Si fa presto a dire “transizione ecologica”. I furbastri delle multinazionali, e i governi reggicoda dell’Occidente neoliberista, sperano di cavarsela con qualche gioco di parole e con nuove “tassonomie” per cui ciò che era immondo – il nucleare a fissione, per esempio – diventa “ecologico”.
Oppure pagando una piccola tassa – le “quote di emissione” – a paesi che proprio non ce la fanno ad inquinare tanto quanto noi, perché sono stati fatti rimanere senza una struttura industriale e consumi da società opulenta.
Al contrario, il problema resta, è concretissimo, irrisolto e progressivamente sempre meno aggirabile. Tanto meno a chiacchiere e distintivo (una specialità non solo italica, pare).
Ed anche nelle redazioni dove non è “carino” mettere in discussione il sistema di vita attuale si fa strada la consapevolezza che andare avanti così – come di fatto dicono quelli del G20 e della Cop26 a Glasgow – proprio non è possibile.
Latitano le soluzioni, naturalmente, perché senza mettere in discussione il “sistema” (il modo di produzione capitalistico) è impossibile anche intravedere – figuriamoci realizzare – una via d’uscita indolore a questa situazione.
Sotto stress, in particolare, finisce la “libertà di impresa” e tutto il codazzo ideologico di cui si è circondata per oltre due secoli. Ma, come per le epidemie, si deve scegliere tra il contrastarle (con vaccinazione obbligatorie e cento altre misure di prevenzione) o il lasciarle degenerare (con varianti imprevedibili).
L’umanità sa benissimo qual è la risposta giusta. Ma al capitale non piace... La “competizione” su cui ha costruito il suo dominio sul mondo non può affrontare in modo indolore un paradigma in cui “non ce n’è più abbastanza per tutti“.
Ma, al tempo stesso, non può neanche sopravvivere in una dinamica che non solo non prevede più la “crescita infinita”, ma addirittura procede per riduzioni ed esclusioni razionali (e “razionate”). Dall’anarchia capitalistica neoliberista alla programmazione pianificata... ci vuole un altro sistema.
Buona lettura.
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Oppure pagando una piccola tassa – le “quote di emissione” – a paesi che proprio non ce la fanno ad inquinare tanto quanto noi, perché sono stati fatti rimanere senza una struttura industriale e consumi da società opulenta.
Al contrario, il problema resta, è concretissimo, irrisolto e progressivamente sempre meno aggirabile. Tanto meno a chiacchiere e distintivo (una specialità non solo italica, pare).
Ed anche nelle redazioni dove non è “carino” mettere in discussione il sistema di vita attuale si fa strada la consapevolezza che andare avanti così – come di fatto dicono quelli del G20 e della Cop26 a Glasgow – proprio non è possibile.
Latitano le soluzioni, naturalmente, perché senza mettere in discussione il “sistema” (il modo di produzione capitalistico) è impossibile anche intravedere – figuriamoci realizzare – una via d’uscita indolore a questa situazione.
Sotto stress, in particolare, finisce la “libertà di impresa” e tutto il codazzo ideologico di cui si è circondata per oltre due secoli. Ma, come per le epidemie, si deve scegliere tra il contrastarle (con vaccinazione obbligatorie e cento altre misure di prevenzione) o il lasciarle degenerare (con varianti imprevedibili).
L’umanità sa benissimo qual è la risposta giusta. Ma al capitale non piace... La “competizione” su cui ha costruito il suo dominio sul mondo non può affrontare in modo indolore un paradigma in cui “non ce n’è più abbastanza per tutti“.
Ma, al tempo stesso, non può neanche sopravvivere in una dinamica che non solo non prevede più la “crescita infinita”, ma addirittura procede per riduzioni ed esclusioni razionali (e “razionate”). Dall’anarchia capitalistica neoliberista alla programmazione pianificata... ci vuole un altro sistema.
Buona lettura.
