Si fa presto a dire “banca centrale”... Le più importanti, quelle che decidono le politiche monetarie delle principali aree macroeconomiche del mondo, seguono ognuna un modello piuttosto diverso l’una dall’altra. Per non dire poi di quella cinese, che risponde anche alle decisioni della politica nazionale.
Tra tutte, e non è paradossale, la più “anomala” è la Banca centrale europea (Bce), che gestisce la moneta comune di 19 paesi membri dell’Unione Europea. Ma non di tutti (restano ancora fuori Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Ungheria, Romania, Svezia, Danimarca).
In questo ruolo la Bce dovrebbe assicurare la “convergenza finanziaria” tra i paesi aderenti, altrimenti le differenze nazionali (quanto a crescita, sistemi fiscali, esigenze dei bilanci nazionali, ecc.) renderebbero sempre instabile l’euro.
Come si vede, qui non stiamo parlando di criteri di “giustizia” sociale o redistributiva, ma semplicemente dei meccanismi di funzionamento di una moneta che ha assunto un grande ruolo sui mercati internazionali. Meglio ancora, si parla della sua “missione” nella costruzione dello spazio comune, che va al di là di quanto previsto dallo stesso statuto della Bce (la stabilità della moneta tramite la lotta all’inflazione, e basta).
In una articolata analisi dei ruoli “strategici” delle varie banche centrali, Guido Salerno Aletta – su TeleBorsa, questa volta – fotografa la principale anomalia della Bce rispetto al suo ruolo strategico: gestire una moneta significa avere un tasso di interesse su tutta l’area sottoposta alla sua gestione. Ma “il fatto è che i tassi di interesse nazionali non sono affatto determinati dalla BCE, ma dall’andamento dei titoli di Stato quotati sul mercato.”
Questa differenza è il famoso spread tra i rendimenti dei titoli di stato del paese più forte – la Germania – e quelli di tutti gli altri paesi, secondo una classifica e valori che variano di fatto ogni giorno. “Anche se la BCE presta il denaro a tutte le Banche al medesimo prezzo, queste operano poi secondo il ‘rischio-Paese’ di ciascuna”.
Mentre Usa, Giappone, Gran Bretagna sono aree omogenee dal punto di vista finanziario e monetario (stessi tassi di interesse dappertutto, anche esistono ovviamente aree disomogenee dal punto di vista dello sviluppo), nell’Eurozona ogni paese è virtualmente solo davanti alle forze dei “mercati finanziari”, non potendo – vincolato com’è ad una moneta che non gestisce direttamente – agire reattivamente sul cambio o sulla quantità di moneta per far fronte alla speculazione.
Il “prestatore di ultima istanza” – la Bce – è quotidianamente indifferente al destino dei singoli paesi, anzi usa il proprio potere per condizionarne le scelte. Intervenendo infine a “difesa” solo quando e se il possibile default di uno o più paesi viene considerato “problema sistemico” in grado di mettere a rischio la moneta comune.
Qui, naturalmente, c’è un giudizio molto critico, dal punto di vista della politica monetaria in regime capitalistico, sull’operato della Bce – compreso soprattutto il periodo di Mario Draghi presidente – e sui meccanismi del quantitative easing che dura ormai da quasi 10 anni.
“La BCE sarebbe dovuta intervenire selettivamente, per evitare che i titoli pubblici dei Paesi che facevano i ‘compiti a casa’ come la Grecia, la Spagna e l’Italia venissero massacrati” dai mercati“.
Avrebbe probabilmente “stampato” assai meno moneta di quanto non sia avvenuto, con i gravi effetti che si sono poi registrati (tassi di interesse reali sottozero, fuga verso il dollaro di quella stessa massa monetaria creata da Francoforte, nessuna ricaduta positiva sull’economia reale, asset inflation dei titoli azionari, ecc.).
Insomma, “bisognava solo limare gli spread ingiustificati”, favorendo così la “convergenza finanziaria” tra i paesi dell’Eurozona.
Ovvio che “il massacro” dei paesi euro-mediterranei ha comportato invece benefici per altre economie interne all’Unione, che hanno potuto così agevolmente impossessarsi di asset pubblici svenduti per cercare di limare il debito pubblico (tutte le infrastrutture della Grecia: porti, aeroporti, centrali elettriche, autostrade), senza peraltro riuscirci.
Oppure per ridisegnare le filiere produttive, rendendo “contoterzisti” numerosi distretti industriali locali (il Nordest italiano al servizio dell’industria tedesca, per esempio).
