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18/07/2022

Judas Priest - 1980 - British Steel

Come per altre band che hanno esercitato una particolare influenza sullo sviluppo della musica popolare e prodotto una carriera lunga varie decadi, è difficile stabilire quale sia il disco più importante dei Judas Priest. Si potrebbe puntare su un titolo anni Settanta, quando la componente metal non si era ancora del tutto distaccata dall’hard rock e dalla sua carica blues, in lavori dall’anima dark come “Sad Wings Of Destiny”, “Sin After Sin” e “Stained Class”, oppure scegliere tra i dischi degli Ottanta, quegli “Screaming For Vengeance” e “Defenders Of The Faith” dalla forgiatura heavy metal ormai scintillante. Si potrebbe sconfinare fino al 1990 di “Painkiller”, con il quale la band di Birmingham dimostrò di poter competere a testa alta con tutta la nuova generazione di band metal cresciute proprio sotto la sua egida. Una cosa però è certa, ovvero quale sia il disco dei Judas Priest che più di ogni altro ha segnato l’immaginario dell’heavy metal, per motivi musicali quanto extra-musicali: “British Steel”.

Max Cavalera (Sepultura, Soulfly) non ha dubbi: "In questo disco puoi trovare tutte le fondamenta del thrash metal, sono tutte lì, in canzoni come 'Rapid Fire' e 'Grinder'. Sono certo che si potrebbe domandare ai Metallica, se non fosse stato per 'British Steel', non sarebbero lì, questo è quanto quel disco è potente".

È dello stesso avviso Scott Ian (Anthrax) che in un’intervista dichiarò addirittura che si tratta del disco che determinò il concetto stesso di heavy metal.

Se a livello di sonorità si potrebbe discuterne (anche non volendo andare indietro fino ai Black Sabbath, c’erano già i Rainbow, e gli stessi Judas Priest si erano già mossi in quella direzione), a livello visivo non si può che concordare: basta ricercare su YouTube qualche esibizione dei Judas Priest dell’epoca e l’heavy metal è tutto lì.

Gli smanicati di pelle borchiati (di chiaro retaggio sadomaso) vestiti come un’uniforme, le chitarre elettriche a coda di rondine suonate da K.K. Downing e Glenn Tipton in fila come in una coreografia, gli incitamenti di folla ferini di Rob Halford, la sua presenza scenica prevaricante, Ian Hill e Dave Holland che pestano basso e batteria con una foga che raramente si era vista prima.

Con il suo corredo iconografico, “British Steel” inaugura una metodologia fatta di live rituali, merchandising e copertine iconiche che sarà alla base di numerose saghe metal a venire (ne sanno qualcosa tanto gli Iron Maiden quanto i Megadeth).

Quando nell’aprile del 1980 la Columbia riversò il sesto lavoro dei Judas Priest sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo, prima ancora che un grande disco, mise in commercio quello che potremmo definire un oggetto di culto, sin dal titolo e dalla copertina. Il primo è un ironico riferimento alla British Steel Corporation, dove peraltro il chitarrista Glenn Tipton aveva lavorato per cinque anni, ma soprattutto è una dichiarazione di intenti: i Judas Priest volevano marchiare e avrebbero marchiato a fuoco la scena heavy metal britannica. La seconda, che immortala una mano brandente un’enorme lama di rasoio da barba (prodotta ad uopo, visto che Photoshop sarebbe nato decenni dopo) con sopra il titolo del disco e il logo della band.

Per trovare qualcosa di ancora più iconico, non c’è altro da fare che premere play e venire letteralmente investiti dal ronzare incalzante del riff di chitarra e, poi, dal rullante guerraiolo di “Rapid Fire”. È la fine del mondo e Halford canta, a tratti ringhia, come se fosse alla guida di un attacco a quel che rimane dell’umanità. Si tratta di un brano incredibilmente rapido e diretto, atto a disorientare chi dalla band si aspettava la consueta intro epica.

