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23/01/2022

La rabbia americana e la pazienza cinese

Per chi voglia approfondire i motivi che hanno innescato la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Cina, un recente saggio di Giacomo Gabellini (Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Editore Mimesis) è una lettura a dir poco preziosa. Si tratta di un lavoro corposo, corredato da un’ampia mole di analisi, informazioni e notizie di carattere storico, economico e geopolitico che attraversa un secolo abbondante di storia – dalla seconda metà del secolo XIX a oggi – per descrivere ascesa, consolidamento e crisi dell’egemonia americana. Ricostruirne tutti i contenuti sarebbe impossibile senza scrivere decine di pagine, per cui mi accontento qui di illustrarne alcuni passaggi. Il testo che segue è organizzato in due sezioni: la prima dedicata al percorso evolutivo dell’imperialismo Usa, la seconda alla sfida lanciatagli dall’emergere della Cina come potenza globale. Le due sezioni non rispecchiano il peso reciproco che l’autore attribuisce agli argomenti in questione, nel senso che al secondo ho dedicato più spazio rispetto a quello concessogli dall’autore: la metà della recensione a fronte di un’ottantina di pagine sulle 400 del libro.

I. Storia di un ciclo egemonico

Il paradigma teorico che inspira il saggio di Gabellini è quello tracciato dallo storico Fernand Braudel (e arricchito dall’economista Giovanni Arrighi). Braudel, ricorda Gabellini, riteneva che le fasi di espansione finanziaria siano il sintomo che preannuncia la fine di un ciclo egemonico e la conseguente riconfigurazione del quadro geopolitico mondiale. A innescare la crisi è l’intensificazione della concorrenza inter capitalistica che determina il declino dei tassi di profitto. In tali condizioni l’investimento produttivo diventa rischioso, per cui le imprese del centro dominante tendono a mantenere i propri ricavi in forma liquida, con effetti devastanti su occupazione, produttività, disuguaglianza sociale, gettito fiscale e crescita economica. A questo punto il ciclo può continuare solo autoalimentandosi artificiosamente (guadagnando tempo, per dirla con Wolfgang Streeck), cioè sfruttando la finanza come strumento di stabilizzazione. Ma sul lungo periodo il calo degli investimenti produttivi compromette l’innovazione tecnologica, favorendo il deflusso della liquidità accumulata dal centro verso le nazioni emergenti che assicurano rendimenti più elevati. Come vedremo più avanti, questa “fase terminale” inizia già fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del XX secolo, ma prima di arrivarci vediamo le tappe precedenti.

Nella seconda metà del secolo XIX maturano le condizioni che di lì a qualche decennio faranno perdere il ruolo di centro egemonico alla Gran Bretagna. A mano a mano che il saccheggio delle colonie (in primis dell’India) accentua i connotati commerciali e finanziari del capitalismo britannico, disincentivando gli investimenti in innovazione tecnologica, l’Inghilterra perde l’autobus della II Rivoluzione industriale, sul quale viaggiano spediti Germania e Stati Uniti. A decidere quale dei due aspiranti assumerà il ruolo di nuova nazione egemone sarà la Prima guerra mondiale. La Germania sembra in vantaggio, ma dal momento che la sua crescente potenza economica e militare minaccia l’egemonia navale di Stati Uniti e Gran Bretagna e quella tellurica di Francia e Russia, si trova a dover fronteggiare contemporaneamente tutte queste quattro potenze, uscendone con le ossa rotte.

Viceversa gli Stati Uniti escono da trionfatori dal conflitto, sia perché hanno accumulato enormi crediti nei confronti degli alleati, sia perché la guerra ha dato un forte impulso al suo già poderoso apparato industriale. L’utopia “pacifista” del presidente Woodward Wilson, che ambisce ad attribuire al proprio Paese il ruolo di grande mediatore/coordinatore di un nuovo ordine economico mondiale, fallisce per l’opposizione del Congresso, il quale non intende rinunciare ai crediti di guerra (e a maggior ragione non vi rinunciano gli alleati europei, che scaricano tutto il peso sulla Germania, ignorando i moniti di Keynes). Il modello economico della potenza emergente si basa su giganteschi trust verticali a gestione burocratica, quei robber barons che, avendo ereditato la vocazione speculativa delle imprese che nell’800 avevano costruito la rete ferroviaria fra i due oceani, finiranno per creare le condizioni della Grande Crisi del 29. La svolta statalista e welfarista del New Deal, inspirata dal terrore che l’immiserimento delle masse alimenti la tentazione di imitare la Rivoluzione russa del 1917, tampona la crisi ma senza riuscire a risolverla, per cui parte la corsa agli armamenti: nel 39 gli Stati Uniti producono più mezzi di trasporto, acciaio, alluminio e petrolio di tutte le altre potenze messe assieme, per cui diventano i fornitori dei belligeranti prima ancora di scendere direttamente in campo (Arrighi sostiene che gli anni dal 1914 al 1945 sono da considerare come un’unica grande guerra, associata a un’ininterrotta crisi economica che si risolve appunto solo grazie alla Seconda guerra mondiale).

