenariato strategico globale” di 25 anni tra Cina e Iran, che si aggiunge al preaccordo del 2016.
Sembrerebbe che esistano clausole segrete alle quali “è stato aggiunto un nuovo elemento militare” con la tacita benedizione russa, che avrà “enormi implicazioni nella sicurezza globale”.
Tra i supposti elementi segreti del patto firmato un anno fa, “la Cina investirà 280 miliardi di dollari per sviluppare i settori del petrolio, gas e petrochimica dell’Iran”, che saranno pagati nei primi 5 anni dei 25 totali.
Nel primo periodo quinquennale, la Cina investirà anche 120 miliardi di dollari per migliorare il trasporto – treni ad alta velocità e metro – e l’infrastruttura manifatturiera dell’Iran, in cambio le imprese cinesi compreranno i prodotti petrol/gas/petrochimici con uno sconto minimo garantito del 12%, e altri tipi di formule economiche che favoriscono Pechino.
Inoltre la Cina avrà la facilitazione di differire fino a 2 anni il pagamento dei suoi acquisti, che saranno comunque realizzati nella sua divisa, il renminbi/yuan. Questo dettaglio ha “la virtù” di aggirare il sistema dei pagamenti controllato dall’Occidente.
Gli iraniani sono mercanti leggendari e troveranno soluzioni creative per cambiare la divisa cinese, dal Qatar a Istanbul, e ricevere divise pesanti, mentre il renminbi/yuan si rafforza e si internazionalizza. L’infrastruttura dell’Iran sarà allineata con il “progetto geopolitico multi-generazionale” della Via della Seta.
È da notare che l’Iran vanta ben 15 frontiere: sette terrestri (Afganistan, Armenia, Azerbaijan, Iraq, Pakistan, Turchia e Turkmenistan); due nel mar Caspio: Russia e Kazakistan; e i suoi confini marittimi nel Golfo Persico con le sei petro-monarchie arabe – Kuwait, Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Oman – il che porta a un totale di 15 le frontiere iraniane, che condivideranno uno spazio comune con le 15 frontiere della China.
Il problema dell’Iran non è la sua connettività geopolitica, bensì la sua asfissia geofinanziaria, che ha portato a una brutale svalutazione della sua divisa, il rial, e le soffocanti sanzioni di Trump per l’esportazione dei suoi idrocarburi.
Il “patto segreto per un quarto di secolo” non solo diluisce gli effetti della guerra multidimensionale di Trump contro l’Iran, ma lo posiziona come un pivot di prim’ordine nello spazio condiviso delle frontiere di 30 paesi condivise da Teheran e Pechino.
La Cina si sente oggi in grado di evitare le sanzioni di Trump e persino di eludere la seconda fase di negoziati commerciali con gli USA.
Il patto ha fatto innervosire gli USA ed Israele, a tal punto che il segretario di Stato, evangelista sionista e già direttore della CIA, Mike Pompeo, ha fatto pressione su Netanyahu perché abbandoni tutti i piani d’investimento cinese in Israele.
Trump si è rifocalizzato, per ragioni elettorali, sul propinare uno tsunami di sanzioni contro la Cina, con mille pretesti, in particolare, contro il 5G di Huawei.
Trump ha portato le tensioni al punto tale da collocare due portaerei nel mare Cinese meridionale e a stimolare la vendita di armi della Lockheed Martin a Taiwan, mentre gli USA aizzano l’India contro la Cina e agitano in forma eterodiretta gli uiguri nella regione islamica autonoma di Xinjiang della Cina, senza contare le pressioni di Trump affinché il mondo anglosassone in generale – dal Regno Unito all’Australia – abbandoni la presenza di Huawei, con la giustificazione della nuova legge di sicurezza di Hong Kong.
The Duran giudica che l’accordo della Cina con l’Iran costituisca “un enorme colpo alle aspirazioni degli USA in Asia Centrale”
Dopo un anno, in realtà quattro, Il New York Times – oggi più discusso che mai dai propri stessi redattori, che criticano il fatto che si basi più sui tweet che sull’analisi e la ricerca, caratteristica che gli aveva dato la gloria d’un tempo e che si è diluita con le sue bugie sulle armi di distruzione di massa in Iraq – pubblica un documento filtrato, che condisce con il sale del Dipartimento di Stato, che però mostra l’angoscia di Trump.
Tra i condimenti e i dolcificanti del New York Times, si trovano i vantaggi portuali che l’Iran concederà alla Cina. Tra questi risaltano due porti al largo della costa del mare di Oman, in particolare, a Jask, fuori dallo stretto di Ormuz, entrata al golfo Persico “che darebbe alla Cina un punto strategico di vantaggio in cui transita gran parte del petrolio mondiale”.
Altra inquietudine del New York Times si centra sull’esercitazione navale congiunta dell’Iran e della Russia dello scorso dicembre nel golfo di Oman, alla quale si è sommato l’incrociatore antimissile Xining della Cina.
Gli annali futuri della storia in Occidente si chiederanno: “chi ha perso l’Iran?”. Quel ch’è certo è che Russia e Cina hanno vinto il rapporto con l’Iran.
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