Il Summit di Jedda (Jeddah Summit for Security and Development), cui hanno partecipato i leader dei sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, più quelli di Egitto, Giordania e Iraq, conclude il primo viaggio in Medio Oriente del presidente statunitense.
Biden, alla fine dei suoi quattro giorni di viste ed incontri, ha promesso ai convenuti che gli Stati Uniti non si disimpegneranno dalla regione.
“Non andremo via lasciando un vuoto che può essere riempito da Cina, Russia e Iran”, ha detto il presidente statunitense.
Un aspetto importante contenuto della dichiarazione congiunta di Jedda è stata la focalizzazione sulla “minaccia crescente” posta dai droni sviluppati dall’Iran, che Washington accusa di aver venduto alla Russia.
Dopo esserci recato in Israele e nei Territori Occupati, il meeting nella città costiera saudita è stata l’ultima tappa della visita di Biden.
Alla presidenza del Summit c’era il Principe della Corona, Mohammed bin Salman (MbS), di fatto l’attuale leader del Paese.
Il picco inflattivo che negli USA ha superato il 9% e l’escalation bellica in Ucraina hanno fatto scegliere a Biden la strada della realpolitik nei confronti di uno Stato che, durante la propria campagna elettorale per le presidenziali, dichiarava di voler ridurre a “paria”, cioè che di fatto escluso dal “consorzio internazionale”.
Una volontà di esclusione, rientrata più o meno obtorto collo, maturata anche in seguito alla chiara implicazione di MbS nell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, letteralmente fatto a pezzi nell’ambasciata saudita in Turchia. Anche l’intelligence USA pensa che l’erede al Corona Saudita sia stato il mandante.
MbS ha dichiarato che l’Arabia Saudita, membro dell’OPEC, aumenterà la produzione dagli attuali 11 milioni di barili di greggio a 13 milioni, sfruttando al massimo la propria capacità addizionale.
Questo è avvenuto dopo una dichiarazione congiunta di Riyad e Washington, in cui si conveniva sulla necessità di stabilizzare il mercato mondiale dell’energia.
Secondo quanto riportato dalla TV di Stato saudita al-Ekhbariya, sarebbero 18 gli accordi di partnership firmati dai due paesi comprendenti il campo energetico, delle comunicazioni, dello Spazio, e della Salute.
“Tra questi”, riporta il sito di Al Jazeera, “ci sono accordi su progetti che riguardano l’energia pulita, l’energia nucleare e l’uranio, così come accordi con l’industria aereo-spaziale e della difesa statunitense Boing e Raytheon”.
Come riportano vari media, dopo un saluto abbastanza formale all’aeroporto in cui Biden e MbS non si sono stretti la mano, l’uccisione di Kashoggi sarebbe stata la prima questione sollevata dal presidente nord-americano nell’incontro con il principe saudita, in una conversazione in cui nonostante il protocollo diplomatico se le sarebbero dette fuori dai denti: MbS ha ricordato, per esempio, le torture statunitensi sui prigionieri ad Abu Ghraib, in Iraq.
Biden, a Jedda, ha avuto anche incontri collaterali con l’egiziano Al Sisi (sulla sicurezza alimentare e l’interruzione delle forniture energetiche) ed il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohamed bin Zayed, cui ha rinnovato l’invito a recarsi a Washington entro la fine dell’anno.
Gli Emirati ospitano truppe statunitensi sul loro territorio e sono da tempo partner strategici degli USA, anche se a marzo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU si sono astenuti su una risoluzione che chiedeva il ritiro della Russia dall’Ucraina.
Il fine principale della visita di Biden era tentare di riaccreditarsi presso i due storici alleati – Israele e Arabia Saudita – che nella regione sono stati i perni della strategia medio-orientale statunitense, ma che ora sembrano muoversi con maggiore autonomia, anche quando vanno a minare gli interessi nord-americani, e mantengono relazioni tutt’altro che secondarie con Cina e Russia.
Biden, in una dichiarazione congiunta con l’alleato israeliano, ha riaffermato la volontà statunitense di non permettere all’Iran di sviluppare l’arma nucleare, proprio quando le trattative per il ripristino dell’accordo multilaterale co-firmato dall’amministrazione Obama con l’Iran insieme ad altri 5 Stati nel 2015 – da cui l’amministrazione Trump è uscita nel 2018 – è ad un impasse.