A dare la misura del passaggio di consegne fra la Gran Bretagna (stremata dal conflitto, come le altre nazioni europee) e gli Stati Uniti (che viceversa hanno riassorbito i dieci milioni di disoccupati generati dalla Grande Depressione e distribuito consistenti aumenti salariali, ricompattando la società come testimoniano i massicci acquisti di titoli di stato per finanziare la guerra) è il contenuto degli accordi di Bretton Woods. Mentre Keynes propone di introdurre il bancor, una moneta internazionale che avrebbe dovuto assolvere le funzioni di unità di conto e di mezzo di pagamento ma non di riserva di valore, gli Usa impongono un regime che àncora il dollaro all’oro (35 dollari l’oncia) e lega la valuta americana alle altre secondo tassi di cambio fissi. Nel contempo gli accordi Gatt creano le condizioni per un nuovo mercato mondiale privo di protezioni doganali e tariffarie, che offre alle imprese americane l’opportunità di incrementare il proprio export e importare materie prime a basso costo dal Terzo Mondo (in fase di rapida de-colonizzazione su pressione degli Stati Uniti che si preparano a “smontare” l’Impero britannico per integrarlo nella propria sfera d’influenza). Infine, sotto le presidenze Truman e Eisenhower, parte la Guerra Fredda contro l’ex alleato sovietico, ora presentato come il male assoluto e del quale si esagerano artatamente la potenza militare e le intenzioni aggressive (una storia che si ripete oggi sotto i nostri occhi), un contesto che agisce da brodo di coltura per la costruzione di quel poderoso complesso militare industriale (con generali, manager e uomini politici che si scambiano vorticosamente i ruoli in un giuoco di “porte girevoli”) che tuttora occupa il vertice della cupola del big government. Intanto il sistema degli “aiuti” ai Paesi europei e a quelli del Terzo Mondo (gestiti rispettivamente tramite il Piano Marshall e l’ FMI) crea i presupposti di quella “economia del debito” che servirà da arma strategica per conservare l’egemonia assoluta su amici e alleati.

È la Guerra del Vietnam a dare inizio alla fase in cui le contraddizioni del modello di accumulazione centrato sull’egemonia americana si fanno stringenti, ed è non a caso su tale fase che si concentra la “pancia” del libro di Gabellini: duecento pagine infarcite di analisi dettagliate delle varie diramazioni in cui si articola la crisi. Di qui in avanti, dato lo spazio limitato di una sia pur lunga recensione, sarò perciò costretto a trascurare molti temi e a concentrarmi solo su alcuni nodi. La peggiore conseguenza del disastroso esito della guerra è, accanto alla perdita di prestigio politico-militare, l’aumento vertiginoso del deficit pubblico e dello squilibrio della bilancia dei pagamenti che innescano un massiccio deflusso di oro verso Europa e Giappone. L’amministrazione Nixon reagisce alla prima sfida sfruttando il conflitto fra Cina e Russia, cioè riconoscendo Pechino per intensificare le manovre di assedio/accerchiamento nei confronti di Mosca (che culmineranno dieci anni dopo con l’appoggio ai mujaheddin contro il governo afgano filosovietico); affronta invece la seconda scaricando su Giappone ed Europa i costi della guerra. Ma soprattutto – per scongiurare il rischio che il crescente squilibrio della bilancia dei pagamenti induca alcune Banche Centrali a esigere da Washington la conversione in oro delle riserve di valuta pregiata – gioca d’anticipo, ripudiando unilateralmente gli accordi Bretton Woods. La fine del Gold Standard consentirà agli Usa di fare investimenti esteri illimitati senza pagarne il prezzo. Gli Usa acquisiscono infatti la facoltà di stampare dollari in misura illimitata nella misura in cui possono trasformare il debito nazionale in riserve valutarie di altri Paesi, dribblando la necessità di accumulare risparmi al proprio interno. Al tempo stesso, il nuovo sistema monetario internazionale crea le condizioni per un’orgia speculativa di proporzioni colossali, per l’invenzione di nuovi strumenti finanziari ad alto rischio e per l’indebolimento della capacità di controllo degli stati capitalistici sulla regolamentazione del denaro mondiale.

