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15/07/2022

29 anni di concertazione e di “politica dei redditi” hanno ridotto il lavoro in semischiavitù

Dal rapporto annuale presentato dal presidente dell’Inps: un lavoratore su tre in Italia guadagna meno di 780 euro.

Invece gli stipendi dei top manager sono 649 volte più alti della retribuzione media di un lavoratore dipendente. Nel 1980 non superavano quasi mai di 45 volte quello di un dipendente.

Ma come siamo arrivati a questo livello mostruoso di disuguaglianza?

Due sono stati i passaggi storici che hanno aperto la strada al formarsi di questa massa di “schiavi salariati”(definizione di Karl Marx).

1. “La svolta dell’Eur”.

A febbraio del 1978 si tenne una conferenza sindacale al palazzo dei congressi dell’Eur di Roma. Dietro la spinta del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer, l’allora segretario della CGIL, Luciano Lama, lanciò la “politica dei sacrifici” che s’imperniava sulla moderazione salariale in cambio di un fantomatico programma di investimenti per garantire l’occupazione.

La tesi di Lama era che i maggiori sacrifici dei lavoratori avrebbero permesso ai padroni di accumulare il capitale necessario per gli investimenti. Il lavoro, dunque, come variabile dipendente del capitale.

2. L’ “Accordo sul costo del lavoro” del luglio 1993 firmato da governo, sindacati e Confindustria.

Il motivo era la decisione unilaterale di Confindustria di dare disdetta alla scala mobile, il meccanismo che adeguava automaticamente i salari all’inflazione.

Cambiarono radicalmente le regole della contrattazione secondo un modello articolato su due livelli: il contratto nazionale e quello integrativo aziendale o territoriale. Inoltre, la durata del contratto, solo per la parte economica, si accorciò a due anni mentre i rinnovi contrattuali furono agganciati all’inflazione programmata fissata dal governo nei documenti di programmazione economica e finanziaria.

I contratti, da allora, non tennero più conto dell’inflazione reale ma di quella “programmata” a tavolino e a priori dal governo. In tal modo si posero le basi per una progressiva perdita del potete d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori italiani a causa dei continui scostamenti tra previsioni e situazione reale.

Era sparito qualsiasi meccanismo di adeguamento dei salari all’andamento del costo della vita che, intanto, cresceva sempre di più anche a causa delle politiche ultraliberiste e delle privatizzazioni selvagge messe in atto da tutti i governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi tre decenni.

Il risultato è che oggi abbiamo gli stipendi ed i salari tra i più bassi d’Europa oltre ad un tasso di disoccupazione che, nel 2021, ha toccato il 23,3%. Ed ora, grazie all’economia di guerra imposta dal governo Draghi e con l’inflazione che ha ripreso a crescere a ritmi vorticosi, l’area del lavoro povero rischia di diventare davvero imponente.

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