“Per ridurre gli effetti di alluvioni eccezionali come quelle avvenute in Romagna non servono ‘più opere’ ma una revisione epocale della gestione dei fiumi e del territorio”. La voce del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf) – tecnica, preparata e autorevole – resta terribilmente inascoltata nel dibattito dominato dalla retorica dell’emergenza, del “fare”, dei “soldi subito” o della colpa agli “ambientalisti che vivono nei loft“, per citare le parole del ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin. Lo stesso Pichetto Fratin che da settimane si nega alle richieste di confronto di numerose organizzazioni ambientaliste (dalla Federazione nazionale Pro Natura a Dislivelli, dalla Cipra al Cirf, da Free Rivers Italia a Italia Nostra, e Legambiente, Lipu, Mountain Wilderness, Deafal, Federparchi Wwf Italia) preoccupate proprio del mancato adattamento alla crisi climatica e della cattiva gestione dei corsi d’acqua.
Andrea Goltara, che del Cirf è direttore, usa parole chiare: “Raccontare oggi che le opere strutturali ‘mettano in sicurezza’ il territorio è illusorio e alimenta ulteriormente un uso del suolo imprudente e spregiudicato, inducendo a concentrare insediamenti e attività antropiche anche nei pressi dei corsi d’acqua. Il cambiamento climatico rende ancora più necessario un cambiamento di paradigma”.
Goltara, partiamo dall’evento. Che cosa è accaduto ai fiumi della Romagna?
AG Una lunga siccità è stata seguita da due eventi meteorici estesi e di grande intensità: in meno di due settimane è caduta nelle zone più colpite oltre la metà della pioggia che solitamente è attesa in un anno, con più di 20 fiumi esondati. Un evento senza precedenti negli ultimi 100 anni. Molti dei fiumi esondati sono canalizzati da quasi un secolo. Si tratta a tutti gli effetti di un evento eccezionale.
Questa eccezionalità che cosa dimostra?
AG La vulnerabilità dei nostri territori, che è tale anche a prescindere dall’aggravio dei fenomeni intensi indotto dal cambiamento climatico. Corsi d’acqua fortemente artificializzati sono intrinsecamente fragili. Eventi con portate più elevate di quelle per cui le opere di difesa sono state progettate sono sempre possibili, e ora sempre più probabili. Inoltre basta che una piccola parte dell’infrastruttura vada in crisi, ad esempio che pochi metri di rilevato arginale cedano, per vanificare l’intero sistema di protezione. Per questo dico che è illusorio puntare tutto su salvifiche “opere strutturali”, che è poi l’approccio infrastrutturale ed “emergenziale” portato avanti dal Governo Meloni.
Di che cosa abbiamo bisogno, invece?
AG Di ricreare sistemi resilienti in grado di assorbire in modo più diffuso i massimi pluviometrici e di ridurre i danni in caso di esondazione, in un ampio spettro di scenari. In questo senso la paura dei corsi d’acqua che abbiamo adesso – come ha detto giustamente Carlo Lucarelli in questi giorni – deve diventare “utile”. Perché eventi di questa natura ce ne saranno ancora e con maggior frequenza, la statistica basata sui dati storici è ormai inaffidabile. Non servono più argini, come sostiene il ministro dell’Ambiente, ma più spazio ai fiumi e meno consumo di suolo. Faccio notare che nelle aree attualmente alluvionate non mancano certo le opere di difesa. Pensare di mitigare il rischio idraulico ricorrendo esclusivamente a infrastrutture in cemento è da sempre un errore. È stato realizzato un sistema fragile e adesso anche sottodimensionato rispetto agli eventi a cui stiamo assistendo. Dobbiamo fare un passo indietro e investire ingenti risorse in un programma nazionale per la realizzazione di interventi integrati, che garantiscano contestualmente la riduzione del rischio idrogeologico, il miglioramento dello stato ecologico dei corsi d’acqua e la tutela degli ecosistemi e della biodiversità.
Nell’emergenza, però, chi promette soluzioni immediate e chiavi in mano “buca” e in Italia conduce il dibattito. Quando proponete “strategie di difesa maggiormente diversificate e più efficaci” a che cosa vi riferite?