Il secondo atto di questa marcia di avvicinamento a una compiuta finanziarizzazione dell’economia coincide con il modo in cui gli Usa gestiscono lo shock petrolifero degli anni Settanta. La montagna di petrodollari incassata dai Paesi produttori viene canalizzata verso i Paesi in disavanzo attraverso le banche di Wall Street, mentre le imprese petrolifere nordamericane racimolano profitti sufficienti per sviluppare nuove tecniche di perforazione.

Siamo così giunti alle soglie della controrivoluzione neoliberale che parte nei primi anni Ottanta sull’onda lunga degli shock petroliferi. Sono gli anni della svolta monetarista che mira a garantire la stabilità dei prezzi e a contenere i salari grazie a elevati tassi di disoccupazione. Viene accantonato il principio dell’equilibrio dei conti con l’estero e vengono revocate le politiche espansive, per tacere dell’abbassamento delle imposte su redditi elevati e imprese. Avanzano deregulation, terziarizzazione e trasferimento delle produzioni verso il Terzo Mondo: le imprese Usa concentrano l’attenzione sul core business e subappaltano tutto il resto. Ne consegue un rapido processo di deindustrializzazione che va ad accrescere la rust belt degli Stati centrali e genera desertificazione urbana e aumento della criminalità e della tossicodipendenza. Sono, anche, gli anni in cui la Trilaterale pubblica il suo rapporto sui limiti della democrazia, riconoscendo piena legittimità al progetto oligarchico che il guru del neoliberismo von Hayek prospettava già ai tempi della I Guerra mondiale. Nel frattempo i cittadini americani vengono incoraggiati a indebitarsi per comprare case, automobili, elettrodomestici e altri beni di consumo.

Gabellini analizza anche l’impatto del crollo sovietico su questa globalizzazione in salsa americana, anche se qui mi limito a ricordare un aspetto specifico di questa fase iniziale della transizione a un mondo unipolare (destinata, in barba agli auspici di Fukuyama, a durare poco): vale a dire il superamento della logica bipolare della Guerra Fredda, che fa sì che gli alleati politici e militari degli Usa divengano ora i loro rivali economici. Gli americani reagiscono infatti alla penetrazione di europei e giapponesi sui loro mercati (agevolata dal processo di deindustrializzazione) a suon di attacchi speculativi. Il primo a farne le spese è il Giappone: quando la Banca Centrale giapponese vara una stretta creditizia per evitare il surriscaldamento dell’economia, Wall Street lancia un attacco speculativo che spinge il Paese asiatico in una spirale deflattiva che provocherà una stagnazione decennale. Poi tocca all’Europa: l’offensiva contro lo Sme sceglie come bersaglio principale l’anello debole italiano, per mettere in chiaro che non saranno tollerate le velleità di rimpiazzare il dollaro con l’euro nel ruolo di moneta regina.

Sorvolo sull’analisi che Gabellini dedica agli effetti del nuovo shock petrolifero associato alla seconda Guerra del Golfo per venire alla terza – e decisiva – tappa del processo, caratterizzata dalla rivoluzione digitale e dall’utopia della New Economy. Le nuove tecnologie hanno l’effetto di un poderoso moltiplicatore su tutti i processi sin qui esposti. Le reti informatiche integrano i mercati finanziari del mondo intero e portano a livelli incredibili la velocità delle transazioni, mentre l’intelligenza artificiale automatizza scelte e decisioni ed elabora modelli di valutazione del rischio che alimentano illusioni di onnipotenza (oltre a distribuire immeritati Nobel per l’economia). I miti della Silicon Valley promettono ricchezza illimitata per tutti (promessa che si avvera solo per un pugno di manager del settore), e garantiscono il trionfo del capitale su tutti i limiti spazio temporali. Così le multinazionali (non solo informatiche) rinnegano la logica territoriale alla quale era a lungo rimasta ancorata la potenza della nazione americana e disseminano in tutto il mondo le loro filiere alla ricerca di migliori vantaggi comparati, migrando verso l’Asia ma soprattutto verso la Cina, che diventa in pochi anni la ”fabbrica del mondo”, mentre gli Stati Uniti completano la loro trasformazione in un’economia deindustrializzata e fondata sull’accumulazione finanziaria.