Sia l’Arabia Saudita che Israele erano fermamente contrari all’accordo, che implicava da una parte la rinuncia allo sviluppo dei propri progetti nucleari militari e, dall’altra, la fine delle sanzioni statunitensi contro Teheran.
Gli Stati Uniti si sono mossi per far sì che Israele sia sempre più integrato nella regione, per un avvicinamento tra Israele e Riyad, e per promuovere una difesa aerea integrata a livello regionale, comprendente l’entità sionista: un aspetto che sarebbe di fatto la colonna vertebrale del progetto di “NATO araba”.
Un’intenzione che Teheran ha tacciato come “provocazione” e che è stata di fatto confermata da John Kirby, coordinatore delle comunicazioni strategiche al National Security Council statunitense.
Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati Arabi va avanti da tempo ed ha subito un’accelerazione con la firma degli “Accordi di Abramo”, che hanno avviato maggiori relazioni tra Israele Bahrein, EAU, Marocco e Sudan.
Un tradimento, quello perpetrato dai regimi arabi reazionari, ai danni del popolo palestinese e delle sue rivendicazioni storiche, cui ormai solo la Siria, l’Iran e l’“asse della resistenza” della Mezzaluna sciita – oltre all’Algeria – sembrano dare importanza.
Voci importanti degli ambienti strategici statunitensi propendono per una azione più incisiva degli USA in Medio Oriente, una sorta di nuova “Dottrina Carter”, di cui forse questa visita ha gettato le basi; non più contro l’URSS, ma contro quell’asse euro-asiatico composto da Russia, Cina ed Iran.
Per questo abbiamo tradotto quest’articolo della rivista Foreign Policy, che auspica un rilancio della dottrina Carter.
Buona lettura.
Biden, alla fine dei suoi quattro giorni di viste ed incontri, ha promesso ai convenuti che gli Stati Uniti non si disimpegneranno dalla regione.
“Non andremo via lasciando un vuoto che può essere riempito da Cina, Russia e Iran”, ha detto il presidente statunitense.
Un aspetto importante contenuto della dichiarazione congiunta di Jedda è stata la focalizzazione sulla “minaccia crescente” posta dai droni sviluppati dall’Iran, che Washington accusa di aver venduto alla Russia.
Dopo esserci recato in Israele e nei Territori Occupati, il meeting nella città costiera saudita è stata l’ultima tappa della visita di Biden.
Alla presidenza del Summit c’era il Principe della Corona, Mohammed bin Salman (MbS), di fatto l’attuale leader del Paese.
Il picco inflattivo che negli USA ha superato il 9% e l’escalation bellica in Ucraina hanno fatto scegliere a Biden la strada della realpolitik nei confronti di uno Stato che, durante la propria campagna elettorale per le presidenziali, dichiarava di voler ridurre a “paria”, cioè che di fatto escluso dal “consorzio internazionale”.
Una volontà di esclusione, rientrata più o meno obtorto collo, maturata anche in seguito alla chiara implicazione di MbS nell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, letteralmente fatto a pezzi nell’ambasciata saudita in Turchia. Anche l’intelligence USA pensa che l’erede al Corona Saudita sia stato il mandante.
MbS ha dichiarato che l’Arabia Saudita, membro dell’OPEC, aumenterà la produzione dagli attuali 11 milioni di barili di greggio a 13 milioni, sfruttando al massimo la propria capacità addizionale.
Questo è avvenuto dopo una dichiarazione congiunta di Riyad e Washington, in cui si conveniva sulla necessità di stabilizzare il mercato mondiale dell’energia.
Secondo quanto riportato dalla TV di Stato saudita al-Ekhbariya, sarebbero 18 gli accordi di partnership firmati dai due paesi comprendenti il campo energetico, delle comunicazioni, dello Spazio, e della Salute.
“Tra questi”, riporta il sito di Al Jazeera, “ci sono accordi su progetti che riguardano l’energia pulita, l’energia nucleare e l’uranio, così come accordi con l’industria aereo-spaziale e della difesa statunitense Boing e Raytheon”.
