Negli ultimi giorni del 2021, il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron hanno preso carta e penna e scritto una lettera al Financial Times, dall’altisonante titolo “Le regole fiscali dell’Unione Europea vanno riformate, se vogliamo mettere in sicurezza la ripresa”. Una lettura superficiale della missiva potrebbe far pensare a un attacco, garbato ma fermo, ai cosiddetti ‘falchi’ che, appena passata la tempesta della pandemia, vorrebbero un ripristino rapido dell’austerità imposta dal Patto di Stabilità e Crescita, sospeso negli ultimi due anni e che tornerà in vigore a partire dal 2023. Una sorta di manifesto politico della nuova Europa che verrà, forgiata nella solidarietà degli ultimi due anni e negli enormi, ci dicono Draghi e Macron, sforzi messi in campo per arginare le conseguenze economiche della pandemia.
La lettera è, in massima parte, deliberatamente vaga e generica, limitandosi ad una enunciazione di principi che ruota intorno alla constatazione che le regole fiscali europee, imperniate sul Patto di Stabilità e Crescita, vanno aggiornate e riformate, alla luce del nuovo scenario globale e delle molte sfide che ci aspettano.
Come dicevamo, la lettera è sì generica, ma è anche particolarmente esplicita nel delineare l’orientamento strategico di un pezzo di padronato europeo, in particolare su come usare l’architettura dell’UE per riprendere a macinare profitti: alle soglie del terzo anno di emergenza sanitaria, l’economia è rallentata in misura talmente violenta che si rende necessario un deciso intervento pubblico, per rimettere in moto la produzione e ridare vigore agli utili, messi a repentaglio dalla mazzata che la pandemia ha inferto al potere d’acquisto di milioni di persone. Gli Stati devono quindi poter spendere, almeno un po’, ma non nell’interesse del benessere collettivo. Come ci dicono Draghi e Macron: “la nostra strategia consiste nel mettere un freno alla spesa pubblica corrente (cioè ad esempio salari dei dipendenti pubblici e pensioni) attraverso riforme strutturali ragionevoli”. La logica del PNRR in purezza, con la spesa pubblica usata come strumento per imporre una radicale ristrutturazione alle economie dei Paesi membri e per porre l’attacco definitivo ai residui di stato sociale.
Non finisce però qui. È possibile, facendo un passo di lato, farsi un’idea più chiara dei contenuti sottesi alla lettera Draghi-Macron. Nella parte finale della stessa, si trova un link (l’unico presente) a un documento, pubblicato sul sito del Governo italiano e firmato da, tra gli altri, Francesco Giavazzi, già entusiasta cantore delle virtù dell’austerità espansiva e attuale principale consigliere economico di Draghi, e Charles-Henri Weymuller, figura analoga per il Presidente francese. Se dalle parole di Draghi-Macron si evince il senso politico della proposta, le pagine di Giavazzi- Weymuller si premurano di chiarirne gli aspetti tecnici.
La proposta ha due gambe:
- la creazione di un’Agenzia Europea di Gestione del Debito, a cui trasferire una quota di debito pubblico dei paesi europei corrispondente a quello accumulato nel biennio 2020-21. Una porzione sostanziosa di tale debito recente è adesso detenuta dalla Banca Centrale Europea e proprio parte di essa verrebbe acquistata dall’Agenzia che, prendendo come esempio il nostro Paese, arriverebbe gradualmente a possedere debito pubblico italiano per un ammontare pari al 19% del PIL (19 punti percentuali di PIL corrispondono, infatti, all’aumento dello stock di debito italiano negli ultimi due anni). Per finanziare tale spesa, l’Agenzia emetterebbe titoli propri. Negli anni a venire, inoltre, la stessa Agenzia continuerebbe ad acquistare debito italiano, in maniera tale da mantenere in pancia titoli per un valore intorno al 19% del PIL italiano. Questa misura renderebbe meno traumatico il graduale processo attraverso il quale la BCE si libererà di titoli del debito sovrano nei prossimi anni, e permetterebbe anche di risparmiare qualcosa sui tassi di interesse che ogni Paese paga sul proprio debito, in particolare su quella porzione posseduta dall’Agenzia Europea di Gestione del Debito.
- la revisione delle regole fiscali europee. Giavazzi e compagnia partono da una constatazione: le attuali regole sono troppo complesse, hanno troppi parametri e sono poco realistiche. Portando l’esempio concreto dell’Italia, notano come convergere in 20 anni ad un rapporto debito/PIL pari al 60%, come il Patto di Stabilità prescrive, è di fatto impossibile e irrealizzabile, cosa che – di fatto – avrebbe fornito all’Italia una scusa per non compiere gli aggiustamenti fiscali che sarebbero necessari per migliorare la salute dei nostri conti pubblici. Ecco, quindi, l’uovo di Colombo: i vincoli di bilancio vanno semplificati all’estremo, adottando un unico parametro di riferimento, cioè un obiettivo di medio periodo, a dieci anni, per il debito pubblico, da implementare tramite un unico strumento, rappresentato da un tetto alla spesa pubblica. Non tutto il debito pubblico sarebbe trattato alla stessa maniera, però. Quello che deriva da spese sostenute “per il futuro” sarebbe debito “a bassa velocità” ed eserciterebbe una pressione minore, più graduale, sull’aggiustamento richiesto per riportare il debito in linea con il parametro del 60% (che, come viene detto en passant, rimane in vigore anche nella proposta Draghi-Macron-Giavazzi). Ci sarebbe anche, ovviamene, un debito “ad alta velocità”, dove quest’espressione corrisponde al ritmo con cui andrebbe abbattuto. Come dicevamo, la convergenza verso l’obiettivo sul debito di medio periodo va raggiunto attraverso una regola che impone un “tetto” alla spesa pubblica: maggiore è la distanza dall’obiettivo, minore sarà la spesa consentita. Sarebbero esentate da tale misura, però, le “spese per il futuro”, che non rientrerebbero quindi nel computo delle spese totali sulle quali si applica il “tetto”.
