Che le famigerate “risoluzioni” del cosiddetto Parlamento europeo su “coscienza europea e totalitarismo”, succedutesi per una decina d’anni, fino all’obbrobrio del 2019 sulla “memoria europea per il futuro dell’Europa”, avessero preso avvio dalla tracotante impotenza di qualche capitale sanfedista affacciata sul mar Baltico, in ciò incitata da capitali euro-atlantiche “in doppiopetto”, è cosa più che nota.
Che l’obiettivo della cosiddetta “memoria”, avesse prospettive a lungo termine e, mentre impone di equiparare “Germania nazista e URSS comunista” in un unico fronte “totalitario”, guardi allo scopo attualissimo di mettere al bando “l’ideologia comunista” e i comunisti, anche questo, in buona parte, è noto al pubblico.
Insomma, come avevano decretato congiuntamente nel 2016 Sejm polacca e Rada ucraina, il 23 agosto 1939 due “regimi totalitari” avevano siglato un “patto” che poi aveva “portato alla guerra, all’aggressione tedesca e sovietica, a repressioni di massa e poi a Jalta, che causò la schiavitù di tutta l’Europa centrale e orientale”.
Ancora più trivialmente, nel 2017 il Ministero della guerra polacco aveva proclamato che, senza quel “patto”, non ci sarebbe stato l’Olocausto. Questo, sulla coscienza dei pan polacchi.
Un po’ meno noto, anche perché la rappresentazione della figura in se stessa non costituisce certo il motivo trainante della campagna, è forse il nome del rotmistr (capitano) Witold Pilecki, associato, nell’ennesima omelia europeista, alla data del 25 maggio, festa “degli eroi nella lotta al totalitarismo”.
Ancora una volta, tutto ciò che è legato alla Polonia d’anteguerra (meno, s’intende, i massacri di polacchi a opera dei nazionalisti ucraini) e a quella post-socialista, viene inserito nel piano anti-comunista cui si rifanno i “valori europei” delle democrazie liberali.
Il 2023 non fa eccezione. Tanto più che il conflitto in Ucraina offre ai liberali il pretesto per tracciare un arbitrario segno di equivalenza tra Unione Sovietica socialista e Russia borghese putiniana, associando così esorcismi contro lo spettro comunista ad anatemi contro pericolosi concorrenti geopolitici.
Così, lo scorso gennaio, il polonista russo Stanislav Stremidlovskij ricordava come, quest’anno per la prima volta, Varsavia non avesse invitato l’ambasciatore russo Sergej Andreev alle iniziative in ricordo della liberazione di Auschwitz-Birkenau a opera dell’Esercito Rosso: lager in cui almeno un milione di ebrei erano stati sterminati dai nazisti e dai loro “Komplizen”.
Un tasto dolente, per Varsavia, quello della “esclusività”, o meno, delle SS nell’annientamento degli ebrei polacchi, tanto da proibire per legge qualsiasi affermazione contraria alle tesi ufficiali e intentare processi internazionali contro chiunque osi presentare circostanze diverse, come ad esempio gli autori di “Night without End: The Fate of Jews in German-Occupied Poland”, Jan Grabowski e Barbara Engelking.
Il pretesto formale per la decisione polacca del gennaio scorso erano state, ovviamente, le operazioni militari in Ucraina. In realtà, la questione si inquadra ormai da anni nel tentativo dell’Occidente e, in particolare, di alcuni “alleati” est-europei, di minimizzare il contributo determinante dell’URSS alla sconfitta delle armate hitleriane e dei loro satelliti.
Nell’operazione di Varsavia, che si erge oggi a “leader” della coalizione anti-russa, rientrano dunque anche le aperte carognate legate alle cerimonie in ricordo dell’Olocausto: ma, a senso unico.
Di tanto in tanto, infatti, Varsavia ricorda ai nazi-golpisti di Kiev che nessuno di loro, tantomeno Vladimir Zelenskij, si sia ancora scusato per i massacri della popolazione civile polacca in Volynia a opera dei banderisti filo-nazisti di OUN-UPA.
Lo ha ricordato ancora, lo scorso 20 maggio, il portavoce del Ministero degli esteri polacco, Lukasz Jasina: «Noi, polacchi, come stato polacco, ci siamo assunti la responsabilità dei delitti compiuti dal nostro paese nei confronti degli ucraini. Manca tale responsabilità da parte dell’Ucraina, anche se molto è cambiato in meglio».
