26 giugno 2020: un incendio a Parchin, poco a Nord di Teheran, in un sito nucleare
30 giugno 2020: incendio a Teheran
3 luglio: esplosione nel sito nucleare di Natanz
3 luglio: incendio a Shiraz
4 luglio 2020: fuga di cloro in uno stabilimento di Karoun
4 luglio 2020: incendio ad Avaz
La maggioranza di questi incendi ed esplosioni sono avvenute in centri non troppo distanti dalla capitale o, addirittura alla periferia di Teheran.
A quanto pare, questa serie di “incidenti” ha l’effetto di ritardare il piano nucleare iraniano di circa due anni. Gli iraniani hanno fatto intendere di avere notizie che non divulgano per ragioni di sicurezza.
Per cui, non è chiaro da chi provenga il colpo, ma non ci vuole molto a capire che i possibili mandanti sono tre (uno dei tre o tutti insieme): Israele, Usa ed Arabia Saudita. Ma in primo luogo Israele che sin dal 1981 (operazione Osirak) hanno lanciato una campagna preventiva contro la bomba iraniana, poi proseguita con l’assassinio sistematico degli scienziato, l’operazione Stundex (2010) eccetera.
Soprattutto l’azione contro Natanz pone molti interrogativi; azione aerea, ordigno collocato dentro il laboratorio o azione cyber dell’unità 8200 degli israeliani che sarebbero riusciti ad innescare una reazione a catena.
È ovvio che le tre modalità hanno implicazioni diverse fra loro: l’azione aerea (forse con impiego di un drone) presuppone un livello tecnologico sin qui non noto dell’aviazione israeliana per sfuggire ai radar iraniani, l’ordigno presuppone una spia che abbia accesso al sito, ma, soprattutto un attacco cyber potrebbe essere solo il primo di una serie.
Gli iraniani reagiranno continuando a portare i laboratori in siti sotterranei o scavati in montagne che proteggono da incursioni aeree, ma non è detto che siano altrettanto efficaci contro attacchi cyber, tenuto contro che anche questi laboratori saranno collegati alle reti informatiche.
Ma questo riguarda il futuro, mentre occorre capire i segnali del presente. Pochi giorni prima del primo incidente elencato (quello del 26 giugno), un autorità giudiziaria iraniana ha emesso un mandato di arresto per Trump, accusato di essere il mandante dell’omicidio Suleimani. La cosa in sé è provata dalle stesse dichiarazioni pubbliche del Presidente americano, che rivendicò l’attentato. Il che non significa che sia stato necessariamente lui il mandante, al massimo fu quello che autorizzò l’azione dietro la quale, credibilmente ci sono più mani saudite e, soprattutto, israeliane.
Ovviamente, non esiste la più lontana probabilità che gli Usa consegnino Trump agli iraniani, neppure se non dovesse essere rieletto e questo gli iraniani lo sanno. La mossa ha una valenza politica e propagandistica sia verso l’interno sia verso l’estero.
Però non c’è stato nulla che desse pieno sfogo alla promessa di rappresaglia fatta nei giorni del grande funerale di Suleimani. Lo stesso incidente aereo (incidente?) il 27 gennaio 2020, nel quale sarebbe perito Michael D’Andrea – capo delle operazioni Cia in Iran e probabile ideatore dell’attentato a Suleimani – non ha dato sfogo alla promessa di vendetta, anche perché l’Iran – posto che ne sia l’autore – non ha potuto rivendicarlo. E dunque, questa mossa avrebbe un elevato valore propagandistico. Ma può avere anche un valore di segnale all’esterno, forse per farsi respingere una domanda di estradizione e reagire magari colando a picco una unità della marina militare americana, forse un paio di settimane prima delle elezioni in Usa, facendo scoppiare una nuova emergenza internazionale. O forse per preparare una campagna internazionale sulle responsabilità americane.
Né va trascurata l’ipotesi che questo serva anche ad ostacolare le mosse del nuovo governo di Baghdad che è sciita ma sta cercando di allontanarsi da Teheran e normalizzare i rapporti con gli Usa.
Qualunque sia la risposta, è evidente che tutti questi sono segnali dell’aggravarsi della situazione. Nuovi venti di guerra che, però, non è detto giungano a scatenare davvero un conflitto aperto. Vedremo.
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