Nell’articolo che pubblichiamo, i quattro autori ricostruiscono la parabola di Macron all’interno del più ampio contesto di imposizione della «rivoluzione neoliberista» in Francia, di cui il Presidente francese è espressione. La peculiarità del macronismo, ci dicono gli autori, è «quella di radicalizzare la logica neoliberista nel momento sbagliato, in un periodo in cui tutti i segnali sociali, politici ed ecologici sono in rosso, così da non poter che aggravare tutte le crisi latenti o aperte.
A settembre è prevista l’uscita per DeriveApprodi di «Dominare», l’ultimo testo scritto da Dardot e Laval.
Qui è possibile trovare la versione in francese. La traduzione in italiano è a cura di Davide Blotta.
A settembre è prevista l’uscita per DeriveApprodi di «Dominare», l’ultimo testo scritto da Dardot e Laval.
Qui è possibile trovare la versione in francese. La traduzione in italiano è a cura di Davide Blotta.
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La recente approvazione forzata della riforma delle pensioni non è avvenuta senza critiche. Di Macron si dice quanto sia egoista, arrogante e tutt'altro che intelligente. Ma dimentichiamo che è l'uomo giusto, la cui funzione storica oggi è quella di portare avanti un progetto che va al di là della sua persona. È infatti necessario uscire dalla piccola analisi «psicologica» per considerare con obiettività una politica che, per quanto brutale e a volte tragicamente irrazionale, ha un significato preciso nella storia delle nostre società. Le caratteristiche personali e persino sociologiche di un individuo contano ovviamente, ma solo per aver fatto di Macron questo «signore della guerra» che ammiriamo o odiamo. L'odio, persino la rabbia, che egli ispira in molti, si spiega con l’astuzia delle motivazioni e gli effetti delle sue azioni politiche. Certamente Macron non è Napoleone, e nemmeno Putin. Questa guerra non mobilita aerei o carri armati, è silenziosa, diffusa, a lungo termine, politica e di polizia, ideologica e di bilancio, parlamentare e fiscale. Non è diretta contro un nemico esterno, ma prende di mira la popolazione, e spesso e volentieri la sua parte più povera: quella dei dipendenti subordinati e degli impiegati nei lavori più duri. Indebolisce, distorce e distrugge, quando le circostanze e i rapporti di forza lo consentono, tutto ciò che potrebbe opporsi al grande progetto di una «società fluida» idealmente fatta di imprenditori innovativi, di giovani che sognano miliardi e di una massa di individui che devono contare solo su sé stessi per sopravvivere nel mezzo di una concorrenza diffusa. Tuttavia, il programma con cui Macron è stato eletto nel 2017, che prometteva una «rivoluzione», non deve essere preso alla leggera. Questo era il titolo del libro della sua campagna elettorale che, contrariamente a quanto si è detto, non era solo una piccola operazione di marketing. Questa rivoluzione dall'alto è quella dei leader, degli oligarchi locali, degli economisti mainstream e degli editorialisti attuali. In una parola, questa annunciata rivoluzione neoliberista è ancora, e più che mai, all'ordine del giorno.
Sia chiaro, Macron non ha inventato nulla, è l'attore di uno scenario che sta dispiegando i suoi effetti da molto tempo. Di particolare vi è solo una carriera politica «fuori dagli schemi» sufficientemente «dirompente» da non preoccuparsi delle forme elementari di democrazia, del dialogo sociale e tantomeno della legalità quando, ad esempio, deve difendere manu militari progetti «ecocidi» sospesi dai tribunali, come nel caso di molti «mega-bacini». Macron è il «trasgressivo» e il «brutale» necessario per accelerare il processo di profonda trasformazione della società, proprio nel momento in cui sarebbe stato molto più urgente riflettere «responsabilmente» dei risvolti che questa ha sul versante dell’ecologia e della politica.
L'impasse dell'attuale governo è spesso spiegata con l'uso di mezzi poco conformi al liberalismo politico. Ora, nel paese, si parla di quanto sia opportuno che la Costituzione della Quinta Repubblica possa offrire al Presidente una serie di procedure per aggirare sia il Parlamento che l'opinione pubblica. Che egli le usi e ne abusi, indebolendo così una cosiddetta democrazia rappresentativa già ben scossa, è cosa conosciuta, ma queste forme di brutalizzazione non bastano a caratterizzare il senso dell'azione stessa. In altre parole, l’articolo 49.3 è solo l'arma generica di una guerra più specifica, come lo sono le forze di polizia e il loro uso smodato della violenza.
