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17/07/2020

USA - Il nuovo movimento operaio

“Anche prima che la vita di George Floyd gli fosse così orribilmente strappata, la “normalità “ di cui tutti continuano a parlare ed a cui non saremmo voluti tornare non funzionava. Dagli attacchi razzisti all’essere costretti a lavorare senza equipaggiamento protettivo o indennità di rischio in nome dell’economia, le nostre vite non contavano. Non possiamo tornare a quella condizione. Dobbiamo andare avanti“.

Glen Brown, lavoratore aereoportuale, da “Strike For Black Lives”

Lunedì 20 luglio in più di 25 città degli Stati Uniti decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori scenderanno in sciopero.

Questa iniziativa del “nuovo movimento operaio” nord-americano è stata chiamata “Strike for Black lives” da una quindicina di organizzazioni che hanno dato vita allo sciopero e alle mobilitazioni che avverranno in molte città.

In questa inedita giornata di lotta si incontreranno sia le porzioni in questi anni più attive della working class statunitense sindacalizzata, sia le differenti figure della nuova composizione di classe.

Dai teamsters della “International Brotherhood Teamsters” agli insegnanti dell’”American Federation of Teachers”, dalle lavoratrici domestiche ai lavoratori dei servizi della “Service Employees International Union” (SEIU), che rappresenta 2 milioni di lavoratori tra Canada e Stati Uniti, per rimanere dentro i confini del vecchio quadro del movimento del lavoratori.

Ma l’iniziativa va anche dai lavoratori della catena logistica (Amazon) a quelli della ristorazione (McDonald’s), dai lavoratori della “conoscenza” come Google a quelli della “gig economy” (Uber, Lyft, Postmates).

Nella presentazione dell’iniziativa, la presidentessa della SEIU ha detto: “dobbiamo connettere queste lotte in una nuova e profonda modalità rispetto al passato.”

Chi non potrà scioperare per l’intera giornata farà una “fermata simbolica” di circa 9 minuti, richiamando quegli 8 minuti e 46 secondi che sono costati la vita a George Floyd a fine maggio, barbaramente ucciso da agenti del Dipartimento di Polizia di Minnerapolis, ora smantellato.

Una decisione che è una delle più importanti conquiste del movimento “defund the police”, ultima manifestazione dello storica aspirazione al controllo comunitario della polizia.

A questa giornata partecipano alcune organizzazioni che hanno dato vita a campagne specifiche come, “Fight for $15”, che chiede un salario minimo di 15 dollari l’ora, o la “Poor People Campaign”, che si batte contro la piaga della povertà, oltre al “Black Lives Movement”, una coalizione che raggruppa più di un centinaio di gruppi a livello nazionale.

Per avere una idea dell’importanza delle battaglie che conducono queste due “organizzazioni di scopo” bisogna ricordare che negli Stati Uniti i poveri sono 140 milioni (oltre il 40% della popolazione), 62 sono i working poor che sebbene lavorino vivono sotto la soglia della povertà. Il 63% dei lavoratori latinos, il 54% degli afro-americani e il 40% degli asiatico-americani, mentre sono poco più di un terzo tra i “bianchi”.

Nel gigante della grande distribuzione, Wal Mart, il salario è di 11$ l’ora, una cifra irrisoria che rendeva già impegnativo poter affittare un monolocale prima della crisi!

Le rivendicazioni dello sciopero intrecciano richieste di giustizia sociale e di equità razziale, partendo dal fatto che le aziende che hanno ripetutamente espresso la solidarietà a “Black Lives Matter” o che hanno effettuato donazioni a organizzazioni per i diritti civili che combattono la discriminazione razziale, non hanno fatto nulla per migliorare le condizioni dei propri dipendenti in buona parte afro-americani. Alcune anzi – come Amazon – li hanno licenziati durante il lock-down, quando hanno preteso condizioni di maggior sicurezza.

Per rimanere al gigante della logistica controllato da Jeff Bezos – che ha aumentato a dismisura i suoi profitti, divenendo la persona più ricca del Nord-America durante la pandemia – ha smesso di pagare ai propri dipendenti la “hazard pay”, cioè l’indennità di rischio, ed ha rifiutato di pagare la malattia (“sick leave”) ai suoi operai.

Le infermiere ed in generale il personale di cura – afferente alla SEIU – si è mobilitato in questi mesi conquistando importanti vittorie, soprattutto con la richiesta di mezzi protettivi adeguati ed aumentando il livello di sindacalizzazione della categoria, una istanza che rientra nei desiderata della mobilitazione.

L’ultimo punto delle quattro rivendicazioni recita infatti: “ogni lavoratore ha l’opportunità di formare un sindacato, non importa dove lavori”, ribadendo che il diritto alla sindacalizzazione rimane uno dei principali vettori di giustizia sociale, anche negli Stati Uniti.

Questo nuovo sussulto dei lavoratori ha preceduto l’ondata di BLM – per estensione e partecipazione, con ogni probabilità, il più grande movimento sociale della storia degli Stati Uniti – e cerca di trasformare la crescita della coscienza per le discriminazioni razziali in conquiste concrete, intensificando la pressione nei confronti dei rappresentanti politici.

La pandemia e le sue conseguenze sanitarie sono disastrose per le porzioni più vulnerabili della società statunitense ed hanno colpito in particolare alcune comunità.

5 milioni e 400 mila persone, insieme al lavoro, hanno perso la copertura sanitaria, il che vuol dire l’impossibilità di potersi curare in un sistema sanitario modellato sul “privato”.

Ormai un cittadino nord-americano su tre non paga più l’affitto; erano il 24% in Aprile, sono saliti al 32% al luglio, e si profila una crisi abitativa peggiore di quella del 2008.

Alcuni cifre sono indicative di come i latinos e gli afro-americani siano stati e sono tuttora i più esposti al Covid-19.

Innanzitutto, il 43% dei lavoratori delle due comunità svolge attività per cui non può esistere lavoro “da remoto”, comunemente chiamato Smart Working.

Il New York Times ha elaborato i dati forniti dall’autorità sanitaria preposta al controllo e alla prevenzione delle malattie infettive, dimostrando la maggiore frequenza del contagio tra i latinos e gli afro-americani.

Sebbene la popolazione afro-americana sia solo il 13% di quella statunitense, è un quinto della forza lavoro nella preparazione del cibo e nei servizi, il 18% degli autisti di Uber, il 17,6% degli operatori di Lyft, ben più di un terzo del personale infermieristico e di cura (37%), e un quarto (26%) della forza lavoro nei magazzini di Amazon.

Dopo la giornata di sciopero dei lavoratori portuali della Costa Ovest il 9 giugno, è il segno più tangibile di come il vecchio motto del movimento operaio statunitense: “una offesa ad uno è un affronto a tutti” sia entrato nella coscienza di una parte importante dei lavoratori.

Insieme alle vittorie conseguite dai “nativi americani” in queste settimana – generalmente ignorate dai media italiani – sono il segnale che i tempi stanno cambiando.

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