Come riportano vari media, dopo un saluto abbastanza formale all’aeroporto in cui Biden e MbS non si sono stretti la mano, l’uccisione di Kashoggi sarebbe stata la prima questione sollevata dal presidente nord-americano nell’incontro con il principe saudita, in una conversazione in cui nonostante il protocollo diplomatico se le sarebbero dette fuori dai denti: MbS ha ricordato, per esempio, le torture statunitensi sui prigionieri ad Abu Ghraib, in Iraq.
Biden, a Jedda, ha avuto anche incontri collaterali con l’egiziano Al Sisi (sulla sicurezza alimentare e l’interruzione delle forniture energetiche) ed il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohamed bin Zayed, cui ha rinnovato l’invito a recarsi a Washington entro la fine dell’anno.
Gli Emirati ospitano truppe statunitensi sul loro territorio e sono da tempo partner strategici degli USA, anche se a marzo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU si sono astenuti su una risoluzione che chiedeva il ritiro della Russia dall’Ucraina.
Il fine principale della visita di Biden era tentare di riaccreditarsi presso i due storici alleati – Israele e Arabia Saudita – che nella regione sono stati i perni della strategia medio-orientale statunitense, ma che ora sembrano muoversi con maggiore autonomia, anche quando vanno a minare gli interessi nord-americani, e mantengono relazioni tutt’altro che secondarie con Cina e Russia.
Biden, in una dichiarazione congiunta con l’alleato israeliano, ha riaffermato la volontà statunitense di non permettere all’Iran di sviluppare l’arma nucleare, proprio quando le trattative per il ripristino dell’accordo multilaterale co-firmato dall’amministrazione Obama con l’Iran insieme ad altri 5 Stati nel 2015 – da cui l’amministrazione Trump è uscita nel 2018 – è ad un impasse.
Sia l’Arabia Saudita che Israele erano fermamente contrari all’accordo, che implicava da una parte la rinuncia allo sviluppo dei propri progetti nucleari militari e, dall’altra, la fine delle sanzioni statunitensi contro Teheran.
Gli Stati Uniti si sono mossi per far sì che Israele sia sempre più integrato nella regione, per un avvicinamento tra Israele e Riyad, e per promuovere una difesa aerea integrata a livello regionale, comprendente l’entità sionista: un aspetto che sarebbe di fatto la colonna vertebrale del progetto di “NATO araba”.
Un’intenzione che Teheran ha tacciato come “provocazione” e che è stata di fatto confermata da John Kirby, coordinatore delle comunicazioni strategiche al National Security Council statunitense.
Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati Arabi va avanti da tempo ed ha subito un’accelerazione con la firma degli “Accordi di Abramo”, che hanno avviato maggiori relazioni tra Israele Bahrein, EAU, Marocco e Sudan.
Un tradimento, quello perpetrato dai regimi arabi reazionari, ai danni del popolo palestinese e delle sue rivendicazioni storiche, cui ormai solo la Siria, l’Iran e l’“asse della resistenza” della Mezzaluna sciita – oltre all’Algeria – sembrano dare importanza.
Voci importanti degli ambienti strategici statunitensi propendono per una azione più incisiva degli USA in Medio Oriente, una sorta di nuova “Dottrina Carter”, di cui forse questa visita ha gettato le basi; non più contro l’URSS, ma contro quell’asse euro-asiatico composto da Russia, Cina ed Iran.
Per questo abbiamo tradotto quest’articolo della rivista Foreign Policy, che auspica un rilancio della dottrina Carter.
Buona lettura.
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Biden dovrebbe rilanciare la dottrina Carter per il Medio Oriente
Biden dovrebbe rilanciare la dottrina Carter per il Medio Oriente
John Hannah, Foreign Policy
Durante il suo viaggio in Israele e Arabia Saudita questa settimana, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden cercherà di rassicurare i partner di lunga data sul fatto che gli Stati Uniti restano impegnati per la stabilità e la sicurezza della regione. Ma l’elefante nella stanza è il fatto che quasi nessuno gli crederà.
Il danno cumulativo fatto durante più di un decennio di presidenti di entrambi i partiti che hanno abbandonato il Medio Oriente è stato troppo grande. La semplice presenza non sarà sufficiente a fermare l’accelerazione del marciume che ha messo radici nell’ordine di sicurezza guidato dagli Stati Uniti che ha contribuito a sostenere la stabilità della regione per la maggior parte dell’ultimo mezzo secolo.
