di Domenico Moro
La cecchina dell’Armata Rossa (Odoya, 2021, euro 22) è un libro interessante e da leggere, non solo perché ci descrive alcuni episodi della Seconda guerra mondiale poco conosciuti in Italia, come le vicende dell’assedio di Odessa e Sebastopoli. Il libro ci restituisce anche uno spaccato della vita sociale, non solo militare, dell’Urss degli anni ’40 del XX secolo, immediatamente prima dello scoppio della guerra e durante i primi due anni di combattimento.
Il libro si ricollega a un sotto-settore del genere dei libri di guerra, quello delle autobiografie dei cecchini, cioè dei tiratori scelti o sniper, parola inglese che negli ultimi anni è sempre più utilizzata per definire questa specialità militare. Il cecchino si presta ad essere il protagonista di libri o film d’azione perché, nell’epoca del dominio delle macchine e degli eserciti di massa, rappresenta il combattente individuale che, utilizzando un fucile di precisione e combattendo spesso in modo solitario, infligge perdite pesanti al nemico. Non a caso, negli anni recenti sono usciti diversi film sui questi soldati, spesso ispirati ad autobiografie di cecchini del passato e del presente. Tra questi ci sono American sniper (2014) di Clint Eastwood, sul cecchino statunitense Chris Kile, operativo durante la seconda invasione dell’Iraq, e il Nemico alle porte (2001) di Jean Jacques Annaud, sul cecchino sovietico Vasilij Zajcev, che combatté a Stalingrado.
Anche sulla protagonista di La cecchina dell’Armata Rossa, Ljudmila Pavličenko, è stato girato un film, Resistance. La battaglia di Sebastopoli (2015). Si tratta di una produzione russo-ucraina, fatto notevole, a fronte del solco che, a partire dal 2014, si è scavato tra le due nazioni sorelle e che ha condotto alla guerra attualmente in corso. In effetti, la protagonista, ucraina per nascita, è una fervente patriota sovietica, testimoniando l’intimo legame che c’era (e c’è) tra i due Paesi, Ucraina e Russia, cementato da secoli di storia e dal fatto che ucraini e russi hanno versato il loro sangue insieme durante la Grande guerra patriottica, come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale.
Oltre al fatto di essere l’autobiografia di una ucraina patriota e comunista sovietica, questo libro è di notevole interesse perché riguarda una donna, che abbraccia un “mestiere”, quello delle armi, che è tradizionalmente appannaggio degli uomini. Friedrich Engels, riprendendo Fourier, diceva nell’Anti-Dühring che “in una data società, il grado di emancipazione della donna è la misura dell’emancipazione generale”[i]. Nel Paese del socialismo realizzato la donna tendeva a rivestire anche ruoli tradizionalmente maschili. In effetti, la guerra “totale” del XX secolo ha generato un impulso verso una maggiore partecipazione della donna alla vita moderna. Sia nella Prima guerra mondiale sia nella Seconda guerra mondiale le donne, in molti Paesi, entrano nella vita produttiva, sostituendo nelle fabbriche gli uomini partiti per la guerra. Inoltre, durante la Seconda guerra mondiale le donne entrano anche nelle Forze Armate di alcuni Paesi. Tuttavia, la partecipazione femminile è limitata a compiti ausiliari e non di combattimento. È solamente in Unione Sovietica che le donne fanno ingresso nelle Forze Armate direttamente in prima linea, partecipando ai combattimenti. Ljudmila Pavličenko si arruola come volontaria in una unità di fucilieri. Ljudmila non solo combatte (e viene ferita più volte), ma, cosa ancora più rimarchevole, è anche a capo di una unità di combattimento composta di soldati maschi e, dopo il servizio al fronte, diventa istruttore per tiratori scelti. Come cecchino totalizza 309 uccisioni, in appena un anno di guerra, il che rappresenta un record che è superiore a quello della maggior parte dei suoi colleghi cecchini maschi.
