L’Ecuador si trova ad affrontare mesi politicamente difficili, in mezzo ad una spirale di violenza organizzata e non che investe il Paese in modo sempre più preoccupante.
Il presidente neoliberale Lasso si è trovato nelle scorse settimane sotto giudizio politico da parte dell’assemblea ecuadoriana per l’accusa di peculato. Eletto solo un anno e mezzo fa al ballottaggio contro lo sfidante del campo progressista, è stato costretto a governare in minoranza, cercando volta per volta di conquistarsi, o comprarsi, una maggioranza all’interno dell’assemblea.
All’accusa di peculato non è stato in grado di portare nessuna prova a sua difesa nel discorso in parlamento di mercoledì scorso. Di fronte all’evidenza di non riuscire a ottenere una maggioranza che lo salvasse dalla sfiducia, Lasso, ha optato per lo scioglimento dell’assemblea (così detta muerte cruzada) evitando in questo modo la destituzione e garantendosi un semestre di governo in più.
Il provvedimento infatti sospende per sei mesi fino a nuove elezioni il potere legislativo, ma non quello esecutivo che proseguirà attraverso decreti fino a insediamento del nuovo parlamento. Si preannunciano mesi in cui il governo cercherà di portare avanti il proprio programma reazionario, fino ad oggi andato ampiamente a rilento. Si attendono decreti che aprano alla privatizzazione dei settori strategici (telecomunicazioni, servizi sociali, petrolio) così come di una riforma tributaria e dell’età pensionabile.
Il provvedimento di Lasso è simile a quello che tentò Pedro Castillo in Perù lo scorso dicembre, ma con ben diversa reazione da parte dell’establishment che arrestò il presidente, prima ancora di destituirlo politicamente in Parlamento, operando un golpe tutt’ora in corso e che ha lasciato a oggi 70 morti e centinaia di feriti tra la popolazione che vi si oppose. L’ambasciata Statunitense anche in questo caso si è espressa con opposto giudizio e sostegno nei due casi.
La destra ecuadoriana sembra cercare in questo modo di ottenere un po’ di respiro dato che il parlamento che uscirà dalle urne durerà solo un anno e mezzo, come transizione alla scadenza naturale nel 2025.
Il partito Rivolucion Ciudadana dell’ex presidente progressista Correa, attualmente rifugiato politico in Belgio, pare essere tra i soggetti favoriti da una prossima tornata elettorale, dato l’ondata di consensi ottenuti nelle ultime elezioni locali di febbraio, dove ha vinto in 7 province del paese e 48 municipi, conquistando anche storiche roccaforti della destra come la città costiera di Guayaquil.
Più voci nel paese si sono alzate contro la decisione di muerte cruzada, definendola senza fondamento giuridico. Una mossa che la Costituzione prevederebbe solo in casi di grave commozione interna al paese, non per evitare una sfiducia di governo. Ma la Corte Costituzionale, recentemente rinnovata, risulta vicina al presidente uscente e ha già rigettato ogni ipotesi di incostituzionalità.
In caso di vittoria del campo progressista nelle prossime elezioni si apriranno molto probabilmente scenari di scontro istituzionale, come avvenuto in altri paesi del Sud America in cui la destra, incapace di presentare un progetto politico credibile o vincente, si attestò sul piano di azione giudiziaria per contrapporsi ai governi progressisti (Brasile, Argentina, i recenti processi aperti contro familiari di Petro in Colombia, ne sono esempi) o ad arrivare a palesi golpe quando mancava un ramo delle istituzioni, come avvenuto in Bolivia nel 2019.
Intanto anche il movimento indigeno ecuadoriano lancia l’allarme e si prepara contro le annunciate controriforme neoliberali. Con il suo leader Leonida Iza, ben più radicale di molti suoi predecessori, la Conaie (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) negli ultimi anni è stata in grado di presentarsi come portatrice di istanze popolari ben più ampie della sola realtà indigena, contribuendo grandemente al paro che bloccò riforme imposte dal Fondo Monetario Internazionale nel 2019 e a al paro nel giugno 2022 contro il governo Lasso.
I prossimi mesi saranno decisivi nel dimostrare la capacità delle forze popolari del paese di opporsi a qualsiasi progetto neoliberale e di essere in grado di fermarlo, come già dimostrato in passato. Questa volta però in una difficile dinamica di violenza che vede il crescente peso dei cartelli narcos all’interno di aree del Paese unito all’aumento della povertà.
Spirale di violenza prontamente sfruttata da parte del governo per emettere nelle scorse settimane un decreto in cui si dichiarava “lotta al terrorismo attraverso l’uso di armi letali” senza specificare alcun nome di bande o cartelli criminali presenti nel Paese.
Il decreto lascia quindi ampi margini di interpretazione anche nei confronti di movimenti popolari o di difesa dei diritti umani e del territorio che hanno saputo mettere in campo negli ultimi anni forti azioni di resistenza e che a più riprese da stampa e magistratura sono stati accusati di terrorismo nei momenti più alti delle proteste.
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