In queste ore, in molte fabbriche meccaniche dell’ Emilia Romagna, sta maturando uno scenario politicamente interessante ed emotivamente coinvolgente. In decine di aziende – solo nel modenese almeno una cinquantina di tutte le dimensioni – le Rsu stanno proclamando ore di sciopero “in memoria di Adil e contro lo squadrismo padronale”.
Non sono scioperi totalmente spontanei, le strutture Fiom di territorio hanno spinto sui delegati: ma l’adesione di questi ultimi è stata pronta e rapida. E questo in misura superiore alle aspettative, considerando lo scenario inedito: Adil non solo era attivista di un organizzazione “concorrente” in forte polemica con la CGIL, ma apparteneva anche ad un segmento produttivo, almeno apparentemente, non in stretta relazione con il profilo tipico dell’iscritto/delegato metalmeccanico emiliano.
Evidentemente l’impatto della tragedia è stato così profondo, da spiazzare schemi mentali, posizionamenti ed abitudini consolidate. La figura di Adil è stata riconosciuta con naturalezza parte di un medesimo schieramento di classe e di questi tempi non era un esito scontato.
Nel territorio modenese hanno promosso ore di sciopero le grandi aziende – vedi Ferrari e tutto il gruppo ex-Fiat – come le medie e le piccole; diverse rappresentanze di fabbrica hanno prodotto comunicati di segno politicamente avanzato.
Comunque, la gravissima vicenda novarese è stata giocoforza posta al centro dell’attenzione e della discussione in moltissimi stabilimenti, tra assemblee improvvisate e capannelli in sala mensa.
Certo, proclamare lo sciopero ed essere sicuri della sua buona riuscita, sono due cose molto diverse. La categoria, dal punto di vista del conflitto, è ferma sostanzialmente al 2016.
Anche l’ultimo contratto nazionale con Federmeccanica è stato appena rinnovato “spendendo” solo 4 ore di sciopero (zero ore per il rinnovo Unionmeccanica). Quindi nessuno oggi ha il polso per capire quale sarà l’adesione reale alle fermate.
Non esiste più alcun legame sentimentale dei metalmeccanici con il “loro” storico sindacato di riferimento, l’epoca in cui bastava fare un fischio per trovarsi i lavoratori davanti ai cancelli: quel legame si è consumato negli anni della pacificazione coatta e non si riattiva con una semplice chiamata allo sciopero, dopo che per un lunghissimo periodo le polveri della mobilitazione sono state sapientemente bagnate.
Però già vedere in tante bacheche sindacali il nome di Adil e le ragioni del suo mondo, impugnate con sincera partecipazione dalle rappresentanze storiche della classe operaia emiliana, è un segnale da cogliere, comprendere e valorizzare.
La tragedia di Biandrate evoca comunque una serie di considerazioni, a monte e a valle dell’evento luttuoso. Il fatto che ci meravigliamo della convocazione diffusa degli scioperi, rende la misura dell’arretratezza in cui siamo caduti tutti noi, che in qualche modo ci riconosciamo dentro le diverse espressioni del movimento operaio organizzato.
In altri tempi sarebbe stato un passaggio scontato e la mobilitazione non avrebbe coinvolto solo le fabbriche più sindacalizzate, ma avrebbe avuto un eco civile e di massa.
Inoltre, la presunta “estraneità” delle figure come Adil rispetto alla composizione operaia più tradizionale, a guardare bene è solo un illusione ottica.
Basta studiare la forza di penetrazione con cui, dentro il tessuto produttivo italiano – al di là della nuova oggettiva co-centralità della logistica, che proprio negli hub di questi territori è lampante – la logica degli appalti “interni” e dello spezzettamento delle filiere, è passata ovunque in forme devastanti.
Nella maggior parte delle grandi aziende meccaniche, le fasi di stoccaggio, movimentazione ed altri processi, sono state già da anni assegnate in appalto a cooperative o finte RSL eterodirette dalle proprietà. E il sindacato assai raramente è riuscito a contrastare questi processi, agitando la parola d’ordine della contrattazione di sito o della reinternalizzazione.