Alcuni hanno erroneamente ritenuto che il neoliberismo fosse solo una dottrina sufficientemente eterogenea o incoerente da non destare troppa preoccupazione. Altri hanno pensato che questa dottrina fosse già stata consegnata alla pattumiera, insieme alle politiche e ai modi di governo che in essa trovano la loro razionalità, come se bastasse constatare i suoi effetti catastrofici sulla natura e sulla società per liberarsene definitivamente. Tanti errori di analisi accumulati, che hanno portato ad altrettanta confusione. Urge comprendere come il neoliberismo sia una dottrina della guerra civile, nel senso in cui Michel Foucault sosteneva, in termini di metodo di analisi del potere, quando affermava che «la guerra civile è la matrice di tutte le lotte di potere, di tutte le strategie di potere» (Michel Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France, 1972-1973, EHESS-Gallimard-Seuil, 2013, p. 15). L’attuale governo ne è perfettamente conscio, dato che ricorre agli strumenti della guerra civile in maniera consapevole e sistematica, accusando i vari «nemici della Repubblica» di esserne responsabili, in un ribaltamento che ha tutte le caratteristiche della negazione.
Paura della democrazia
Il neoliberismo – dottrina cui Édouard Philippe si è riferito nel 2019 davanti all'Autorità francese per la concorrenza, rendendo omaggio a uno dei suoi principali fondatori, Friedrich Hayek, e alla sua concezione dello Stato come custode legale di una concorrenza economica efficiente – è nato a cavallo degli anni Trenta con l'obiettivo di stabilire un ordine politico saldo e coerente che proteggesse la proprietà privata e garantisse scambi di mercato competitivi – le «libertà economiche». Il liberalismo doveva essere «rinnovato» facendo dello Stato la membrana protettiva della concorrenza di mercato, perché la politica del laissez-faire dei liberali classici e la loro dottrina dello Stato minimo non erano bastati a proteggere il mercato dal potente e pericoloso desiderio di uguaglianza delle masse. Fin dall'inizio, i sostenitori del neoliberismo hanno quindi identificato esplicitamente il problema principale che minacciava il loro progetto di rendere il mercato più fluido attraverso lo Stato: la democrazia, che rischia sempre di mettere in pericolo le libertà economiche. La loro strategia politica, radicata in una demofobia profondamente reazionaria, è rimasta invariata da Hayek a oggi. Consiste nel contenere, neutralizzare o distruggere tutte le forze che attaccano gli interessi economici privati e il principio della concorrenza, rivendicando la giustizia sociale come un mito.
Tra queste forze, in prima linea troviamo i sindacati, l'opposizione «collettivista», i movimenti sociali, le maggioranze elettorali «manipolate dai demagoghi». I dottrinari neoliberisti hanno dedicato innumerevoli pagine a immaginare modi per tenere al cappio la democrazia, non esitando a chiedere un diritto di eccezione che desse al governo pieni poteri sugli organi parlamentari – a tal punto che uno di loro, Alexander Rüstow, parlava di «dittatura nei limiti della democrazia». Altri si sono spinti a sottolineare l'utilità della violenza fascista per salvare la «civiltà europea» dalla «barbarie» socialista (Ludwig von Mises). A seconda delle circostanze sono praticabili anche altre vie più «legali», come ad esempio l'istituzione di una «costituzione economica» che consenta di sancire per legge tutte le condizioni di un'economia capitalista così che queste siano al sicuro dalle scelte politiche e dalla volontà popolare. Tutto deve essere fatto per sconfiggere lo «Stato sociale», un «frutto marcio» secondo Wilhelm Röpke. Al posto di questo Stato sociale, bisogna costruire e difendere uno «Stato forte», che egli definiva come «uno Stato totalmente indipendente e vigoroso, non indebolito da autorità pluraliste corporative».
Una guerra che non finisce mai
Ma è legittimo parlare di «guerra civile» per descrivere l'instaurazione dello Stato forte neoliberale contro forze sociali e politiche ostili al capitalismo o semplicemente desiderose di maggiore uguaglianza e solidarietà?
A questo proposito, la storia non mente quando si ripete con tale regolarità. Già nel 1927, Mises applaudì a Vienna quando, per reprimere una manifestazione di lavoratori, i poteri d’eccezione conferiti alla polizia causarono 89 morti. I tre «premi Nobel per l'economia», Friedrich Hayek, Milton Friedman e James Buchanan, si riunirono alla Mont Pelerin Society nel 1981 per celebrare la dittatura di Pinochet al culmine della sua repressione. Röpke sostenne l'apartheid in Sudafrica, mentre Hayek inviò una copia del suo libro La Costituzione della libertà al dittatore portoghese Salazar per, si legge nella lettera di accompagnamento, «assisterlo nei suoi sforzi di concepire una costituzione protetta dagli abusi della democrazia». La Thatcher, che era in corrispondenza con Hayek, fece di La Costituzione della libertà il libro di fede del Partito Conservatore: represse militarmente lo sciopero dei minatori, che causò tre morti e più di 20.000 feriti, e affrontò duramente le rivolte urbane dei neri e degli indo-pakistani, lasciando che l'estrema destra si scatenasse. Come governatore della California alla fine degli anni Settanta, Reagan introdusse l'obbligo di pagare le tasse scolastiche e la repressione del movimento studentesco da parte della Guardia Nazionale della California causò un morto. Nel suo primo discorso da presidente al Partito Repubblicano dopo la vittoria del 1981, ringraziò Hayek, Friedman e Mises, tra gli altri, per «il loro ruolo nel [suo] successo». «La guerra civile abita, attraversa, anima, investe il potere da tutte le parti», scriveva Foucault, «ne abbiamo proprio i segni sotto forma di questa sorveglianza, di questa minaccia, di questa detenzione della forza armata, insomma di tutti gli strumenti di coercizione che il potere effettivamente costituito si dà per esercitarlo» (Ivi, p. 33).