Mentre le sinistre postoperaiste si lasciano abbagliare dalla “smaterializzazione” del lavoro e sognano le magnifiche sorti e progressive dei knowledge workers (tema per il quale rinvio ad alcuni miei lavori), la realtà è quella dell’impoverimento di larghe masse di cittadini, del depauperamento dell’apparato produttivo del Paese, sempre più dipendente da fornitori stranieri (anche per componenti cruciali dal punto di vista militare) e del vertiginoso aumento delle disuguaglianze (il rapporto fra stipendi dei dirigenti quelli degli operai nel 98 è di 419:1). Il prezzo della deindustrializzazione associata alla scommessa sull’intreccio fra finanza e rivoluzione digitale viene a galla quando, dopo avere raggiunto il picco dell’euforia nel 1999, il NASDAQ crolla rovinosamente ai primi del Duemila. Ma per veder sgonfiare la bolla finanziaria occorrerà attendere il 2007/2008, allorché scoppia il bubbone immobiliare alimentato dal debito privato associato ai titoli subprime. Nessuno dei responsabili pagherà perché, nel frattempo, la deregulation ha favorito un imponente processo di concentrazione bancaria dando vita a conglomerati “troppo grandi per fallire”, sui quali il governo farà scendere una pioggia di migliaia di miliardi per consentire a un modello di accumulazione decotto di tirare avanti.

Per decenni, scrive Gabellini tirando le somme della sua ricostruzione, il meccanismo ha funzionato grazie al ripetersi di “cicli del dollaro”, alternando cioè fasi prolungate di debolezza valutaria a intervalli più brevi di rafforzamento della moneta, una strategia che ha permesso agli Usa di regolare a piacimento i conti con l’estero, inondando e deprivando i Paesi stranieri di capitali tramite la manipolazione del tasso di interesse. A tutto ciò si sono accompagnati il costante allargamento del bilancio del Pentagono, il proliferare delle “operazioni di polizia” internazionali ed altre esibizioni muscolari per costringere i Paesi in via di sviluppo e le altre nazioni industrializzate a stivare riserve di dollari e investire nei circuiti di Wall Street e in titoli del Tesoro Usa (un meccanismo tipicamente mafioso, in ragione del quale, ironizza Gabellini, “chi offre la protezione è lo stesso autore della minaccia, il quale esige il pagamento del pizzo per perpetuare la propria funzione parassitaria”). Ma il dispositivo si inceppa nel momento in cui le turbolenze generate da una struttura gravata da ipertrofia finanziaria rendono ingestibile questo strumento di distruzione delle economie rivali. Così gli Stati Uniti si ritrovano trasformati in una sorta di “moderna struttura feudale”, al centro d’un processo di polarizzazione fra una plutocrazia di super ricchi ed una plebe impoverita e incanaglita che manifesta la sua rabbia prima con il voto a Trump, poi con l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Ora il pericolo è che, per perpetuare la propria egemonia, a Washington resti solo la via di scatenare una guerra contro un nemico esterno per riconquistare la coesione interna. Quale miglior candidato di una Cina che, mentre Washington perdeva sempre più colpi, accumulava una potenza economica, politica, tecnologica e militare tale da candidarla al ruolo di nuova nazione egemone?

II. La via cinese. Ovvero: come vincere la guerra senza combattere

In che modo la Cina è riuscita a trasformarsi in tempi record da Paese povero, appena uscito da decenni di occupazione straniera e di guerra civile, in grande potenza mondiale? La risposta di Gabellini si potrebbe sintetizzare con questa metafora: ce l’ha fatta applicando i principi delle arti marziali orientali, che sfruttano la forza dell’avversario per rivolgergliela contro. Le stesse logiche della globalizzazione, sulle quali gli Stati Uniti hanno costruito la propria schiacciante egemonia sul resto del mondo, sono state sfruttate dalla Cina sia per creare milioni di posti di lavoro a spese della brama occidentale di appropriarsi di quell’immenso mercato in formazione, sia per impadronirsi delle tecnologie e dei know how altrui e accumulare sottotraccia un’immensa potenza economica. Perché gli Usa non hanno saputo prevedere, né tantomeno prevenire, questa evoluzione? Sia perché non avevano capito la capacità cinese di sganciare la logica del potere politico da quella del potere economico, sia perché i cinesi sono riusciti a impedire all’avversario di elaborare efficaci strategie di contrasto.

Nel momento in cui favorivano l’integrazione della Cina nel WTO, e nel momento i cui le loro imprese multinazionali realizzavano colossali investimenti nelle zone economiche speciali nate dalle riforme successive alla morte di Mao, gli americani erano convinti di avere creato i presupposti per la nascita di una potente borghesia cinese che, in tempi relativamente brevi, avrebbe scalzato il Partito Comunista dalla guida del Paese e dato vita a un governo democratico di tipo occidentale. Non si tratta di stupidità, bensì dell’assoluta incapacità di concepire logiche capaci di sottrarsi all’influenza delle idee, dei principi e dei valori occidentali una volta che si sia accettata la logica del mercato. Detto altrimenti: o comandano la politica e lo Stato, o comanda il mercato, tertium non datur.

