La malaugurata invasione dell’Iraq del 2003 ha provocato una serie di conseguenze negative e di gravi violazioni dei diritti umani di immediata percezione: iracheni torturati nelle celle di Abu Ghraib, rinchiusi illegalmente a Guantánamo, un Paese distrutto a tutto vantaggio dell’Iran. Ma anche episodi rimasti ignoti a lungo.
Uno per tutti. Il 12 luglio 2007 un elicottero Apache in sorvolo su Baghdad scorge nella strada sottostante alcuni civili, tra cui un fotografo munito di telecamera; dall’elicottero la scambiano per un lanciarazzi e sparano a raffica su di loro. Giunge in soccorso un furgone e viene centrato anche quello: 11 morti tra cui due bimbi.
Questo fatto sarebbe rimasto sepolto assieme alle sue vittime, se non l’avesse rivelato nel 2010 un giornalista australiano, Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, coadiuvato da Chelsea Manning, un soldatino transgender. Furono loro a impedire il “crimine del silenzio” sugli orrori delle tragedie irachena e afghana.
Solo le dittature silenziano i media. Le vere democrazie trovano il coraggio di svelare “di che lagrime gronda e di che sangue” il Potere. E porvi rimedio. L’ha fatto il presidente Obama graziando Chelsea Manning, che era un militare con 35 anni di carcere da scontare. Perché non Biden per Assange, che è un giornalista?
Eppure, da vice-presidente Biden aveva riconosciuto che le rivelazioni di WikiLeaks non avevano provocato “alcun danno sostanziale”. Ciò nonostante, Washington incriminò Assange con 17 capi d’accusa, basati su una legge antiquata – l’Espionage Act del 1917 – che poneva limiti alla stampa durante la Grande Guerra.
Rinchiuso per otto anni nella sede dell’Ecuador a Londra (per sfuggire oltretutto a una poco credibile accusa di stupro), ad aprile è scattato il suo quarto anno di reclusione a Belmarsh, carcere inglese di massima sicurezza, in attesa di esser estradato negli Usa. Le condizioni in cui vive ne hanno gravemente minato la salute. Perciò decine di parlamentari australiani, britannici e americani – oltre ad Amnesty International e Reporter Senza Frontiere – hanno rivolto petizioni all’Attorney General degli Usa e chiesto alla Corte Suprema del Regno Unito di negare l’estradizione.
I diplomatici sono tra i primi a riconoscere quanto può nuocere la fuga di rapporti e altri documenti riservati. Ma se la “riservatezza” serve a celare crimini di guerra, prevale il dovere del funzionario di denunciarli e il diritto del giornalista di renderli pubblici, si tratti o no di scoop. Va ricordato che nel 2004, durante l’invasione dell’Iraq, 52 ex-diplomatici britannici e 27 ex-ambasciatori e generali americani di alto rango uscirono dal loro riserbo con due durissime lettere di critica a Blair e a Bush.
Ora, noi ex-diplomatici ci uniamo ai parlamentari e alle organizzazioni umanitarie che hanno firmato appelli per la liberazione del giornalista, essendo convinti che le democrazie prosperano solo se hanno il coraggio di guardarsi allo specchio. A tal fine ci appelliamo al nostro governo affinché si unisca a tutti coloro che chiedono al presidente Biden di rinunciare ad ogni azione contro Julian Assange, in coerenza con quanto fatto da Obama.
Firmatari:
Marco Baccin, Francesco Bascone, Mario Boffo, Rocco Cangelosi, Torquato Cardilli, Giuseppe Cassini, Fabio Cristiani, Antonio D’Andria, Anna Della Croce, Enrico De Maio, Patrizio Fondi, Paolo Foresti, Giovanni Germano, Elisabetta Kelescian, Maurizio Lo Re, Luigi Maccotta, Roberto Mazzotta, Enrico Nardi, Angelo Persiani, Alessandro Pietromarchi, Michelangelo Pipan, Giancarlo Riccio, Antonio Tarelli, Maurizio Teucci, Bernardo Uguccioni
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