Nel lungo periodo tuttavia – se non ad eccezione delle classi pro-business che la trovano sempre redditizia – l'imposizione dell'ordine di mercato attraverso la neutralizzazione o la distruzione della democrazia non può essere sostenuta dalla società. Per questo motivo è essenziale per la politica di guerra civile una strategia della discordia e la creazione di nemici responsabili del caos. L’idea della guerra civile, infatti, scatena una battaglia culturale e mediatica che lo Stato cerca di controllare a tutti i costi, e raccoglie quindi attorno al potere la coalizione sociale di coloro che si schierano contro il nemico sociale designato. Per i neoliberali, tutti i critici della «civiltà capitalista» rientrano nella categoria del nemico: negli anni Venti, Mises vedeva la Russia sovietica come un «popolo barbaro»; negli anni Quaranta, Röpke vedeva i lavoratori come «barbari invasori della propria nazione»; e alla fine degli anni Cinquanta, equiparava i neri in Sudafrica ad una «schiacciante maggioranza di barbari neri». Negli anni '80, Hayek definì gli studenti manifestanti degli anni '70 «barbari non addomesticati» e Buchanan li chiamò «nuovi barbari», mentre la Thatcher si riferì ai sindacati dei minatori come al «nemico interno».
Macronismo o forma convulsa del neoliberismo
Il neoliberismo possiede un carattere intrinsecamente autoritario che non possiamo permetterci di trascurare. La formula di Hayek: «Preferisco un dittatore liberale a una democrazia senza liberalismo» riassume l'atteggiamento neoliberale nei confronti della democrazia: accettabile quando è innocua, deve essere negata in un modo o nell'altro, anche con i mezzi più violenti, quando minaccia il diritto illimitato del capitale.
Il macronismo, quindi, non è violento per caso o per fortuna. È una delle forme politiche che il neoliberismo può assumere perché in linea con la sua strategia di neutralizzazione del potere decisionale collettivo quando questo si oppone alla logica del mercato e del capitale. La sua peculiarità storica è quella di radicalizzare la logica neoliberista nel momento sbagliato, in un periodo in cui tutti i segnali sociali, politici ed ecologici sono in rosso, così da non poter che aggravare tutte le crisi latenti o aperte. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l'irrigidimento convulso di Macron sta generando una resistenza massiccia e determinata da parte della società.
Chi ha interpretato il neoliberismo di Macron come una terza via moderata, a distanza dall'ultraliberismo e dal socialismo, si è sbagliato di grosso. E chi pensava che fosse un'alternativa all'estrema destra ha portato l'illusione al suo apice. Da questo punto di vista, il macronismo non ne è un baluardo, ma un trampolino di lancio, per due motivi: perché accentua e amplia il risentimento contro le élite e le istituzioni; perché utilizza metodi, in particolare la violenza della polizia, che non sarebbero fuori luogo nel quadro di quello che viene pudicamente chiamato «illiberalismo». Basta ascoltare un Ministro degli Interni come Gérald Darmanin per rendersi conto dell'ibridazione in atto tra macronismo ed estrema destra.
Macron ritiene che farsi difensore dell'«ordine repubblicano» sia utile alla causa propria, e pensa persino che sia intelligente paragonare i manifestanti contro la riforma delle pensioni all'estrema destra trumpiana che prende d'assalto il Campidoglio oppure opporre i «disordini» della «folla» alla «legittimità del popolo che si esprime attraverso i suoi rappresentanti eletti». Il ragionamento è tanto semplice quanto sofistico: tutto ciò che il governo ordina o decide di proteggere è, per questo stesso fatto, legittimo e democratico, anche quando ricorre agli articoli 47.1, 44.3 o 49.3 per abbreviare il dibattito parlamentare. E, viceversa, tutti coloro che osano manifestare la loro opposizione al governo in nome di valori democratici, ecologici o redistributivi si trovano accusati non solo di illegalità, ma anche di illegittimità e persino di neofascismo non dichiarato. Abbiamo assistito a un'operazione retorica simile contro i Gilet Gialli, già paragonati alle leghe del 1934.