Rimane da capire, solamente, che cosa sono queste spese per il futuro. Come riporta il documento, “l’esperienza del Next Generation EU può fornire una utile via maestra, per la definizione sia delle specifiche aree di intervento, scelte dalle istituzioni europee, sia di un sistema che verifichi e imponga l’adempimento delle regole”. Con un’aggiunta: se un Paese vuole far rientrare in questa categoria privilegiata di spesa qualcos’altro, deve accettare un livello ulteriormente rafforzato di vigilanza e condizionalità da parte della Commissione.
La natura della proposta Draghi-Macron-Giavazzi, al di fuori della cortina fumogena di retorica che la avvolge, è chiara e ambisce a porsi all’avanguardia del progetto di ristrutturazione a cui le classi dominanti europee guardano per il post-pandemia.
Per capire i veri intenti della riforma delle regole fiscali europee, così come immaginata da Giavazzi e compagnia e che ci viene venduta come il superamento dell’austerità incarnata dal Patto di Stabilità e Crescita, dobbiamo anzitutto chiederci quale sarebbe la dimensione della contropartita economica. Cosa otterremmo concretamente, in cambio di una ulteriore e pressoché definitiva cessione di sovranità sulla politica fiscale, cioè sulla capacità dello Stato di intervenire nell’economia? Per trovare la risposta non bisogna cercare a lungo, basta leggere a p. 5 e p. 11 del documento: stiamo parlando di una possibilità, ad esempio per l’Italia nel 2023 e nel 2024, di spendere meno dello 0,3% di PIL in più all’anno rispetto a quanto previsto dall’ultima di Legge di Bilancio italiana, approvata con il Patto di Stabilità e Crescita (ovviamente) ancora in vigore. Un topolino meno che insignificante, a fronte della montagna che lo ha partorito.
Allora il senso di quella proposta va colto nella duplice regressività dei suoi contenuti.
Da un lato, l’apparentemente singolare proposta di creazione di un’agenzia apposita per la gestione di una quota rilevante di debito potrebbe verosimilmente rispondere alla volontà di gestire la politica monetaria del debito pubblico (consistente nel comprare e vendere titoli pubblici per manipolare lo spread) tramite una struttura dedicata, liberando la BCE dal costante presidio di questo aspetto della politica monetaria. Dalla crisi greca ad oggi, la BCE si è occupata di gestire gli spread, ma questo ha condizionato la sua politica monetaria e ha costretto la banca centrale a numerose acrobazie non sempre agevoli. Da qui la possibile esigenza di fare uso di un’istituzione apposita per la gestione degli spread nel corso del tempo che, liberando la BCE da questo compito, allo stesso tempo mantenga saldo il controllo del ricatto del debito, da potere agitare non appena ve ne sia il bisogno.
Dall’altro lato emerge chiaramente la volontà di orientare sempre di più la spesa pubblica alle esigenze del capitale. L’artificiale e capziosa distinzione sempre enfatizzata tra spesa corrente e spesa per investimenti ha esattamente questa funzione.
La cosiddetta spesa per investimenti, che naturalmente è spesa di vitale importanza per lo sviluppo del paese e per il benessere della maggioranza delle stesse classi subalterne, contiene in un vasto calderone numerose voci, tra cui il finanziamento di grandi opere, la riconversione ecologica delle imprese, la digitalizzazione dell’economia, lo sviluppo di settori strategici: tutti ambiti dove è potenzialmente più semplice dirottare risorse verso le esigenze del capitale. La spesa corrente invece è spesa per i bisogni sociali immediati e difficilmente può essere fagocitata a favore dei profitti. La polemica spesso agitata dai detrattori del ruolo dello Stato nell’economia nello specifico contro la spesa corrente è una polemica contro il cosiddetto assistenzialismo, al fine di promuovere una controrivoluzione radicale del concetto stesso di Stato sociale, articolata sul taglio drastico di ogni spesa diretta ai bisogni dei più.
Lungi dal voler favorire davvero investimenti di medio-lungo periodo per lo sviluppo del Paese, i nostri autori, in coerenza con una retorica che imperversa da anni, fanno il panegirico della spesa per investimenti usandola come grimaldello per nascondere il doppio intento di spostare risorse pubbliche verso gli interessi delle grandi imprese e allo stesso tempo tagliare drasticamente quelle destinate allo stato sociale: alle prestazioni previdenziali, assistenziali e alla fornitura dei principali servizi pubblici universali diretti alla cittadinanza.
Niente di nuovo sotto il sole, ma un salto di qualità nella quotidiana lotta di classe dalle classi dominanti europee contro le classi subalterne.
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