Ljudmila non è un caso isolato. Lei stessa nella sua autobiografia racconta di un’altra eroina della sua grande unità, la mitragliera Nina Onilova, insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa. In totale, le cecchine dell’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale furono 2000. Tra le molte donne combattenti, famose furono anche le componenti femminili dell’antiaerea e le streghe della notte, una unità speciale di aviatrici che bombardavano i tedeschi di notte. Tutte queste unità pagarono un alto prezzo in termini di donne cadute in combattimento. Naturalmente non si deve pensare che in Unione Sovietica non ci fossero resistenze all’impiego di donne in combattimento. La stessa Ljudmila nell’autobiografia racconta di aver incontrato uomini che mostravano pregiudizi e scetticismo sulla presenza femminile in prima linea. C’è persino un episodio, raccontato in modo sottilmente ironico, in cui tre nuovi acquisti dell’unità di Ljudmila pensano a uno scherzo quando lei gli dice di essere il comandante. Ma quel che è più importante è l’atteggiamento dei vertici dell’Armata Rossa che accolsero senza remore le volontarie donne in ruoli di combattimento. Le donne nella Russia sovietica non furono soltanto madri, mogli o operaie delle fabbriche belliche, come negli altri Paesi in conflitto, ma anche guerriere. L’abilità nel combattimento e la determinazione nella lotta dimostrate da molte di queste donne sono state non inferiori a quelle degli uomini. Ljudmila, di ritorno dal viaggio diplomatico che la portò negli Usa e in Gran Bretagna, chiese insistentemente di ritornare in prima linea, contro il parere dei vertici dell’Armata Rossa, che la vorranno invece nelle scuole di addestramento per cecchini.
Per la verità, la partecipazione delle donne al combattimento in Urss rientra in una lunga tradizione del movimento operaio e rivoluzionario socialista, che affonda le sue radici nel battaglione femminile della Comune di Parigi del 1871 e prosegue con la partecipazione femminile, dalla parte dei repubblicani, alla Guerra civile spagnola e alla Resistenza, in Italia all’interno dei Gruppi d’azione partigiana (Gap), nei quali le donne partecipavano a scontri a fuoco e attentati contro i nazifascisti. Tuttavia, prima dell’Urss, negli eserciti regolari non c’era stata presenza di donne in combattimento. L’Urss ha rappresentato un unicum fino a tempi recentissimi, quando le donne sono state integrate in alcune Forze Armate anche in reparti di combattimento.
Ritornando a La cecchina dell’Armata Rossa, bisogna dire che non è solo un diario di guerra, che racconta le vicende belliche del fronte ucraino, durante gli assedi di Odessa e Sebastopoli, ma anche un documento sulla vita sovietica. Appare evidente come, all’epoca, lo studio venisse alternato a periodi di lavoro. Ljudmila interrompe gli studi per lavorare in una fabbrica, l’Arsenal, come operaia addetta al tornio. Ma gli studi e la formazione continuano anche in fabbrica e Ljudmila, dopo aver frequentato un corso di specializzazione, diventa progettista capo all’officina meccanica. Inoltre, in fabbrica la direzione aveva organizzato molte attività per occupare il tempo libero degli operai: un gruppo teatrale operaio, uno studio d’arte, che insegnava disegno e un circolo di volo e di tiro a segno. Fu proprio nel circolo di tiro a segno che Ljudmila, che fa anche parte dell’organizzazione giovanile del partito comunista, il Komsomol, comincia a interessarsi di armi e di tiro di precisione. Grazie alla fabbrica Ljudmila può frequentare i corsi serali della facoltà operaia dell’università statale di Kiev e, superati gli esami, diventare studentessa a tempo pieno presso la facoltà di Storia dell’Università di Kiev. Ma nel periodo di studio universitario Ljudmila trova l’occasione di frequentare anche un corso biennale alla scuola per tiratori scelti, organizzata dall’Osoaviachim, che era una organizzazione paramilitare di massa, il cui scopo era avvicinare i cittadini sovietici al volo e ad altre discipline che potevano essere utili dal punto di vista militare. In questo modo, Ljudmila impara le tattiche e le tecniche da cecchino, che, una volta scoppiata la guerra, le saranno utili contro i nazisti, permettendole di raggiungere quota 309 uccisioni.
La cecchina dell’Armata Rossa si divide in tre parti: la prima parla del periodo prima della guerra, la seconda delle operazioni belliche vere e proprie, e la terza del viaggio diplomatico che Ljudmila compie negli Usa e nel Regno Unito. Quest’ultima parte ricopre un interesse particolare, perché in essa Ljudmila descrive personaggi storici di primaria importanza con i quali entra in contatto: il capo sovietico, Stalin, il presidente degli Usa, Franklin Delano Roosvelt, la moglie di quest’ultimo, Eleanor Roosvelt, il premier britannico, Churchill, e sua moglie Clementine, il capo e fondatore della Ford, Henry Ford e, infine, l’attore Charlie Chaplin. Il viaggio fu organizzato nel 1942, quando non era ancora avvenuto lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) e l’Urss sopportava da sola la pressione dell’enorme forza della macchina bellica nazifascista. Lo scopo dell’invio di una delegazione sovietica, composta da tre giovani combattenti sovietici, all’assemblea studentesca internazionale era teso a sollecitare l’apertura di un secondo fronte contro i nazifascisti e a perorare la causa dell’Unione Sovietica presso le opinioni pubbliche di Usa e Regno Unito. In questo viaggio Ljudmila diventa la beniamina soprattutto del pubblico statunitense. Colpisce che il sistema di comunicazione di massa si impadronisca di questa donna comunista e combattente, facendone un personaggio popolare di notevole richiamo. Siamo molto lontani dal maccartismo e dalla fobia anticomunista, che imperverseranno negli Usa nel dopoguerra. Ora, siamo nel 1942, i comunisti sovietici sono alleati preziosi e non ancora “l’impero del male” da distruggere.