Se Biden aspira davvero a spezzare la dinamica di erosione della credibilità e della deterrenza degli Stati Uniti, dovrà andare ben oltre i servizi fotografici e i discorsi allegri del suo recente articolo sul Washington Post e chiarire che la sua visita segna l’inizio di un cambiamento più fondamentale nella strategia degli Stati Uniti, dal ripiegamento alla ripresa.
Non sarà facile. La traiettoria del disimpegno statunitense ha raggiunto, per molti aspetti, la sua apoteosi durante i primi 17 mesi di mandato di Biden. La catastrofica ritirata dall’Afghanistan, che ha lasciato migliaia di alleati degli Stati Uniti bloccati dietro le linee nemiche, è stata forse la prova principale, soprattutto per i vulnerabili regimi arabi che storicamente hanno scommesso gran parte della loro sicurezza sulla potenza, l’affidabilità e la competenza della superpotenza statunitense.
Ma l’atto d’accusa è molto più lungo. Include la promessa di Biden di trasformare l’Arabia Saudita, il più antico e influente partner arabo di Washington, in un “paria” per la responsabilità del principe ereditario Mohammed bin Salman nell’orribile omicidio del giornalista statunitense Jamal Khashoggi; sospendere la vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti nel bel mezzo della loro guerra contro i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran nello Yemen; ritirare i mezzi di difesa aerea degli Stati Uniti dal Golfo Persico proprio nel momento in cui gli attacchi dei droni e dei missili Houthi contro i centri abitati e le infrastrutture critiche saudite erano al culmine; e rifiutando di rispondere, o rispondendo in modo inadeguato, non solo a dozzine di attacchi sostenuti dall’Iran contro le truppe e i diplomatici statunitensi, ma anche ad assalti senza precedenti con droni e missili contro alleati di lunga data come gli Emirati Arabi Uniti.
A peggiorare infinitamente le cose è stato lo sforzo aperto dell’amministrazione di attirare nuovamente l’Iran nell’accordo nucleare del 2015, noto come Piano d’azione congiunto globale. La maggior parte dei più potenti amici regionali di Washington – tra cui sauditi, emirati e israeliani – si oppongono all’accordo nel quale vedono una ricetta sicura per potenziare l’Iran e rinforzare ulteriormente il suo programma di aggressione regionale.
C’è molto da affrontare. Quanto le cose siano peggiorate è emerso in modo scioccante dalle notizie di quest’anno, secondo cui non solo il leader de facto dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman, ha respinto le suppliche di Biden di aumentare la produzione di petrolio per contribuire a frenare l’inflazione americana alle stelle di fronte all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma si è anche rifiutato di rispondere alla chiamata di Biden per discutere la questione.
Meno eclatanti, ma non per questo meno preoccupanti, sono stati i continui comportamenti di copertura di Sauditi ed Emirati nei confronti di Russia e Cina: dagli accordi di cooperazione militare, all’acquisto di armi e alla produzione di missili balistici, fino alla costruzione di basi navali segrete, all’acquisizione della tecnologia 5G di Huawei e alla minaccia di prezzare le vendite di petrolio alla Cina in yuan.
Ritrovarsi in uno scontro all’ultimo sangue con la Russia sui mercati energetici globali per poi scoprire che l’Arabia Saudita, il più importante produttore di petrolio al mondo e partner strategico da quasi 80 anni, non era più affidabile, è stato senza dubbio un brusco risveglio per Biden.
I suoi sforzi per declassare e sminuire le relazioni con Riyadh si sono ritorti contro e hanno danneggiato attivamente gli interessi degli Stati Uniti durante una delle peggiori crisi per la politica estera americana dalla Seconda Guerra Mondiale. Questo spiega la difficile decisione di Biden di ingoiare il rospo e di recarsi nel regno questo venerdì, nel tentativo di fare ammenda, nonostante le grida di protesta di molti membri del suo stesso partito.
Ma se da un lato potrebbe aiutare Biden a rispondere alle sue telefonate in futuro, dall’altro è improbabile che la visita sia sufficiente da sola ad affrontare la vera minaccia a lungo termine per il potere e l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente: la lenta emorragia di credibilità degli Stati Uniti come affidabile benefattore della sicurezza, che ha accentuato l’instabilità in quella che rimane la regione più importante per l’approvvigionamento energetico mondiale – e quindi per l’economia globale.