A questo punto di vista, smaccatamente occidentale-centrico, manca qualsiasi consapevolezza di una millenaria tradizione politico-culturale che ha fatto sì che la Cina, nemmeno quando, perlomeno fino al secolo XVIII, era più ricca e avanzata dell’Occidente, si sia mai trasformata in un Paese capitalista. Scrive Gabellini in proposito, citando Braudel: ”lo Stato cinese (...) è sempre stato tenacemente ostile alla proliferazione del capitalismo. Ogni volta che il capitalismo tende a espandersi, sotto l’impulso di circostanze favorevoli, alla fine viene sempre riportato sotto controllo da uno Stato che possiamo definire – privando il termine del significato peggiorativo che ha oggi – tendenzialmente totalitario”. Occorrerebbe aggiungere che non solo la cultura liberale, ma anche quella marxista fatica a capire la realtà cinese, ingabbiata com’è nel dogma secondo cui la penetrazione del mercato in economie “arretrate” è fatalmente destinata a trasformare queste ultime in economie capitaliste. Solo Giovanni Arrighi, seguendo la lezione di Polanyi piuttosto che quella di Marx, sembra avere capito che le logiche di politica e mercato possono – date certe condizioni storico-culturali – divergere. Tanto è vero che, intervenendo nel dibattito sulla natura del regime cinese che divideva i teorici marxisti, ebbe a scrivere che “si possono aggiungere capitalisti a volontà a un’economia di mercato, ma se lo Stato non è subordinato al loro interesse di classe quell’economia di mercato rimane non capitalistica”.

Sta di fatto che Pechino, pur integrando una parte significativa della propria economia nei circuiti del capitalismo globalizzato, si è sempre rifiutata di allineare la propria politica economica ai canoni del Washington Consensus (le fazioni interne al regime che ci hanno provato sono state sistematicamente emarginate). Infatti ha mantenuto il controllo sui movimenti di capitale, ha fatto sì che la presenza dello Stato nell’economia – soprattutto nei settori strategici – non sia mai scesa al di sotto di una soglia critica, ma soprattutto l’apertura ai capitali stranieri non è mai stata incondizionata: le imprese che investono in Cina sono tenute a istituire società compartecipate con quelle locali e a trasferire know how scientifici e tecnologici a queste ultime. Inoltre le barriere protettive non sono mai state abbassate del tutto, ma hanno continuato a funzionare come membrane semipermeabili. Così, per esempio, quando gli Stati Uniti hanno scatenato la guerra finanziaria contro le tigri asiatiche, l‘ondata speculativa si è infranta contro lo yuan che, in ragione della sua non convertibilità sui mercati internazionali, ha agito da scudo protettivo. Senza dimenticare che la Cina, mentre si assicurava i vantaggi di un processo di industrializzazione trainato dall’export, proteggeva la propria struttura economica dietro barriere informali come la lingua e le usanze locali, che impongono agli stranieri di ricorrere a intermediari cinesi per interagire. Infine, ora che l’amministrazione Usa cerca di correre ai ripari adottando strategie di “disaccoppiamento” fra i due sistemi economici, si scontra con la resistenza di Wall Street che non rinuncia al sogno di accedere all’immenso bacino del risparmio cinese. Mosse di judo: ovvero dirottare l’energia del nemico in modo da renderla funzionale alla realizzazione dei propri obiettivi.

Questo “mood” culturale, che i comunisti del Dragone definiscono con termini come socialismo con caratteristiche cinesi o sinizzazione del marxismo, non è di difficile decifrazione solo per la cultura liberal democratica, ma anche per i marxisti “ortodossi” (ammesso e non concesso ne esistano ancora), che spesso reagiscono appioppandogli la anacronistica etichetta di revisionismo. Né i primi né i secondi capiscono in che misura l’attuale versione cinese del marxismo sia debitrice del recupero di tradizioni millenarie come il confucianesimo e il taoismo (e forse lo è sempre stata: sebbene Mao abbia spesso alluso alla necessità di liquidare questo retaggio, basta leggerne gli scritti di strategia e tattica militare, per rendersi conto di quanto ne fosse lui stesso intriso). Come nota Gabellini, solo il radicamento dell’etica confuciana è in grado si spiegare la straordinaria capacità di lavoro e il grande senso di disciplina degli operai e dei contadini cinesi, per tacere di quel sentimento comunitario che agisce come una “grande muraglia capace di impedire che la modernizzazione tecnico scientifica possa sfociare nell’importazione dei principi dell’individualismo e del soggettivismo occidentali”. Sempre al confucianesimo (e al taoismo) è ascrivibile la filosofia che consiglia di non perseguire i propri obiettivi in modo brutalmente diretto, tentando di modificare con la forza l’ambiente in cui si opera (come gli Usa che tentano di rovesciare i regimi che considerano in contrasto con i propri interessi), bensì di evitare di forzare le situazioni senza al contempo subirle passivamente, aiutandole invece ad evolvere nella direzione che tendono ad assumere spontaneamente.