Ora la risalita rapida dell’inflazione, cui gli Usa reagiscono immediatamente stoppando il loro quantitative easing e programmando invece diversi aumenti dei tassi di interesse, mette la Bce in un angolo da cui, per uscirne, dovrà inventarsi l’ennesimo “intervento non convenzionale”. Ma senza aver fatto alcun passo avanti verso la “convergenza finanziaria” e dunque con la solita, enorme, esposizione alla speculazione dei “mercati”.
L’illusione che il “pilota automatico” fosse la soluzione a tutti i problemi sta finendo in frantumi. E siccome i “piloti umani” sembrano ora a corto di idee, sarà bene allacciare le cinture e predisporsi a una stagione di conflitti aspri. E “non convenzionali”...
Buona lettura.
Tra tutte, e non è paradossale, la più “anomala” è la Banca centrale europea (Bce), che gestisce la moneta comune di 19 paesi membri dell’Unione Europea. Ma non di tutti (restano ancora fuori Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Ungheria, Romania, Svezia, Danimarca).
In questo ruolo la Bce dovrebbe assicurare la “convergenza finanziaria” tra i paesi aderenti, altrimenti le differenze nazionali (quanto a crescita, sistemi fiscali, esigenze dei bilanci nazionali, ecc.) renderebbero sempre instabile l’euro.
Come si vede, qui non stiamo parlando di criteri di “giustizia” sociale o redistributiva, ma semplicemente dei meccanismi di funzionamento di una moneta che ha assunto un grande ruolo sui mercati internazionali. Meglio ancora, si parla della sua “missione” nella costruzione dello spazio comune, che va al di là di quanto previsto dallo stesso statuto della Bce (la stabilità della moneta tramite la lotta all’inflazione, e basta).
In una articolata analisi dei ruoli “strategici” delle varie banche centrali, Guido Salerno Aletta – su TeleBorsa, questa volta – fotografa la principale anomalia della Bce rispetto al suo ruolo strategico: gestire una moneta significa avere un tasso di interesse su tutta l’area sottoposta alla sua gestione. Ma “il fatto è che i tassi di interesse nazionali non sono affatto determinati dalla BCE, ma dall’andamento dei titoli di Stato quotati sul mercato.”
Questa differenza è il famoso spread tra i rendimenti dei titoli di stato del paese più forte – la Germania – e quelli di tutti gli altri paesi, secondo una classifica e valori che variano di fatto ogni giorno. “Anche se la BCE presta il denaro a tutte le Banche al medesimo prezzo, queste operano poi secondo il ‘rischio-Paese’ di ciascuna”.
Mentre Usa, Giappone, Gran Bretagna sono aree omogenee dal punto di vista finanziario e monetario (stessi tassi di interesse dappertutto, anche esistono ovviamente aree disomogenee dal punto di vista dello sviluppo), nell’Eurozona ogni paese è virtualmente solo davanti alle forze dei “mercati finanziari”, non potendo – vincolato com’è ad una moneta che non gestisce direttamente – agire reattivamente sul cambio o sulla quantità di moneta per far fronte alla speculazione.
Il “prestatore di ultima istanza” – la Bce – è quotidianamente indifferente al destino dei singoli paesi, anzi usa il proprio potere per condizionarne le scelte. Intervenendo infine a “difesa” solo quando e se il possibile default di uno o più paesi viene considerato “problema sistemico” in grado di mettere a rischio la moneta comune.
Qui, naturalmente, c’è un giudizio molto critico, dal punto di vista della politica monetaria in regime capitalistico, sull’operato della Bce – compreso soprattutto il periodo di Mario Draghi presidente – e sui meccanismi del quantitative easing che dura ormai da quasi 10 anni.
“La BCE sarebbe dovuta intervenire selettivamente, per evitare che i titoli pubblici dei Paesi che facevano i ‘compiti a casa’ come la Grecia, la Spagna e l’Italia venissero massacrati” dai mercati“.
Avrebbe probabilmente “stampato” assai meno moneta di quanto non sia avvenuto, con i gravi effetti che si sono poi registrati (tassi di interesse reali sottozero, fuga verso il dollaro di quella stessa massa monetaria creata da Francoforte, nessuna ricaduta positiva sull’economia reale, asset inflation dei titoli azionari, ecc.).
Insomma, “bisognava solo limare gli spread ingiustificati”, favorendo così la “convergenza finanziaria” tra i paesi dell’Eurozona.