È improbabile che un semplice aggiustamento dell’equilibrio delle attuali politiche di Biden agli estremi – un po’ meno collaborazione nei confronti dell’Iran, un po’ meno antagonismo nei confronti dei sauditi – sia sufficiente a frenare le preoccupazioni profonde sull’impegno strategico di Washington nella regione.
La percezione che gli Stati Uniti si stiano irreversibilmente allontanando dal loro ruolo storico al centro dell’equazione di sicurezza del Medio Oriente è ormai troppo avanzata. Per farla deragliare, a questo punto, saranno probabilmente necessarie misure più drastiche.
Ad esempio? Un posto non del tutto ovvio in cui cercare ispirazione potrebbe essere l’ex presidenza statunitense di Jimmy Carter. Alla fine del 1979, dopo il sequestro degli ostaggi americani in Iran e l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la credibilità degli Stati Uniti in Medio Oriente si stava esaurendo.
Carter rispose nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 1980 annunciando quella che divenne nota come “Dottrina Carter”, un’importante dichiarazione politica che impegnava gli Stati Uniti a utilizzare qualsiasi mezzo necessario, compresa la forza militare, per respingere una potenza esterna dall’acquisire il controllo della regione del Golfo Persico.
Oggi, una “dottrina Biden” impegnerebbe esplicitamente e inequivocabilmente gli Stati Uniti a usare tutti gli elementi del potere nazionale, compresa la forza, per difendere i loro interessi vitali in Medio Oriente – bloccando il tentativo dell’Iran di dotarsi di armi nucleari e di raggiungere l’egemonia regionale e limitando la penetrazione deleteria della Russia e della Cina nella regione.
Una nuova dottrina enfatizzerebbe la priorità di sostenere con forza i partner più potenti degli Stati Uniti – Israele, Arabia Saudita e altri Paesi del mondo arabo – per forgiare un nuovo sistema di alleanze guidato dagli Stati Uniti per contrastare insieme le minacce comuni.
Come parte dell’accordo, Biden dovrebbe insistere sul fatto che la cooperazione più preoccupante con la Cina e la Russia da parte dei partner regionali degli Stati Uniti deve cessare; questo tipo di cooperazione con altre grandi potenze non dovrebbe più essere necessaria se Washington si impegna in modo convincente a difendere la sicurezza della regione.
In un’epoca di rinnovata rivalità tra grandi potenze, compreso lo scoppio di una grande guerra, la neutralità degli alleati degli Stati Uniti sulle minacce critiche all’ordine internazionale non dovrebbe essere accettabile.
L’iniziativa cercherebbe consapevolmente e inequivocabilmente di ripudiare la narrazione dominante dell’ultimo decennio, che vede gli Stati Uniti ritirarsi da una delle regioni più critiche del mondo. Dichiarerebbe apertamente che i giorni in cui gli Stati Uniti si sono allontanati dal Medio Oriente – mal considerati, poco saggi e pericolosi – sono ufficialmente finiti.
Ma non trattenete il fiato. Ci sono poche ragioni per credere che Biden sia all’altezza del compito. Il suo articolo pubblicato sul Washington Post comprendeva una lista di affermazioni per lo più dubbie su quanto le sue politiche avessero già migliorato la situazione nella regione.
Come per Carter, i consiglieri politici di Biden senza dubbio si tireranno indietro di fronte a qualsiasi suggerimento che possa richiamare paragoni con l’ultimo presidente democratico del Paese che è stato sonoramente respinto in un tentativo di rielezione.
Tuttavia, la “Dottrina Carter” è diventata una delle più importanti iniziative di politica estera degli ultimi 50 anni ed è rimasta la pietra miliare della strategia statunitense in Medio Oriente anche dopo che Carter ha lasciato la Casa Bianca.
Mentre Biden prepara gli Stati Uniti a una nuova guerra fredda contro una Cina in ascesa e una Russia revanscista, e mentre cresce l’importanza di assicurarsi che gli Stati cardine del Medio Oriente, ricchi di petrolio, rimangano saldamente e in modo affidabile nel campo degli Stati Uniti, potrebbe fare molto di peggio che emulare il 39° presidente.
Un rilancio della “Dottrina Carter” aiuterebbe gli Stati Uniti a rimettersi in carreggiata nella prossima lotta generazionale contro gli avversari più pericolosi.
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