La parola d’ordine è vincere senza (se possibile) combattere. Un understatement tutt’altro che privo di risultati concreti, come si può evincere dai formidabili risultati ottenuti e dai nuovi ambiziosi obiettivi che vengono fissati. In pochi decenni la Cina ha liberato dalla miseria centinaia di milioni (fra i 600 e gli 800 secondo le stime) di persone; ha costruito un apparato di formazione e ricerca universitarie che sforna ogni anno una messe di lauree in materie scientifiche tre volte maggiore rispetto agli Stati Uniti, rispetto ai quali deposita anche il doppio dei brevetti, a conferma del fatto che ormai non è più la fabbrica del mondo che produce semilavorati e merci “fordiste” di bassa qualità, ma un colossale hub di know how avanzati in grado di gareggiare con la Silicon Valley e la NASA (la quota di valore aggiunto su scala globale del settore high tech cinese è cresciuta dal 7 al 27% tra il 2003 e il 2014, a fronte di una diminuzione dal 36 al 29% registrata dagli Usa). Per tacere del ritmo di sviluppo impressionante di un’industria militare che sforna aerei e missili di ultima generazione e potenzia a ritmo accelerato la marina da guerra.

Quali le radici del ”miracolo”? Posto che non andrebbe dimenticato che i suoi presupposti erano già stati gettati nel corso dell’era maoista, durante la quale, al netto degli errori commessi nel corso del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione Culturale, erano stati radicalmente migliorati la salute e i livelli di educazione delle masse, oltre a costruire l‘apparato industriale di base e a sviluppare molte infrastrutture strategiche, è fuori di dubbio che, morto Mao, Deng e Zhou abbiano spostato l’asse strategico dalla centralità della lotta di classe alla crescita economica e all’armonia fra classi e aree regionali, elaborando la teoria delle “tre rappresentanze”: non solo quelle degli interessi di operai e contadini ma anche quella dell’intera nazione. Il mandato di Jiang Zemin si è poi concentrato sull’obiettivo di irrobustire il sistema bancario, evitando di sacrificare le aziende pubbliche improduttive sull’altare dell’efficienza (scelta che avrebbe generato decine di milioni di disoccupati), ma spingendole a imboccare la via della riorganizzazione. Dopodiché il suo successore, Hu Jintao, ha spostato l’attenzione sulle carenze del sistema sociale, mandando i dirigenti del partito a studiare i sistemi di welfare scandinavi. Infine Xi Jinping, che un’amministrazione americana sempre più preoccupata della mancata transizione della Cina al capitalismo accusa di neomaoismo e “populismo”, è oggi il protagonista di una complessa svolta strategica dalle molteplici sfaccettature. Sul piano finanziario: vengono disciplinati i mercati azionari, tentando di contenere la propensione all’indebitamento e di prevenire il rischio di una bolla immobiliare; per affrontare gli effetti della crisi del 2008 viene varato un colossale piano di investimenti pubblici da 4000 miliardi di yuan per potenziare la rete infrastrutturale con ferrovie ad alta velocità, autostrade, porti e aeroporti; si procede alla riduzione degli investimenti in titoli di stato Usa (la quota complessiva del debito americano posseduta da Pechino scende dal 14% al 4% tra il 2011 e il 2020). Sul piano delle politiche sociali: si marcia verso la universalizzazione della sanità pubblica, si tenta di contrastare gli effetti demografici della politica del figlio unico, che aveva causato un pericoloso invecchiamento della popolazione. Sul piano del conflitto di classe: per rintuzzare gli sforzi dei capitalisti che tentano di convertire la loro ricchezza in potere politico (anche attraverso la corruzione dei quadri amministrativi e di partito, soprattutto locali) si colpiscono figure simboliche come Jack Ma, il magnate fondatore di Alibaba, la Amazon cinese, si piazzano commissari politici nelle aziende, si intensificano controlli ambientali e fiscali, si lanciano dure campagne contro la corruzione. In sintesi: gli obiettivi dello Stato/partito si sono spostati dalla crescita a ritmo accelerato a finalità più complesse come la ridistribuzione della ricchezza, la sicurezza sociale e la tutela ambientale.