Denunciare «fazioni e fazionisti» non ha altro significato se non quello di fabbricare il nemico all'interno della società stessa, nella consolidata tradizione degli scrittori neoliberali. Questo è un aspetto essenziale e la molla di ogni guerra civile. Con il neoliberismo contemporaneo, questa creazione del nemico prende di mira tutti coloro che, attraverso le loro pratiche, le loro forme di vita o le loro lotte, sembrano minacciare la logica normativa del mercato o la presunta unità indivisibile dello Stato. Nel corso del caotico Macronismo, abbiamo assistito alla continua invenzione di categorie di nemici a seconda delle circostanze, che si tratti di «populismo», «islamosinistra», non-mescolanza, teoria del genere, «separatismo», «comunitarismo», «postcolonialismo», «wokismo», «decostruzionismo» o «terrorismo intellettuale». Con la decisione di sciogliere «Les Soulèvements de la Terre», che difendeva un modello di agricoltura non produttivista a Sainte-Soline, sono ora i termini «eco-terrorismo» e «ultra-sinistra» a essere sistematicamente utilizzati per neutralizzare qualsiasi critica all'ecologia di mercato di Macron. I vantaggi di questa vertigine denunciatoria non possono essere sottovalutati. Questa ha infatti l'immenso interesse di costituire coloro che denunciano le varie forme di disuguaglianza e di predazione come nemici della Repubblica, e quindi di mantenere la fiducia nella funzione pacificatrice dello Stato. Lo si fa proprio attraverso un’operazione di negazione della guerra condotta dallo Stato stesso contro gli oppositori dell'ordine neoliberale.
In una situazione come la nostra possiamo quindi osservare cosa c'è di decisivo nell'invito di Foucault: trarre quindi una considerazione del potere – tra cui quello neoliberale – a partire da uno sguardo di matrice: la guerra civile. Questo sguardo ci permette di non cedere all'illusione che la funzione dello Stato sia, in sostanza, quella di armonizzare le differenze e i punti di vista attraverso un «dialogo» il più possibile razionale tra i «partner», ma piuttosto di considerarlo come un attore principale a capo della guerra civile. Un’analisi di questo tipo ci permette anche di misurare appieno la portata delle attuali mobilitazioni, portando alla luce la profonda coerenza che lega la politica regressiva dello Stato sociale e la politica ecocida di Macron.
Dietro il «caos» che Macron ha scatenato, è necessario individuare l'altro mondo che i «fazionisti» portano dentro di sé. In che modo oggi la difesa di una vita dignitosa per i lavoratori anziani e i futuri pensionati o la difesa della natura contro i progetti distruttivi offrono una rara forza di coalizione? Ad ogni modo, in fin dei conti si tratta di pretendere una vita desiderabile e un mondo abitabile. E questo desiderio e questa abitabilità sono inconciliabili con la subordinazione della vita e il dominio del mondo da parte del capitale e del suo Stato. Dovremo abituarci: la logica del comune e del capitale, di fronte all'urgenza delle crisi e all'irrigidimento neoliberista, appare inconciliabile ai più. È in questo senso che non c'è «dialogo» né «compromesso» possibile tra chi conduce la guerra civile e la grande massa della popolazione che ne è il bersaglio.
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Pierre Dardot, filosofo e docente, è autore, spesso insieme al collega Christian Laval, di saggi su Marx, Hegel e il capitalismo globale. Ha pubblicato per DeriveApprodi, insieme a Christian Laval: La nuova ragione del mondo (2013), Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo (2015), Guerra alla democrazia (2016), Il potere ai soviet (2017).
Haud Guéguen è docente di filosofia presso il Conservatoire national des arts et métiers (Cnam). Ha pubblicato, con Pierre Dardot, Christian Laval e Pierre Sauvêtre, Le Choix de la guerre civile. Une autre histoire du néolibéralisme (Lux, 2021). Ha pubblicato Les théories de la reconnaissance con Guillaume Malochet nel 2012 e La perspective du possible con Laurent Jeanpierre nel 2022.
Christian Laval, sociologo, svolge attività di ricerca presso l’università di Parigi X. Dal 2004, anima insieme a Pierre Dardot il gruppo di ricerca «Question Marx».
Pierre Sauvêtre è professore di sociologia all'Università di Parigi-Nanterre. I suoi lavori si concentrano su neoliberismo, beni comuni, comunitarismo ed ecologia, sul pensiero di Michel Foucault e Murray Bookchin. È autore di Foucault (Ellipses, 2017) e, con Christian Laval e Ferhat Taylan, di L'alternative du commun (Hermann, 2019).
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