Ljudmila, durante gran parte del viaggio propagandistico nelle città statunitensi, è accompagnata da Eleanor Roosvelt. La first lady statunitense è un personaggio centrale nel libro. Le due donne finiranno per intrecciare una amicizia che durerà negli anni, ben oltre il viaggio del 1942. Secondo le parole di Ljudmila, Eleanor è “aristocratica, milionaria, membro della classe sfruttatrice”[ii]. Eppure la Roosvelt rimane colpita da questa ragazza in uniforme e a poco a poco nasce una profonda empatia tra le due. Anche Ljudmila è colpita dalla statunitense, che rappresenta un modello di donna tutt’altro che all’ombra del marito presidente. Eleanor, infatti, svolge un ruolo politico importante e del tutto inusuale per una first lady, rappresentando “gli occhi, le orecchie e le gambe”[iii] del presidente, limitato a muoversi dalla grave forma di poliomielite che lo costringeva sulla sedia a rotelle, arrivando a condurre la campagna elettorale per la presidenza al posto del marito e influenzandone le decisioni.
Ljudmila incontra anche il presidente statunitense che va dritto al punto che sta a cuore ai sovietici: l’apertura di un secondo fronte in Europa: “Dite al governo sovietico e all’onorevole Stalin che ora per me è difficile dare un’assistenza più concreta al vostro Paese. Noi americani non siamo ancora pronti per un intervento decisivo. Sono i nostri alleati britannici a bloccarci. Ma il cuore e lo spirito del popolo americano sono con i nostri alleati russi.” Colpisce, a parte il fatto che Roosvelt parli così schiettamente di un aspetto decisivo di politica internazionale con una semplice sottotenente, anche che gli Usa si sentano più vicini dei britannici alla Russia sovietica e all’”onorevole” Stalin, evidentemente non ancora il mostro sanguinario della propaganda occidentale post-bellica.
Di particolare interesse sono i brevi cenni alla visita di Ljudmila presso la Ford. Qui, dopo l’incontro con Henry Ford, che le consegna un distintivo d’oro della sua azienda, Ljudmila tiene un discorso davanti a trecento operai, che “avevano un’aria cupa, senza sorriso e sembravano angustiati dalla tuta blu che avevano indosso”. A differenza di quanto normalmente faceva il pubblico delle conferenze che Ljudmila teneva negli Usa, da parte degli operai Ford “non ci furono i soliti applausi, domande, auguri. Quando me ne andai, si alzarono in silenzio dai loro posti”. Ljudmila commenta l’incontro definendo Henry Ford “un nemico dei lavoratori”. Allorché Eleanor prova a difendere il magnate, Ljudmila risponde: “Ma come tratta i suoi operai? Peggio del bestiame braccato da cani da guardia. Perché sono stati zitti?”. Interessante è la risposta di Eleanor: “Sono l’aristocrazia operaia. Ford paga bene. Hanno molto da perdere. Sì li tiene d’occhio: vanno in chiesa, non bevono whisky o giocano d’azzardo, provvedono alla famiglia, non si iscrivono ai sindacati, non scioperano... Avevano paura di parlare con te. Vieni dalla Russia comunista.”[iv] In questo modo, ci viene fornito un quadro, più efficace di tante analisi sociologiche, del fordismo, fondato su uno scambio tra alti salari e acquiescenza al dispotismo capitalistico di fabbrica, e del fenomeno dell’”aristocrazia operaia”, già individuato e analizzato da Lenin ne L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.