L’epica non tarda ad arrivare nel brano successivo, dal titolo programmatico di “Metal Gods”. Tra frustate ritmiche, riff corposi dall’incedere marziale e un ritornello dall’intonazione sacrale, Halford continua a indugiare su visioni post-apocalittiche che, in questo caso, sembrano anticipare di quasi un lustro le intuizioni di “Terminator”, il celebre film di James Cameron. Contagioso e ancora una volta iconico, il brano ha un titolo che nei decenni a venire sarebbe diventato di uso comune nelle adunanze e nella cultura metal head.

Sono soltanto l’abbrivio di un’infilata di classici metal che ha pochi eguali. Registrato nel dicembre del 1979 in un luogo epico come Tittenhurst Park, ovvero la tenuta di proprietà di Ringo Starr e un tempo appartenuta a Yoko Ono e John Lennon, dove quest’ultimo ha scritto e registrato “Imagine”, “British Steel” sembra in qualche modo assorbire la grandeur del rock da classifica inglese e piegarla al sound durissimo sviluppato gradualmente a partire da “Sad Wings Of Destiny”. In seguito alla pubblicazione del disco, Rob Halford avrebbe ammesso che il tour europeo di spalla agli Ac/Dc di qualche mese prima ebbe grande influenza sull’approccio più diretto e volto a fomentare le folle adoperato per la scrittura e la realizzazione delle nuove canzoni.

Di questo nuovo approccio è certamente simbolo terza traccia del disco, “Breaking The Law”. La canzone responsabile della definitiva consacrazione commerciale dei Judas Priest è tutt’oggi uno degli inni più famosi e amati dell’heavy metal. Il riff semplice che incanala energia pura e grezza sembra non finire mai, la ritmica è frenetica e sferragliante, Halford fomenta gli ascoltatori alla ribellione sociale schiumando di rabbia. Scritto poco dopo l’elezione di Margaret Thatcher a primo ministro del Regno Unito, il brano è narrato in prima persona da un giovane operaio che ha da poco perso il posto di lavoro e, annichilito da questo quanto dall’ordinarietà della vita proletaria, inizia a infrangere la legge. Heavy metal quindi, ma anche una forte carica sociale dall’istinto anarchico, che confina direttamente con il punk. Contribuì al successo del brano lo storico videoclip nel quale la band rapina una banca armata delle sole chitarre.

Il disco continua a ruggire critica sociale nella successiva “Grinder”, un brano ancora più scuro che con il suo ritmo in 4/4 schiacciasassi e i riff di chitarra incalzanti prende di mira una società che agisce sulle persone come un tritacarne: “Grinder/ Looking for meat/ Grinder/ Wants you to eat”. Politica e corporazioni non solo trattano gli individui come carne da macinare, ingoiare e risputare, ma costringono i diversi a vivere nel segreto.

Dopo il suo coming out (avvenuto soltanto nel 1998), Rob Halford dichiarò che la canzone parla velatamente anche della tensione sessuale vissuta da omosessuale non dichiarato e terrorizzato dalla reazione che i suoi fan avrebbero avuto se fosse uscito allo scoperto. In realtà, una volta dichiaratosi, Halford avrebbe ricevuto tutto il supporto dei fan e sarebbe diventato egli stesso una fonte di ispirazione e di conforto per tutta la comunità LGBT del mondo metal.

Spacca il disco in due e ne chiude la prima facciata “United”, un brano più morbido di quelli che lo precedono, pensato, suonato e cantato per coinvolgere la folla. Ancora una volta Halford guarda alle conseguenze del governo conservatore inglese di Margaret Thatcher sulle fasce più deboli della società, e con il ritornello sembra volerle abbracciare e sostenere: “United, united, united we stand/ United we never shall fall/ United, united, united we stand/ United we stand one and all”. Vero e proprio classico e ultimo singolo tratto dal disco, la canzone prende anche spunto dal disinteresse verso il metal della stampa inglese, puntata all’epoca quasi interamente sul punk, e diventa così un accorato invito ai metal head del Regno Unito e del mondo a fare comunità e salire alla ribalta. Estremamente contagiosa e canticchiabile, “United” diventò presto anche la protagonista di numerosi cori da stadio inglesi.

