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30/01/2022

L’avatar è ancora Mattarella

Il nipote del principe di Salina sarebbe rimasto molto deluso. La sua massima – «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» – è stata rovesciata come un guanto: non si è fatta neanche la finta di cambiare nulla, e Mattarella rimane al suo posto.

Ma non tutto è rimasto come prima...

Il caos senza senso che per 15 giorni ha avvolto i tentativi di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica rivela un ordine sottostante, comprensibile anche senza farsi aiutare da Giorgio Parisi, massima autorità mondiale in quel ramo.

Procediamo perciò con ordine.

Il custode degli assetti di potere

Nemmeno per un attimo la scelta del Presidente è mai stata una questione di nomi o “di genere”. Il ruolo che viene svolto sul Colle non ha da decenni più nulla a che vedere con quello “notarile” affidatogli dalla Costituzione. E del resto la stessa Carta è stata stravolta in più pilastri – dall’autonomia regionale all’obbligo di pareggio di bilancio – al punto da mostrare contraddizioni interne irrisolvibili in punta di diritto.

Dunque al Quirinale va mandato un garante operativo degli equilibri tra poteri riconosciuti come “legittimi”, e nell’Italia attuale – in termini sociali o di classe – ce ne sono sostanzialmente due:

a) la “borghesia nazionale”, fatta di una sterminata folla di imprese piccole e medie, da oltre un decennio alle prese con la crisi generale di sistema e tramortita infine dalle restrizioni imposte dalla pandemia, con capitali limitati e orizzonti operativi che non valicano i confini;

b) il grande capitale multinazionale, prevalentemente europeo ed “atlantico”, fatto di imprese – sia industriali che finanziarie – che strutturano il proprio business giocando su trattati continentali, legislazioni nazionali, vantaggi fiscali inventati per “attirare capitali”. A questo fanno riferimento subordinato alcune filiere produttive nazionali di non grandi dimensioni, ma con alta integrazione internazionale.

Ma ogni interesse sociale si deve rappresentare in forme istituzionali. E il contrasto continuo tra legislazione italiana e trattati europei – risolto sempre, “legalmente”, a favore dei secondi – è la forma visibile di contrasti sociali confusi nella formula “libertà di impresa”, dove ci sono sia quelli che le prendono sia quelli che le danno.

L’elezione del Presidente è stata così l’ennesima – o ultima – occasione per i “nazionalisti” di determinare un ruolo istituzionale che li aiutasse a trattare meglio, da posizioni di minor debolezza, il “programma di riforme” incorporato nel Recovery Fund ed esplicitato da ogni tappa del PNRR (528 “condizionalità” da rispettare da qui al 2026, di cui 51 già approvate, anche se non ve ne hanno parlato granché).

Del resto è noto che gli “europeisti sovranazionali” hanno dalla loro l’immenso potere del denaro – da prestare, “a fondo perduto” o rendere più caro manovrando sullo spread – mentre i piccoli “nazionalisti” hanno comunque i voti, ricevuti rappresentando o mentendo a una parte della popolazione.

Dunque, se si vogliono far vedere in azione almeno le forme della democrazia parlamentare, bisogna lasciar fare al semi-libero gioco della “politica di palazzo”. Dove ovviamente i primi hanno truppe da impiegare, ma non una visione strategica né, tanto meno, una solidità di intenti. Una maggioranza certa, insomma.

Questa disperata incursione “sovranista” ha smosso la polvere dando l’impressione del caos. Decine di nomi, più o meno improbabili, sono stati buttati nel grande falò delle vanità, scomparendo alla velocità del suono. Hanno rovistato ovunque pur di non mandare sul Colle “l’estraneo” che decide su tutto senza avere un solo voto.

Poi, ci dicono le cronache, Mario Draghi ha fatto la telefonata risolutiva chiedendo a Mattarella “il sacrificio” di tornare al suo posto.

E la polvere si è posata. “La politica” si è arresa alla propria impotenza.