Di tutt’altro tenore è l’incontro con diverse famose stelle di Hollywood e soprattutto con Charlie Chaplin – “grande amico dell’Unione Sovietica”, come lo definisce Ljudmila – che “svolse un ruolo importante nel Russian War Relief[v], contribuì a raccogliere somme significative per la nostra popolazione e a rifornire L’Armata Rossa di attrezzature e armamenti.”[vi]
Dopo una permanenza di alcuni mesi negli Usa, la delegazione sovietica parte per la Gran Bretagna, dove visita istallazioni militari, la cattedrale di Canterbury, recentemente bombardata dai nazisti, e partecipa a conferenze stampa, ma, soprattutto, ha un incontro con il primo ministro Winston Churchill e la moglie Clementine, che si svolge in un’atmosfera cordiale ma più superficiale in confronto a quanto avvenuto con la coppia dei Roosvelt.
L’incontro più interessante di Ljudmila è senz’altro quello con Stalin. Per la verità gli incontri furono due, il primo, insieme agli altri due componenti della delegazione, e, il secondo da sola. Nel primo incontro Ljudmila vede per la prima volta il leader sovietico del quale la colpisce lo sguardo: “Ad attirare la mia attenzione furono gli occhi scuri, simili a quelli di una tigre. Si percepiva che aveva una immensa forza interiore.”[vii] Mentre gli altri presenti sono intimiditi, Ljudmila, alla domanda del leader sovietico se avessero qualche richiesta, risponde che avrebbe bisogno di un manuale e di un dizionario di inglese per poter conoscere meglio gli alleati, al che Stalin risponde: “Ben detto compagna Pavličenko. Avrai quei libri. Da me personalmente.”[viii] Ma è il secondo incontro che lascia maggiormente colpiti, rivelando un capo del Cremlino diverso da come certa vulgata storica ce lo racconta. Stalin sa che Ljudmila è stata ospite dei Roosvelt per una settimana e, dal momento che avrebbe dovuto incontrare presto il presidente statunitense, vuole sapere che persone siano. Siccome Ljudmila è nervosa, Stalin le chiede il perché del suo nervosismo e la mette a suo agio chiedendole di raccontargli la sua esperienza da cecchino. A questo punto Ljudmila fa richiesta a Stalin di poter ritornare al fronte, visto che questo le era stato impedito, sostenendo che, avendo più esperienza, avrebbe avuto maggiori possibilità di sopravvivere. La risposta di Stalin è rivelatrice di uno stile maieutico e tutt’altro che autoritario. Il capo del Cremlino, prima chiede a Ljudmila perché, dati i traumi e le ferite riportate, voglia ritornare in prima linea, poi, “prese una matita, tirò a sé un grande blocco e cominciò a spiegare come un maestro di scuola. "Se torni in prima linea, ucciderai un centinaio di fascisti. Ma potrebbero anche ammazzarti. Se invece addestri cento cecchini, trasmetti loro le tue inestimabili conoscenze e ognuno spara a dieci nazisti, quanti ne faranno fuori? Un migliaio. Eccoti la risposta. Servi più qui compagno tenente.”[ix]
L’autobiografia di Ljudmila Pavličenko ci restituisce il racconto di una guerra brutale, di una violenza senza precedenti, in cui per i cecchini sovietici catturati dai nazifascisti c’era la tortura e la morte e per le donne lo stupro. A sostenere la cecchina c’era la consapevolezza di combattere una guerra per l’umanità e contro la barbarie nazifascista, che sterminava i civili come i soldati. Una guerra “totale”, che portava anche le donne a prendere le armi, come volontarie, per difendere la propria patria e le proprie idee socialiste.
Alla fine della guerra Ljudmila riprese gli studi e diventò una storica, lavorando successivamente come ricercatrice presso lo stato maggiore della marina sovietica. La guerra, però, aveva segnato in profondità Ljudmila Pavličenko sia nel fisico sia nella psiche. Ferite e psicosi traumatiche si fecero sentire sempre più fortemente nel corso degli anni, fino a che nel 1953 fu costretta a ritirarsi col grado di maggiore della guardia costiera navale. Tuttavia, fino alla sua morte, che avvenne nel 1974 a soli 58 anni, Ljudmila Pavličenko si dedicò, con i veterani di guerra, a un lavoro sistematico presso le giovani generazioni per ricordare il conflitto e le tradizioni militari dell’esercito sovietico.
Note
[i] F. Engels, Anti-Düring, Editori Riuniti, Roma 1985, p.249.
[ii] Ljudmila Pavličenko, La cecchina dell’Armata Rossa, Odoya, Città di castello 2021, p.238.
[iii] Ibidem.
[iv] Ibidem, pp. 255-256.
[v] Si tratta della maggiore agenzia statunitense per l’assistenza ai paesi in guerra.
[vi] Ibidem, p. 263.
[vii] Ibidem, p. 225.
[viii] Ibidem.
[ix] Ibidem, p.293.
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