AG Provo a essere ancora più chiaro: dobbiamo arretrare gli argini dai corsi d’acqua – ovunque sia possibile – e anche riconquistare terreni al demanio pubblico. Vanno ripristinate aree di laminazione naturale delle piene, indennizzando gli agricoltori che potranno essere danneggiati dalle esondazioni. Il concetto non è lontano da quello delle casse d’espansione artificiali, ma garantisce allo stesso tempo riduzione del rischio e maggiore naturalità dei fiumi. Eliminiamo adesso le coperture di cemento dai corsi d’acqua prima che lo facciano da soli, ricostruiamo i ponti più alti e proporzionati a portate più elevate, delocalizziamo le aree residenziali e produttive e infrastrutture troppo a rischio. Si deve ristabilire la funzionalità dei sistemi fluviali, utilizzando il più possibile soluzioni basate sulla natura, così come già previsto dagli indirizzi comunitari e anche dal nostro Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici.
Restituire spazio ai fiumi viene presentato da chi governa, e non solo a livello nazionale, come “non fare”. Mentre il “fare” sarebbe ricostruire tutto come prima e subito.
AG Mi ricorda quanto accaduto dopo la tempesta Vaia della fine di ottobre 2018 sulle Dolomiti (quando caddero fino a 800 millimetri di pioggia in tre giorni e la forza dei venti arrivò fino ai 190 chilometri orari tra Trentino-Alto Adige, Veneto, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, radendo al suolo 41mila ettari di boschi e almeno 14 milioni di alberi, ndr). Anche lì ha vinto la retorica di una certa ricostruzione, che ha spesso fatto peggio di prima. Non bissiamo lo stesso errore. Ridare spazio ai corsi d’acqua è fare quello che serve davvero. E non significa certo far tornare la Romagna una grande palude, per citare un’altra contestazione puerile che ci viene mossa in questi casi.
Come Cirf fate osservare che alcuni tentativi in questo senso sono stati fatti anche in Romagna. Quali?
AG Penso ad esempio agli interventi di parziale smantellamento degli argini del fiume Montone (a monte di Forlì), alla confluenza con il Rabbi, e della loro ricostruzione più lontano al fine di restituirgli spazio. A inizio maggio, al tempo del primo evento di forti piogge, il Montone è rimasto dentro agli argini anche grazie a questo volume di sfogo in più, con il secondo non è bastato. Ma di fronte ad eventi di questa intensità serve uno sforzo di ordini di grandezza maggiore, un cambiamento che nessuno ha ancora avuto il coraggio di affrontare.
Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini in visita a Bologna ha riproposto il messaggio di “sbloccare le dighe fermate da decenni”.
AG Annuncio curioso. Faccio notare solo che nel cosiddetto “decreto siccità” (all’articolo 5, comma 2), a proposito di fiducia cieca nell’approccio idraulico, questo governo ha appena autorizzato negli invasi la “riduzione temporanea dei volumi riservati alla laminazione delle piene”. Cioè il contrario di quanto sarebbe necessario adesso. Io lo chiamo il “mito della multifunzionalità” delle dighe: in teoria possono soddisfare obiettivi diversi, ma nella pratica questi sono quasi sempre in conflitto tra loro. Per non parlare di tutti gli impatti, anche economici, che creano a valle. Chi dice “le dighe servono e basta” ne parla a vanvera.
Proponete da tempo una “adeguata pianificazione a scala di bacino” e mettete in guardia dal “creare di volta in volta problemi sempre più grandi che vengono solo momentaneamente spostati nello spazio e nel tempo”. A che cosa vi riferite?
AG L’esempio di scuola sono quelle normative regionali che promuovono l’estrazione di sedimenti nei fiumi da parte dei privati o il recente decreto che supporta l’estrazione di legname in alveo da parte degli agricoltori. Sedimenti, legname e vegetazione riparia rientrano in un sistema complesso di equilibri che vanno compresi e gestiti appieno per evitare di creare maggiori danni di quelli che si cercano di risolvere. La vegetazione, ad esempio, a volte va ridotta perché può aumentare il rischio, altre invece va mantenuta, non solo per tutelare la biodiversità, ma perché rallentando la piena riduce il rischio a valle. Gestire i fiumi è un mestiere complesso, che non può prescindere dall’utilizzo di competenze diverse.
Un mestiere complesso e un percorso lungo.
AG E anche difficile, oneroso, che non insegue il consenso immediato e l’inganno delle soluzioni facili. Il nostro appello è: abbandoniamo gli slogan e le scorciatoie, ridiamo spazio alla programmazione. E ai fiumi.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento