Il microbiologo Andrea Crisanti ha consegnato alla Procura di Bergamo, nella mattinata del 14 gennaio, la relazione sull’inchiesta a lui commissionata dalla magistratura orobica su quanto avvenuto nella provincia durante la prima ondata della pandemia, ma anche sulla mancata attuazione del Piano pandemico antinfluenzale, sempre nel febbraio del 2020.
Si tratta di un lavoro durato un anno e mezzo, che ha provato anche emotivamente lo scienziato padovano poiché – come ha dichiarato – non è facile lavorare con l’eco di migliaia e migliaia di morti.
Il rapporto stilato da Crisanti risponde a cinque domande postegli dai magistrati: tre riguardano la gestione dell’ospedale di Alzano Lombardo nella prima fase della pandemia, una le conseguenze della non istituzione della zona rossa in Val Seriana, l’ultima infine la non applicazione del piano pandemico nazionale.
Proprio quest’ultimo aspetto proietta l’inchiesta di Crisanti fuori dalla Lombardia e a livello nazionale, poiché è evidente che il modo caotico e disperato con cui gli ospedali risposero alla prima ondata pandemica derivava dalla mancanza di chiare indicazioni e di un articolato piano nazionale.
Peraltro, il Piano pandemico nazionale non fu applicato anche perché non era mai stato aggiornato dal 2006, ma solo costantemente rinnovato, senza cambiare nulla.
L’ultimo rinnovo “in automatico” fu del 2017, quando Direttore generale della prevenzione per il ministero della Salute era Ranieri Guerra, oggi vicepresidente per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità.
Ma l’inadempienza nell’aggiornamento del piano nazionale chiama in causa anche i diversi ministri della salute che non se ne sono occupati, dal 2006 sino ad oggi. Per la cronaca, un nuovo piano pandemico è stato stilato in tutta urgenza nel 2021 ed è un documento inquietante poiché prevede che, in caso di scarsità di risorse, i medici debbano scegliere chi curare e chi abbandonare al suo destino.
Ci eravamo già chiesti, al momento della sua approvazione, come un ministro che si dichiara “di sinistra” come Speranza, potesse avere firmato un tale obbrobrio senza riflettere che forse sarebbe meglio, se le risorse sono scarse, aumentarle.
Quanto alla diffusione del virus in Lombardia, l’inchiesta di Crisanti sconvolge quanto si sapeva sinora, vale a dire che il “paziente zero” fosse il 37enne scoperto affetto da Covid a Codogno il 19 febbraio 2020.
Il rapporto di Crisanti postula che il virus circolasse nella bergamasca già da un mese prima, ma non, come si credeva, ad Alzano, bensì nel capoluogo stesso, dove fu scoperto un caso all’Ospedale Papa Giovanni. Ma l’ATS bergamasca avrebbe taciuto questo caso.
Si tratta di un dato che concorda con alcune dichiarazioni già rilasciate lo scorso anno dai parenti di un paziente ricoverato a Bergamo, che furono invitati a chiudersi in casa e non parlare con nessuno di quanto aveva colpito il loro familiare, per “non allarmare l’opinione pubblica”.
Non possiamo sapere quali saranno i prossimi passi che la Magistratura vorrà compiere nella delicata e complessa inchiesta sulla diffusione del Covid nella bergamasca, dato che potrebbe utilizzare in toto il lavoro di Crisanti, oppure solo in parte o, infine, archiviare tutto e decidere di non procedere.
È stato riferito da alcune fonti del Palazzo di Giustizia di Bergamo che “avere commesso errori non significa avere commesso reati” (affermazione che contrasta, evidentemente, con l’esistenza di reati colposi, come appunto l’epidemia colposa per omissione), ma è certo che le famiglie delle vittime da Covid si attendono sviluppi che ridiano loro almeno un po’ di giustizia.
Sempre sul fronte lombardo è da segnalare la riapertura della “nave” di Bertolaso, cioè della struttura di terapia intensiva realizzata nella primavera del 2020 nei locali dell’ex Fiera di Milano. Una struttura che comprende 30 posti letto, costata quasi un milione di euro per ciascuno di essi.
Una struttura che era stata aperta alla fine della prima ondata pandemica e che funzionò per pochi giorni e per pochi pazienti, la cui efficienza, oltretutto, è minata alla base dal fatto di avere un solo reparto di terapia intensiva, non inserito in un contesto polispecialistico, necessario per offrire un’assistenza efficiente a pazienti gravi.
Tuttavia, tale struttura fu allora pervicacemente voluta dalla coppia Fontana-Bertolaso che non volle nemmeno prendere in considerazione la possibilità di ampliare reparti di ospedali che avevano spazi disponibili.
La sua riapertura, oggi sembra rispondere al desiderio di Fontana di aumentare di qualche unità le terapie intensive per far rimanere, grazie alle nuove regole date dal governo, la Lombardia in “zona gialla” e non disturbare neanche marginalmente la produzione.
Il problema principale della cosiddetta “nave” è però, dopo due anni, ancora quello del personale. Infatti tale struttura funzionò, nel 2020, grazie a personale sottratto al Policlinico e all’Ospedale Niguarda, in pratica spostando, con un gioco delle tavolette, medici e infermieri da un ospedale all’altro.
Ciò costrinse anche a creare nuove équipe, tra sanitari che non si conoscevano, in una specialità come la terapia intensiva, dove la fiducia reciproca e l’intesa rapida tra medici e infermieri è fondamentale.
A distanza di due anni, si ripropone il medesimo problema, vale a dire la mancanza di personale e ancora una volta la “nave” drenerà sanitari dagli altri ospedali, poiché nuove assunzioni non sono state fatte. Non solo, ma ora il problema è più grave poiché, a differenza che nel 2020, un numero significativo di medici e infermieri è impegnato nella gestione dei centri vaccinali che allora non esistevano.
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