Ovvio che “il massacro” dei paesi euro-mediterranei ha comportato invece benefici per altre economie interne all’Unione, che hanno potuto così agevolmente impossessarsi di asset pubblici svenduti per cercare di limare il debito pubblico (tutte le infrastrutture della Grecia: porti, aeroporti, centrali elettriche, autostrade), senza peraltro riuscirci.
Oppure per ridisegnare le filiere produttive, rendendo “contoterzisti” numerosi distretti industriali locali (il Nordest italiano al servizio dell’industria tedesca, per esempio).
Ora la risalita rapida dell’inflazione, cui gli Usa reagiscono immediatamente stoppando il loro quantitative easing e programmando invece diversi aumenti dei tassi di interesse, mette la Bce in un angolo da cui, per uscirne, dovrà inventarsi l’ennesimo “intervento non convenzionale”. Ma senza aver fatto alcun passo avanti verso la “convergenza finanziaria” e dunque con la solita, enorme, esposizione alla speculazione dei “mercati”.
L’illusione che il “pilota automatico” fosse la soluzione a tutti i problemi sta finendo in frantumi. E siccome i “piloti umani” sembrano ora a corto di idee, sarà bene allacciare le cinture e predisporsi a una stagione di conflitti aspri. E “non convenzionali”...
Buona lettura.
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“Zero spread” per evitare il caos
“Zero spread” per evitare il caos
Guido Salerno Aletta * – Agenzia Teleborsa
Le Banche Centrali hanno compiti strategici che vanno molto al di là del loro compito formale, sostanzialmente analogo, che riguarda la stabilità della moneta e la ricerca della massima occupazione:
– la FED americana deve assicurare la primazia globale del dollaro e di Wall Street;
– la Bank of England deve proteggere il ruolo della City di Londra;
– la Bank of Japan deve assicurare il funzionamento di un modello socioeconomico assolutamente unico al mondo;
– la Banca Centrale Europea deve assicurare la convergenza finanziaria tra i Paesi aderenti: è questo il presupposto indispensabile per assicurare la stabilità della moneta unica.
È un momento assai delicato quello che stiamo vivendo: i segnali di accelerazione dell’inflazione, congiunti alla forte ripresa dell’economia americana, hanno già indotto la FED a pianificare una riduzione progressiva del Qe e fino a quattro aumenti dei tassi di interesse nel corso del 2022: il rialzo sui titoli di Stato americani comporta una loro più forte attrattiva come global safe asset ed un rafforzamento del dollaro.
In pratica, anche se gli USA sono il più grande debitore mondiale, con una posizione finanziaria netta negativa per oltre 16 mila miliardi di dollari alla fine del terzo trimestre dello scorso anno e con un nuovo record del deficit commerciale che ha raggiunto i 785 miliardi di dollari nei primi undici mesi del 2021, la loro crescita è ancora percepita come inarrestabile ed attira gli investitori sia sui titoli federali, riducendo la stretta sui tassi di interesse che è stata determinata dalla immissione di liquidità.
La funzione strategica della FED è dunque ulteriore rispetto alle previsioni statutarie e legislative, in base alle quali deve ricercare la maggior crescita economica e dell’occupazione che sono possibili in condizioni di stabilità monetaria: da una parte il ruolo del dollaro come moneta di riserva globale e quale strumento fondamentale per le transazioni economiche e finanziarie, e dall’altra la necessità di mantenere forte l’attrattività del debito federale americano e degli strumenti quotati a Wall Street, rappresentano la Stella Polare da cui la FED non può mai discostarsi.
Una missione strategica guida la FED in ogni sua decisione: mantenere elevata la forza del dollaro come strumento geopolitico. Tutti devono fare dunque i conti con le decisioni della FED, preparandosi ad un rialzo globale dei tassi di interesse.
La missione della Bank of Japan (BoJ) è diversa. Da anni il Giappone si trova di fronte ad una inarrestabile caduta dei prezzi: l’aumento della produttività viene scaricato sui prezzi, rendendo le merci giapponesi sempre più competitive sui mercati internazionali.
È un modello economico che funziona in modo assai diverso da quello convenzionale: i lavoratori non chiedono aumenti salariali perché la loro remunerazione aumenta in termini reali per via della diminuzione continua dei prezzi al consumo.