Nel modenese si segnalano alcune vertenze importanti in tal senso, ma sempre con la caratterizzazione della “vertenza-pilota”, mai con l’approccio sistematico della campagna a tappeto.
Quindi il tema logistica, anche nell’immaginario operaio, non è più in alcun modo riconducibile “a quel mondo là” – quello dei facchini, dei rider e “dei pacchi”: è già elemento centrale di disarticolazione del corpo di classe, fin dentro i reparti degli insediamenti più consolidati – quelli che conservano ancora qualche residuo margine di garanzia salariale o contrattuale.
Ma non solo di disarticolazione, si tratta: anche di prossimità fisica e sociale.
In che senso “prossimità”? Lo capiamo mediante qualche riflessione sulle figure sociali del lavoro, nel “nuovo triangolo industriale” veneto-lombardo emiliano.
La vecchia classe operaia della grande/media industria italiana – aziende a forte vocazione esportatrice, disposte a usare le risorse di questa fase storica per ristrutturarsi e insediarsi meglio in qualche linea di fornitura sovranazionale – è destinata nell’immediato futuro a frenetiche dinamiche di ricambio tecnico-generazionale.
Le fabbriche sono piene di operai 50/60enni, abbastanza professionalizzati, sindacalizzati ma fortemente delusi e di difficile mobilitazione.
I giovani che li sostituiranno sono figure tecniche, ben scolarizzate, forza lavoro più flessibile nella gestione delle macchine integrate dai linguaggi digitali, con qualche aspettativa di carriera, pienamente sottoposti ai meccanismi di fidelizzazione delle aziende (tirocini formativi, apprendistato, corsi interni, anche di tipo motivazional-ideologico).
Nel 1969 una generazione di ragazzi uscite dalle scuole tecniche entrò in fabbrica – in ruoli non operai – e sposò le lotte dell’operaio massa che esprimevano egemonia, sopra e oltre le ragioni della carriera o delle gerarchie funzionali.
Oggi sarebbe folle aspettarsi qualcosa di simile. Però, dentro i cancelli delle aziende, sotto i medesimi capannoni, si stanno sedimentando i nodi di una nuova “operaietà”, precaria, povera, poco fedele e più disponibile alla lotta, quella appunto degli appalti interni.
L’incontro potrà avvenire solo se le RSU assumeranno la ricomposizione di sito, come il primo elemento del proprio agire sindacale: interinali e appalti interni devono essere assunti dentro ogni processo decisionale o di mobilitazione – e questo deve diventare il primo terreno di pratica sindacale dentro ogni azienda.
Forse la morte di Adil – al di là degli elementi autoconsolatori che, umanamente, poniamo a margine delle tragedie – contribuirà a superare quelle linee di faglia tra figure e condizioni operaie, che il capitalismo fittiziamente ha prodotto in questi anni.
La Fiom emiliana, sotto la spinta dell’adesione dei suoi quadri di fabbrica, si è decisa a proclamare, come organizzazione regionale, due ore di sciopero per il 23/06. Anche questo è un segnale positivo che non va sottovalutato: le lotte esprimono egemonia, aprono contraddizioni e costringono tutti allo schieramento.
Peccato solo che Landini, qua e là, tra una dichiarazione costernata e l’altra, continui a infilare il tema della “legge sulla rappresentanza” (l’ha chiesta praticamente a tutti i presidenti del consiglio, da Letta in avanti).
Una volta questa parola d’ordine serviva ad evitare che la Fiom venisse messa in un angolo dagli accordi separati; adesso potrebbe significare altro: discipliniamo con forza di legge la rappresentanza ed evitiamo le spinte “irresponsabili” dal basso, di cui il sindacato confederale, oggi, nelle sue illusioni neo-concertative, non sente affatto il bisogno.
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