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Se l’Inflazione diventasse Super Green
Guido Salerno Aletta – Agenzia TeleBorsa
Non esiste uno strumento più convincente del prezzo di una merce: quando è basso, siamo tutti ovviamente più disposti a comprarla. Tutto dipende, in fondo, dalla disponibilità di denaro che abbiamo e dalle alternative di impiego, per consumi o per risparmio: questioni di cui gli economisti discutono da secoli.
C’è un punto di convergenza, oggi, tra le istanze di coloro che sostengono la necessità di ridurre il “consumo” di ambiente perché la natura, il Pianeta Terra, non riesce a rinnovare le risorse che vengono progressivamente prelevate dall’Uomo per produzione e consumi.
L’aria, l’acqua, i minerali sono risorse finite. Un terreno coltivato senza sosta si isterilisce, ha bisogno di sempre più concime, ma ad un certo punto diviene completamente inerte, rimane solo sabbia e pietra.
Il paradigma della sostenibilità ambientale comporta dunque un limite alla crescita, allo sfruttamento illimitato delle risorse naturali. C’è naturalmente il tema demografico: più la popolazione aumenta, più aumenta il consumo delle risorse naturali.
La combinazione della duplice crescita incontrollata, demografica da una parte ed economica dall’altra, porta alla insostenibilità ambientale: questo è il limite di fronte a cui ci si trova.
Il tema del riscaldamento atmosferico, che dipende dall’uso dei combustibili fossili, da cui deriva la prospettiva di una completa decarbonizzazione della produzione industriale, si pone come preminente anche per via delle catastrofi che sarebbero scatenate dal cambiamento climatico indotto dall’attività umana: desertificazione e scioglimento dei ghiacciai polari, innalzamento del livello degli Oceani, sommersione delle Città costiere e via discorrendo.
Viene preannunciata una catastrofe che metterebbe a repentaglio la stessa sopravvivenza degli uomini sulla Terra: scompariremmo, come accadde ai Dinosauri.
L’inflazione dei prezzi delle materie prime e dei prodotti energetici ha una influenza con il processo di riorientamento della produzione e dei consumi.
Se i prezzi del petrolio, del gas, del carbone e conseguentemente dell’energia elettrica che viene prodotta con questi combustibili diventano stabilmente più cari, non c’è altra soluzione che ridurne i consumi o trovare delle fonti alternative. Fonti naturali rinnovabili come quella solare, eolica o delle maree.
Se, come sta accadendo in questi mesi, aumentano contemporaneamente anche i prezzi di tutti i minerali, dal rame all’alluminio, delle derrate agricole come il grano ed il mais, e delle altre coltivazioni come il cotone, è evidente che il sistema è messo sotto stress: bisogna cambiare abitudini di produzione e di consumo.
Con l’inflazione a due cifre che stiamo sperimentando, cambia il paradigma di crescita: da quello secondo cui “c’è sempre tutto per tutti“ si passa a quello in base al quale “non ce n’è più abbastanza per tutti“.
Cambierebbero contemporaneamente i due paradigmi fondamentali, quello della crescita economica e quello della competizione.
Terminata la lunga fase della crescita economica illimitata, quella secondo cui “c’è sempre tutto per tutti“, e della competizione mercantilistica basata sulla riduzione dei costi del lavoro, essendo quest’ultimo l’unica “merce” che non ha un prezzo uniforme a livello globale, si passerebbe alla crescita economica limitata dalla sostenibilità ambientale, quella secondo cui “non ce n’è più abbastanza per tutti“, e dalla competizione basata sull’uso sempre più limitato e razionale delle risorse naturali.
C’è un limite insuperabile a questa prospettiva: ci sarebbe una redistribuzione caotica delle potenzialità produttive e della ricchezza tra i vari paesi, così come è successo finora con la disponibilità nel sottosuolo delle risorse energetiche.
Solo se “qualcuno” fosse in grado di monopolizzare le risorse, acquisendone la disponibilità e stabilendone il prezzo globale, si potrebbe gestire questo processo: ma, più che una utopia, sarebbe un incubo.
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