Il riferimento alle responsabilità polacche sembra legato alla polonizzazione forzata delle regioni occidentali ucraine tra il 1920 e il 1939 e molto meno all’autentica carneficina di prigionieri di guerra della Russia sovietica, fatti morire (le cifre variano da 80mila a 120mila) nei lager polacchi dopo la guerra russo-polacca del 1920.
In altre occasioni, però, come, per l’appunto, quella del 27 gennaio, i reazionari polacchi “dimenticano”, in nome della lotta contro il “nemico comune”, che allo sterminio di ebrei (e non solo) polacchi presero parte attiva anche quei terroristi innalzati oggi a “eroi nazionali” nell’Ucraina majdanista.
Addirittura, il presidente polacco Andrzej Duda, in occasione delle visite annuali al cimitero degli “Orleta Lwowskieche” (gli aquilotti di L’vov), in quella che Varsavia considera la “più polacca delle città” – L’vov, appunto – afferma sfacciatamente che lì sono sepolti «i difensori della Repubblica polacca, i difensori di L’vov dall’aggressione sovietica».
Questo nonostante la stessa storiografia polacca sostenga che in quel cimitero siano sepolti i giovani che nel 1918 combatterono contro gli allora nazionalisti della Rada ucraina, proprio per il riconoscimento di L’vov come città polacca.
Dunque, così come auspicato dalla cosiddetta risoluzione del 19 settembre 2019, il 25 maggio è festa “degli eroi nella lotta al totalitarismo”, nell’anniversario dell’esecuzione di “Witold Pilecki, eroe di Auschwitz”, fucilato in Polonia nel 1948 per spionaggio a favore del governo emigrato del generale Anders e per tutta una serie di delitti contro la Repubblica popolare polacca: uno «stato fantoccio comunista, dietro la cortina di ferro. Ma Pilecki rimase fedele alle idee della Polonia libera e continuò a inviare informazioni ai servizi segreti britannici», recitava una nota del Washington Post del gennaio 2020.
Se al processo del 1947 il rotmistr Pilecki era stato accusato di aver creato una rete di intelligence filo-britannica, di aver organizzato attentati contro funzionari statali, di ricevere sovvenzioni da un governo straniero, di possesso illegale di armi da fuoco ecc., (tutte accuse riconosciute da Pilecki, affermando che stava adempiendo al suo dovere militare al servizio del governo da lui riconosciuto) il suo passato eroico quale sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz dovevano ben motivare nel 1990, la sua elezione a “eroe polacco” della “nuova” Polonia che si rifà alla dittatura di Jozef Pilsudski.
La versione ufficiale recita che Pilecki, membro della clandestinità antifascista, nel 1940 si consegnò volontariamente ai tedeschi, per essere rinchiuso a Auschwitz e raccogliere informazioni sui crimini nazisti, per poi fuggire nel 1943. Nel 1944 prese parte alla rivolta di Varsavia. Catturato di nuovo, fu infine liberato dagli anglo-americani.
Pilecki era nato nel 1901 a Olonets, in Carelia, dove la sua famiglia era stata esiliata dopo la rivolta polacca del 1863. Sin da giovane entrò a far parte di un’organizzazione nazionalista, tra il 1918 e il 1920 prese parte, in Lituania e Polonia, alla guerra civile e si trasferì quindi in Polonia, da dove si distinse nell’aggressione polacca alla giovane Russia sovietica.
Nel 1939, fu arruolato nell’esercito e quando il governo polacco fuggì a Londra, si nascose, per poi, su ordine dei comandi, farsi rinchiudere a Auschwitz e qui raccogliere le informazioni con cui il governo in esilio mise a punto il primo rapporto ufficiale sul genocidio degli ebrei.
Nella storiografia in lingua russa, ci si continua però a chiedere come Pilecki sia riuscito a sopravvivere tre anni in un campo di sterminio in cui la vita media dei prigionieri era di alcuni mesi. E non soltanto sopravvivere, ma, per tre anni, trasmettere informazioni con una trasmittente assemblata dai prigionieri “all’insaputa” dei tedeschi.
La cosa è quantomeno strana, al pari della fuga da Auschwitz nel 1943 e di altri dettagli della sua biografia. Tralasciando il fatto che la sorte degli ebrei a Auschwitz era nota già prima delle trasmissioni di Pilecki, attraverso l’ufficiale dell’intelligence polacca Jan Karski, si legge che, dopo la fuga dal campo, Pilecki entrò nell’organizzazione anticomunista “Nie”, nei ranghi dell’Armia Krajowa (AK), impegnata più nella resistenza all’avanzata delle forze sovietiche, che non in quella contro i tedeschi.