Di converso, c’è il tema del reimpiego dell’attivo commerciale strutturale, una massa di risorse che affluisce in Giappone e che viene utilizzata per mantenere in equilibrio questo sistema sotto un duplice profilo: bisogna evitare che lo Yen si rivaluti sul dollaro, perché altrimenti si ridurrebbe il vantaggio commerciale di prezzo; occorre evitare che si formino tensioni speculative sugli asset azionari o immobiliari come accadde con la bolla del Nikkei.
Una parte consistente dell’avanzo commerciale giapponese viene dunque usato per investire in titoli del Tesoro americano; i Giapponesi danno a prestito agli USA una parte degli stessi dollari con cui gli USA hanno pagato le loro importazioni dal Giappone. In pratica, evitano che gli USA stampino altri dollari da parte della FED e lucrano sugli interessi pagati dai Treasury Bond.
Un’altra parte di questo attivo commerciale viene utilizzata per finanziare il debito pubblico, arrivato a livelli stratosferici, oltre il 260% del PIL: è la stessa BoJ che si fa carico di assorbire comunque le emissioni, avendo come obiettivo quello di mantenere il “tasso zero a dieci anni”.
Il Tesoro giapponese non ha dunque nessun onere di bilancio, finanziandosi a tasso zero. I cittadini giapponesi vedono aumentare il valore reale dei loro depositi bancari, visto che il livello dei prezzi al consumo tende a diminuire, non hanno bisogno di ottenere una remunerazione sui loro conti.
Le imprese ed i cittadini sono tutti ben felici perché non bisogna finanziare con nuove tasse le spese pubbliche per investimenti.
È un sistema tanto apparentemente incomprensibile quanto funzionale: la BoJ ed il governo hanno ormai rinunciato a combattere la deflazione, ma anzi la usano come strumento di competitività commerciale internazionale. Il debito pubblico viene finanziato con una quota del surplus commerciale e quindi non sottrae risorse al risparmio interno; non determina costi per il bilancio essendo a tasso zero e quindi non è finanziato con nuove tasse; contribuisce alla crescita della produttività.
È un sistema completamente diverso da quello statunitense: lo Yen sta a rimorchio del dollaro e non sono gli alti rendimenti sul debito pubblico ad attrarre gli investitori.
Diverso ancora è l’assetto della Gran Bretagna. Soppiantata dal dollaro da quasi un secolo, la sterlina non è più la regina delle monete, ma la Banca d’Inghilterra (BoE) non se ne rammarica più di tanto: non deve neppure preoccuparsi di difenderla dalla speculazione, perché la City opera con tutte le valute del mondo ad esclusione della sterlina.
La BoE opera dunque in modo tale che la sterlina sia funzionale alla economia britannica. Il suo compito è proteggere la City come centro finanziario globale, senza coinvolgere la sterlina. I capitali affluiscono alla City a prescindere dalla forza o dalla debolezza della sterlina: è un perfetto disaccoppiamento.
Diversamente da Wall Street, che è piazza globale di quotazione e di trading, la City non ha alcun bisogno né della BoE né della Sterlina per continuare a svolgere i suoi lucrosi affari.
La questione della Banca centrale Europea (BCE) è ancora diversa. Nel Trattato e nello Statuto, è previsto come unico compito quello di assicurare la stabilità della moneta: la crescita economica è considerata solo come obiettivo secondario.
Essendo l’Euro la moneta unica di più Stati, la BCE si trova al vertice del Sistema delle Banche Centrali Nazionali (SBCN) che fanno riferimento ad assetti economici enormemente diversi tra loro: non c’è paragone possibile tra la Germania e Cipro o tra l’Irlanda e l’Austria. Avere una moneta stabile significa tenere sotto controllo la liquidità, il credito ed i tassi di interesse. Il compito strategico della BCE è assicurare la convergenza nell’Eurozona.
Il fatto è che i tassi di interesse nazionali non sono affatto determinati dalla BCE, ma dall’andamento dei titoli di Stato quotati sul mercato. E i tassi di interesse sui titoli pubblici dipendono dal rating dei rispettivi Stati: dal migliore attribuito alla Germania al peggiore attribuito alla Grecia, passando per l’Italia. E le imprese pagano interessi commisurati al rating dello Stato in cui lavorano: anche se la BCE presta il denaro a tutte le Banche al medesimo prezzo, queste operano poi secondo il “rischio-Paese” di ciascuna.
In pratica, a vent’anni dalla introduzione dell’Euro, ogni paese europeo paga tassi diversi a seconda delle proprie condizioni economiche e finanziarie. L’Italia, anche come imprese, è sempre stata penalizzata a causa dell’alto debito pubblico.
È inimmaginabile avere un’area economica e finanziaria stabile quando i tassi di interesse sono così diversi e soprattutto quando, sotto il vento sferzante della speculazione, la BCE alza le mani in alto affermando che può intervenire con il programma OTM solo dopo un “atto di sottomissione” del Governo e la accettazione delle condizioni draconiane imposte dalla Commissione europea.
L’Eurozona è quindi l’unica area del mondo in cui la speculazione ha uno spazio libero e garantito per massacrare gli Stati.
Le operazioni di Qe, di acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato secondario (PSPP) che sono state adottate a partire dal 2013, come quelle in corso con il PEPP, sono maldestre, perché vengono effettuate sulla base di un astratto principio di neutralità: i titoli sono stati comprati in proporzione alla partecipazione delle singole Banche Centrali Nazionali al capitale della BCE. In pratica in proporzione al PIL di ciascun Paese aderente all’Eurozona.
Si affermava, per giustificare il Qe, che l’obiettivo era quello di assicurare la stabilità della moneta (che corrisponde ad un livello di inflazione vicino ma non superiore al 2% annuo): in realtà si trattava di contrastare la deflazione che derivava dalla politica fiscale enormemente restrittiva. E, ciononostante, la speculazione continuava ad imperversare.
La BCE sarebbe dovuta intervenire selettivamente, per evitare che i titoli pubblici dei Paesi che facevano i “compiti a casa” come la Grecia, la Spagna e l’Italia venissero massacrati.
Comprando tutti i titoli indistintamente, il livello generale dei tassi è precipitato sotto lo zero, soprattutto per i titoli più solidi come i Bund.
Bisognava solo limare gli spread ingiustificati: l’effetto dei tassi negativi è stato devastante, perché gli investitori si sono visti tosati di quote del loro capitale, finanziando loro i prenditori.
Il sistema bancario europeo ha cominciato ad azzerare i tassi sui depositi e ad avere difficoltà a mantenere intatto il loro valore nominale, visto che tutti gli impieghi istituzionali e gli stessi depositi ulteriori rispetto alla riserve obbligatorie presso la BCE avevano ormai un tasso negativo.
E la liquidità in Euro immessa dalla BCE ha preso spesso la via del dollaro.
Ora che la FED ha deciso per una politica monetaria più restrittiva, la BCE è nel panico. Se ne segue l’indirizzo senza adottare altri accorgimenti, schizzerebbe in modo incontrollabile l’aumento degli spread sui debiti pubblici europei, che già ora si manifesta in modo generalizzato, con quello dei BTP italiani stabilmente ormai su quota 130/140 punti base rispetto ai 90 dello scorso inverno.
Occorre che la BCE cambi radicalmente metodi e si attenga al suo unico vero obiettivo strategico, rappresentato dalla convergenza delle condizioni finanziarie nell’Eurozona: la stabilità della moneta unica si fonda sulla convergenza dei tassi di interesse, a cominciare da quelli sui titoli di Stato.
Quelli sui Bund devono salire molto più velocemente di quelli sui BTP, perché il rendimento reale dei primi (-5/6%) è già da troppo tempo eccessivamente penalizzante.
Se i tassi di interesse dei titoli tedeschi ed italiani crescessero in parallelo, o peggio se quelli italiani dovessero crescere ancor più velocemente di quelli tedeschi per via del più alto rapporto debito/PIL, si rischia la catastrofe.
Le ipotesi di sterilizzare il “debito pandemico” detenuto dalla BCE e dalla singole Banche centrali girandoli al MES è complessa, costosa e richiede anni. La riforma del Fiscal Compact non vedrà la luce prima di un anno almeno.
Le prediche bruxellesi sulle virtù salvifiche del NGUE, così come le promesse romane del PNRR non incantano i mercati, già pronti a mordere.
La BCE deve assicurare la stabilità della moneta unica, ma questa è impossibile senza la convergenza tra le economie dell’Eurozona. Dopo le decisioni della FED, senza la convergenza sui tassi di interesse sui debiti pubblici nell’Eurozona, c’è il caos sui mercati ed il pericolo di un collasso dell’euro.
A Francoforte si sveglino, prima che sia troppo tardi:
- abbandonino la follia dei tassi negativi che sta distruggendo le banche e tosando gli investitori, sempre più invogliati ad abbandonare l’Euro per il dollaro;
- comprino e vendano titoli di Stato in modo differenziato al fine di rendere omogenei e stabili i tassi di interesse, ad un livello sostenibile per l’intera Eurozona.
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