Problemi rimandati

Ma non è rimasto tutto come prima. Lo spappolamento della classe politica attuale, la peggiore di sempre, ha subìto un’accelerazione robusta. Il prossimo Parlamento, tra un anno, sarà inoltre molto più “snello”. Di fatto, molto meno importante, sicuramente meno rappresentativo.

Mattarella ha teoricamente sette anni di tempo per governare i prossimi passaggi e passare lo scettro a SuperMario. Ci sarà da far svolgere le prossime elezioni politiche (marzo 2023) e poi digerirne i risultati per formare il governo.

Da qui ad allora andrà portata a termine la distruzione delle pallide “alternative” gonfiate dalle elezioni del 2018. Quella dei Cinque Stelle – con l’ultima, clamorosa, spaccatura tra Di Maio da una parte e Conte-Grillo dall’altra – è quasi realizzata.

La “variabile impazzita” di Matteo Salvini andrà invece affidata alle battaglie intestine della Lega, con Giorgetti incaricato di realizzare il fratricidio (o il drastico ridimensionamento). In fondo l’hanno già fatto con Umberto Bossi, possono farlo di nuovo.

Ci avviamo quindi a vivere un 2022 fatto di grandi conflitti a parole, su questioni secondarie (a fini elettorali, come sempre), mentre Mario Draghi e i suoi “tecnici” portano a risultato, nel quasi completo silenzio, le oltre cento “riforme chieste dall’Europa”. Poi i fuochi di artificio elettorali e, forse, a polvere di nuovo posata, la prossima puntata del “romanzo Quirinale”, ma senza opposizioni possibili al Drago del Britannia.

La politica che non rappresenta

Va insomma verso la conclusione un lungo processo storico di svuotamento del potere politico a favore del potere dei mercati. Che porta con sé la riduzione della “politica nazionale” a “prassi amministrativa” che realizza decisioni prese in altri ambiti e ad altro livello.

Nulla di misterioso e complottistico, però. Esistono altre istituzioni, visibilissime, alla luce del sole, che assumono “sovranità” e compiti propri fin qui degli Stati-nazione, abbozzando ormai perfino un “esercito europeo”. Si tratta insomma di aprire gli occhi su quel che abbiamo davanti, non di andare a cercare “che c’è dietro”.

In questo quadro, a livello nazionale, scompare “la politica” come “mediazione tra interessi sociali legittimi”. E scompare proprio perché una lunga serie di interessi sociali – primi fra tutti quelli di lavoratori e ceti popolari – vengono per principio esclusi dall’ammissibilità.

Ma anche per “i borghesi” si impone una radicale distinzione in base alla quantità di capitale gestito. Bottegai al dettaglio, gestori di palestre o discoteche, ecc. non possono pensare di “decidere” alcunché quando sono in campo interessi da centinaia di miliardi. Ed anche i loro “partiti” devono prenderne atto, riciclandosi. Se sanno farlo.

Sembra tutto semplice, ma qui si allarga a dismisura l’eterna voragine tra “decisori” e popolazione. Gestire un paese – o un continente – con la logica tipica di una multinazionale o di un fondo di investimento non è possibile, a lungo andare. È facile, infatti, strangolare un governo come è stato fatto nel 2015 in Grecia. È difficile costruire in quel modo un consenso sociale duraturo. E non c’è mago della “comunicazione” che possa risolvere a colpi di slogan o “narrazioni” una realtà che degrada.

Istituzioni senza popolo

È il quadro vagamente distopico di un potere estraneo, capace di imporsi ma non di persuadere. Comunque la si guardi, non somiglia neanche lontanamente alle favole sulla “democrazia liberale”. E le manganellate distribuite a piene mani sugli studenti sembrano più un anticipo di futuro che un revival repressivo del passato.

Siamo in un momento di forte torsione dei fondamenti del potere. Persino il principe di Salina resterebbe sorpreso e spiazzato.

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