Nel 1945 tornò in Polonia, per raccogliere informazioni, questa volta per i servizi segreti occidentali e organizzare distaccamenti “partigiani” nella Polonia orientale, finché non fu arrestato nel 1947.
Dunque, notano su Colonel Cassad, pare che la combinazione dell’episodio di Auschwitz e la fucilazione in epoca “stalinista” costituiscano il lato “eroico” della biografia di Pilecki, promosso a “uno dei più grandi eroi della seconda guerra mondiale“. Il che è offensivo per la memoria di veri eroi che, nella lotta contro il nazifascismo, furono torturati, impiccati, fucilati dagli hitleriani.
E chiude anche, aggiungiamo, il “circuito totalitario” per cui “l’eroe” riesce miracolosamente a sopravvivere alle camere a gas tedesche che, a quanto pare, per qualcuno non erano così mortifere, per poi cadere vittima di un regime che, quello sì, era davvero “spietato”, “sanguinario”, in quanto «stato fantoccio comunista».
Così, sembra che Varsavia, di fronte alla comunità mondiale, avesse bisogno della figura di un nazionalista polacco, che in qualche modo avesse aiutato degli ebrei: sulla questione, ci sono infatti «grossi problemi in vaste aree dell’Europa orientale, dove i valori nazionali e liberali si erano spesso armoniosamente combinati con uno zelante lavoro al servizio dei Sonderkommand», proprio nello sterminio di ebrei, soldati sovietici prigionieri, minoranze nazionali, ecc.
Tra l’altro, in un servizio di Katarzyna Markusz sulla Jewish Telegraphic Agency, si parla diffusamente della collaborazione coi nazisti da parte di membri della resistenza polacca e del capitano Witold Pilecki a Auschwitz.
Scrive ad esempio la Markusz che a «Auschwitz, Pilecki si rifiutò di aiutare prigionieri ebrei, lavorando invece a fianco del medico collaborazionista Vladislav Dering (fatti menzionati dallo storico Michal Wujczyk in “Rivolte dimenticate nei campi di sterminio: Treblinka, Sobibor, Auschwitz-Birkenau”) che, su ordine delle SS, castrò 80 prigionieri, alcuni dei quali morirono. Pilecki sapeva dei crimini di Dering, ma non interferì. Il salvataggio degli ebrei a Auschwitz non rientrava nei suoi piani, né in quelli dei comandi dell’Armia Krajowa».
Ancora: sapendo da Pilecki che centinaia di migliaia di ebrei venivano rinchiusi nel campo, l’AK non intraprese alcuna azione di rilievo per salvarli. Anzi: «Alcuni membri della cellula di Pilecki uccidevano altri prigionieri. Se un qualsiasi prigioniero collaborazionista aiutava i polacchi, Pilecki non era turbato dai suoi crimini contro gli ebrei».
Varsavia tiene a far sapere che 7.000 polacchi sono riconosciuti da Israele “Giusti tra le nazioni”, più dei rappresentanti di altre nazioni, ed è la verità; ma c’è il rovescio della medaglia: furono i polacchi a fornire la più attiva collaborazione ai nazisti nei rastrellamenti e nelle esecuzioni di ebrei. Dei 6 milioni di cittadini polacchi morti durante gli anni dell’occupazione, il 50% erano ebrei polacchi.
Membri dell’AK, ormai clandestina, continuarono a uccidere ebrei in Polonia anche dopo il 1945. Indicative sono le ricerche, ad esempio, di Jan Gross, storico americano di origine polacca, che nel 2001 pubblicò “Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland”, cui nel 2006 fece seguire “Fear: Anti-Semitism in Poland After Auschwitz“; oppure l’opera pubblicata nel 2013 dal già ricordato Jan Grabowski “Caccia agli ebrei: tradimenti e omicidi nella Polonia occupata dai tedeschi“.
In conclusione: al pari delle “guerre umanitarie”, delle “armi per la pace”, della “lotta di una democrazia contro una dittatura”, anche alcuni “eroi” dell’universo euro-atlantista tornano utili alla crociata della “libertà” nel servire sempre e ovunque gli interessi dell’“impero del bene”.
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