A rendere minacciosa e intollerabile per gli Stati Uniti l‘ascesa della Cina, tuttavia, non sono solo e tanto gli aspetti sin qui evidenziati: è la crescente capacità di proiezione del modello cinese nei confronti degli altri Paesi appartenenti a quello che anni fa si definiva il Terzo Mondo. L’incubo di Bandung (la vecchia Conferenza dei Paesi non allineati) si ripresenta: quel progetto è fallito sostanzialmente perché, non avendo gambe economiche, è stato liquidato dalle strategie neocoloniali dell’Occidente, viceversa la nuova Bandung, erede del disegno strategico di Deng e Zhou, i quali sognavano di trasformare la Cina nel polo di attrazione di una coalizione di campagne in grado di accerchiare le metropoli mondiali, rischia di rappresentare una minaccia ben più agguerrita.

La decolonizzazione parte dalla Cina stessa che, dopo avere accumulato risorse enormi svolgendo per anni il ruolo di fabbrica del mondo, le sta ora impiegando per creare una classe media interna che le consente di affrancarsi sempre più dall’Occidente, ignorandone le minacce di sganciamento dal mercato cinese (secondo alcune proiezioni nel 2030 il ceto medio cinese conterà 1,2 miliardi di persone, pari al 25% della classe media globale, con un potere di acquisto di 14.500 miliardi di dollari, pari a quello europeo e nordamericano combinati). Ma poi si proietta nel mondo attraverso colossali progetti di investimenti diretti all’estero. In Africa, dove la Cina ha acquisito importanti concessioni per l’esplorazione petrolifera e autorizzazioni per costruire infrastrutture destinate a dare un impulso straordinario allo sviluppo locale (in Occidente si accusa la Cina di incastrare i Paesi africani nella trappola del debito, ma la verità è che gli aiuti cinesi – a tassi agevolati e non vincolati a scelte di tipo economico e politico – consistono soprattutto nella realizzazione di reti ferroviarie e stradali, porti e aeroporti e altre infrastrutture in grado di interconnettere regioni che non avevano mai potuto scambiare autonomamente le rispettive merci, condizione indispensabile per innescare il decollo dello sviluppo continentale). In America Latina, dove la Cina ha investito 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale alternativo a quello di Panama (controllato dagli Usa) in Nicaragua, e progettato una ferrovia che andrà dall’Atlantico al Pacifico all’altezza del Brasile. In Asia, dove l’Asia Infrastructure Investments Bank, un istituto che ambisce a entrare in concorrenza diretta con Fmi e Banca Mondiale, si prefigge di realizzare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica e dove la BRI (sigla che connota la cosiddetta Nuova Via della Seta) già protende le sue reti ferroviarie e stradali nei Paesi confinanti ma mira a prolungarle fino all’Europa.

Ovunque nel mondo Pechino promuove nuove forme di sviluppo ancorate ai vari contesti territoriali e culturali, alternative a quelle innescate dai processi di finanziarizzazione promossi dalla controrivoluzione neoliberale, rendendone evidente il fallimento. La paranoia americana è dunque giustificata? Siamo di fronte a un imminente cambio della guardia fra potenze egemoni, sul tipo di quello che ha visto gli Usa spodestare la Gran Bretagna nel secolo scorso? In verità, come evidenzia Gabellini riprendendo analoghe considerazioni che Giovanni Arrighi aveva fatto anni fa, la Cina non sembra perseguire un simile obiettivo: il suo fine dichiarato è piuttosto quello di costruire un nuovo ordine globale “che permetta a tutte le nazioni grandi o piccole, povere o ricche di ritagliarsi il proprio spazio e coltivare i propri interessi su un piano paritario”. Astuta diversione tattica che nasconde la brama di potere del Dragone? Questa è la tesi delle amministrazioni americane – poco importa se democratiche o repubblicane – e delle loro “teste d’uovo”. Con rare eccezioni, una delle quali ci viene segnalata da Gabellini laddove cita le seguenti parole di Kissinger: “per tutto il corso della loro storia, gli Stati Uniti sono stati spesso animati dalla convinzione che i loro ideali avessero un’importanza universale e che fosse necessario diffonderli, la Cina ha invece agito sulla base della propria singolarità: si è espansa per osmosi culturale non per zelo missionario”.

È una conferma dell’intelligenza della vecchia volpe che ha passato la vita intera ad architettare tutti i modi possibili per incastrare gli avversari del dominus di Washington. Ma la sua lucida comprensione del fatto che lo spirito profondo della cultura cinese è tale per cui Pechino, così come evita di importare modelli stranieri, non ambisce a esportare il proprio, non mette in questione il carattere antagonistico della relazione fra i due giganti: in primo luogo, perché per gli Stati Uniti, nella misura in cui vedono sempre più indebolito il proprio ruolo egemonico, è la mera esistenza di una realtà come quella cinese a rappresentare una sfida mortale; inoltre perché i cinesi, benché non vogliano “rimpiazzare” gli Usa, bensì costruire un nuovo ordine internazionale fondato sull’assenza di un centro egemonico propriamente detto, dal loro punto di vista, hanno bisogno di restaurare l’antica grandezza dell’Impero di Mezzo, aduso a governare sul resto del mondo “per osmosi culturale”, per usare l’immagine di Kissinger, invece che attraverso la forza (Gramsci l’avrebbe definita egemonia senza dominio).

Brevi considerazioni conclusive

La recensione che avete appena finito di leggere non rende giustizia al lavoro di Gabellini. Sia perché, come ho già ripetutamente confessato, ho omesso di discuterne alcuni passaggi importanti: dall’analisi del conflitto Usa-Urss e degli effetti della caduta del blocco socialista sull’evoluzione delle politiche imperiali americane, alla dettagliata descrizione che l‘autore fa dei conflitti fra le diverse fazioni interne al blocco di potere statunitense e del modo in cui si sono riflessi nel succedersi delle varie amministrazioni repubblicane e democratiche. Ma anche perché mi sono permesso di interpolare il riassunto dei contenuti del libro con una serie di considerazioni sia del sottoscritto che di altri autori, anche se spero di averlo fatto rispettando lo spirito dell’opera. Salvo eccezioni (vedi i riferimenti a Braudel, Arrighi, Polanyi e Streeck) non ho esplicitato questi debiti, né ho inserito note, anche per non appesantire la lettura di un testo fin troppo lungo per gli standard di una recensione online.

Non ritengo di dover aggiungere molto a quanto scritto nella prima sezione, anche perché, mentre Gabellini ha compiuto un colossale e meritorio lavoro di raccolta di dati e informazioni storiche (leggendo questo libro ho imparato un sacco di cose che ignoravo), dal punto di vista teorico la sua analisi non aggiunge novità sostanziali a quanto ci hanno già insegnato Braudel, Arrighi, Gallino e altri sul tema della finanziarizzazione dell’economia. Diverso il discorso sulla parte dedicata all’ascesa della Cina. Qui il contributo di Gabellini è decisamente importante perché aiuta a capire due cose fondamentali:

1) il fatto che il modello socialista cinese sovverte molti dogmi della tradizione marxista “classica”, a partire dalla convinzione che mercato e capitalismo siano una endiadi inscindibile (che è poi la stessa convinzione della cultura neoliberale, la quale sperava che le riforme del '78 avrebbe automaticamente distrutto il socialismo in Cina), laddove l’esperienza della rivoluzione cinese – ma anche quelle della rivoluzione vietnamita e di alcuni Paesi latinoamericani – ci dice che, date certe condizioni storiche, il potere politico è in grado di mantenere il controllo sulle dinamiche dell’economia di mercato e di finalizzarle al benessere delle masse invece che allo sfruttamento delle classi lavoratrici. Del resto, non è un caso se anche il governo cubano comincia a guardare al modello cinese per avviare riforme che lo aiutino a superare la crisi (vedi quanto ho scritto in proposito sull’ultimo articolo pubblicato su questo blog);

2) il fatto che non è possibile afferrare la logica del “miracolo” cinese senza capire il ruolo svolto dallo stretto intreccio fra cultura marxista ed etica confuciana che inspira le scelte del Partito Comunista Cinese. Il che, fra le altre cose, mette in crisi un altro dogma del marxismo “volgare” (cioè incapace di evolvere in funzione delle lezioni della storia), vale a dire l’idea secondo cui esisterebbe un processo necessario, una “legge”, in ragione del quale il mondo converge verso forme sociali che ripercorrono il processo evolutivo del capitalismo occidentale. Un punto di vista che non è solo ciecamente eurocentrico – e quindi al fondo razzista – ma anche inspirato a una sorta di meccanicismo economico che ignora il ruolo delle specificità culturali nel determinare il percorso evolutivo dei singoli popoli. Ed è nella specificità cinese, di cui fa parte anche la vocazione a evitare – nei limiti del possibile – di risolvere il conflitto con le armi, che dobbiamo sperare per evitare che il declino americano si traduca in una nuova, catastrofica guerra mondiale.

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