In apertura del secondo lato del vinile, i due brani più radiofonici del lotto, nei quali il metal viene smussato in favore di un hard rock infettivo e divertito. Il primo è “You Don’t Have To Be Old To Be Wise”: riff di tre accordi a dare la carica, chitarra solista festosa che ricama sullo sfondo, Halford a strillare il titolo allungandolo come un mantra micidiale. Con più leggerezza, anche qui i reietti sono i protagonisti e vengono invitati a fregarsene di chi li ritiene stupidi solo perché vestono di nero, portano i capelli lunghi e sono giovani.

Nata quasi per caso, “Living After Midnight” è ancora più allegra e scanzonata. Una notte tra due sessioni di registrazioni, Halford stava cercando di dormire qualche ora, quando alle quattro del mattino Tipton iniziò a fare risuonare negli ampi spazi di Tittenhurst Park un riff che sarebbe presto diventato leggenda. Ormai sveglio, Rob gli tuonò: “You’re living after midnight down here, you are!” (“Stai vivendo dopo mezzanotte”). “Beh, mi sembra un gran titolo per una canzone”, fu la risposta che ricevette da Titpton. Detto, fatto: il giorno dopo la band confezionò uno dei brani più abusati del suo repertorio, inno immortale delle scorribande e dei bagordi notturni di ogni rockstar che si rispetti.

La segue “Rage”, brano piuttosto atipico per i loro standard. Nei primi 40 secondi, Holland e Hill disegnano una caracollante ritmica reggae, li segue la chitarra pimpante di Tipton. È un incipit, e poi un intermezzo, straniante, volto però soltanto a riaccendere subito dopo i motori metallici e rovesciare il riff frastornante di K.K. Downing con ancora più ferocia nelle orecchie degli ascoltatori. Più in avanti nel corso della canzone quest’ultimo non perde occasione per dare sfogo alla sua passione per il vecchio rock e per il blues dei Free o di Gary Moore.

Non è un caso, invece, che numerose star del metal a venire indichino la conclusiva “Steeler” come il loro brano preferito. È ad esempio del partito il compianto Dimebag Darrel dei Pantera, che vedeva nel brano più duro di “British Steel” una vera e propria stella polare. La batteria di Holland è tonante, Halford torna a latrare feroce, i riff e gli assoli di Tipton e Downing non danno tregua, si susseguono scattanti, furibondi e affilati, nei solchi che lasciano a terra i semi dello speed e del thrash metal a venire.
Da segnalare gli effetti speciali voluti dal produttore Tom Allom (già tecnico del suono per i Black Sabbath e produttore degli Strawbs), che ricorse a trucchi casalinghi ma per l’epoca efficaci, come registrazioni di materiali infranti, sirene e rombi di motore, allo scopo di dare contesto e aggiungere suggestioni alla violenza delle esecuzioni.

L’impatto dell’album fu immediato, prima con l’ingresso al numero 4 della classifica britannica (rimane ad oggi il miglior risultato dei Judas Priest in patria), poi con la tanto agognata affermazione sul mercato americano: il 12 luglio 1980 raggiungeva infatti il numero 34 nella lista di Billboard (inaugurando una lunga serie di ingressi in Top 40) e un paio d’anni più tardi faceva ottenere alla band il suo primo disco d’oro certificato dalla Riaa (poi divenuto di platino nel 1989).

“British Steel” è praticamente la quintessenza dell’heavy metal di pelle vestito e tutto borchiato che ci viene in mente quando pensiamo a quel periodo. È uno degli album da cui iniziare per inoltrarsi in quella selva oscura e rumorosa chiamata metal.

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