Il 28 maggio si terrà il ballottaggio tra i due principali sfidanti delle elezioni presidenziali, svoltesi l’altroieri.
Né Erdogan, sostenuto dalla “Alleanza Popolare”, né Kiliçdaroglu, sostenuto dal “Tavolo dei Sei”, ma votato anche dalla “Alleanza per il Lavoro e la Libertà” – che integra il partito progressista filo-curdo HDP – hanno superato la soglia del 50% dei votanti.
In una elezione in cui poco meno del 90% degli aventi diritto si è recato alle urne, Erdogan, leader dell’AKP – dato sfavorito da tutti i sondaggi – ha ottenuto circa il 49,4% mentre Kiliçdaroglu, capo della CHP, ha ottenuto circa il 45%.
Una doccia fredda per il leader della formazione social-democratica di ispirazione kemalista che ha vinto (di misura) la sfida nelle principali città – Istambul ed Ankara – già precedentemente passate all’opposizione nelle ultime amministrative, e ha fatto il pieno di voti nelle regioni sud-orientali a maggioranza curda, e per cui ha votato la maggioranza delle città costiere.
Il centro anatolico, la “Turchia profonda” ha votato per Erdogan, così come non c’è stato un rinculo negativo per il Sultano nelle regioni colpite dal sisma.
Un voto “di continuità” quindi e non “di cambiamento”, come auspicavano fortemente le cancellerie occidentali e sembravano indicare i sondaggi, dove non c’è stata trasmigrazione di preferenze dalla parte islamica conservatrice verso l’opposizione.
Erdogan conferma la tenuta del sistema di consenso costruito negli ultimi vent’anni dall’AKP, che fa perno su consolidate clientele (l’industria della difesa ed il real estate in particolare, oltre che la macchina statale) ed il quasi monopolio del sistema mediatico.
In un Paese polarizzato, 27 milioni di persone desiderano che Erdogan vada al suo terzo mandato e continui con le politiche fino a qui intraprese in ambito interno ed estero.
L’altra sorpresa di queste elezioni presidenziali è stato Sinan Ogan, leader ultra-nazionalista alleato con il Partito della Vittoria di Ümit Özdag che ha superato il 5% delle preferenze.
La formazione si caratterizza per una accesa ostilità verso i profughi siriani, che le cifre ufficiali dicono essere 3,6 milioni, e la retorica anti-curda, specie contro l’HDP.
Senza avere dato indicazione di voto, il navigato politico ha detto che inviterà a far votare chi promette di cacciare i siriani dal paese e che, per dare il proprio appoggio all’opposizione, Kiliçdaroglu dovrebbe estromettere i curdi.
Se Erdogan quindi ha perso quei consensi che gli permisero di raggiungere il 52,5% al primo turno nel 2018, e di contare su un maggiore numero di parlamentari, è chiaro che l’asse politico si è spostato ulteriormente a destra, considerando anche la crescita dei suoi alleati del MHP che avranno ben 50 deputati all’interno della coalizione.
La maggioranza del Parlamento – il cui ruolo è stato notevolmente ridotto grazie alla vittoria del referendum del 2017, che ha reso la Turchia una Repubblica Presidenziale a suffragio diretto dove chi è eletto Presidente svolge anche la funzione di capo del governo – è saldamente in mano ad Erdogan ed alleati, che possono contare sulla maggioranza nel sistema mono-camerale con 321 deputati su 600, contro i soli 213 dell’Alleanza della Nazione ed i 66 della coalizione progressista.
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