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25/06/2021

Cuba e diritti umani. Un documento penoso

È circolata una dichiarazione sui diritti umani a Cuba, redatta congiuntamente dal David Rockefeller Center for Latin American Studies, dal Hutchins Center for African and Afro-American Research e dall’Institute for Afro-Latin American Research dell’Università di Harvard.

L’ampiezza dei rispettivi campi di lavoro di queste istituzioni, così come le aree che condividono, suggerisce che questa convergenza nel confezionare e presentare pubblicamente detto documento, non può che essere dovuta a un avvenimento di natura assolutamente eccezionale all’interno delle comunità afro-latinoamericane e afroamericane. In tal modo, mentre la coincidenza tra i campi di azione si verifica a livello delle popolazioni afro-discendenti del continente, possiamo immaginare una sorta di “effetto di propagazione” che ha come traduzione che gli elementi additati nel documento operano anche come esempio e guida – per lo meno – per i gruppi subalterni del Latino-America (ad esempio, gli indigeni) e minoranze (ad esempio, gli ispanici) negli Stati Uniti.

Sono stato tirocinante del David Rockefeller Center for Latin American Studies nel 2000 e dell’Hutchins Center for African and Afro-American Research insieme all’Institute for Afro-Latin American Research dell’Università di Harvard nel 2016 e anche se non ne sono del tutto sicuro, credo di essere stato l’unico cubano residente nell’Isola ad aver goduto di tale condizione in queste tre istituzioni. Inoltre, essendo anche uno scrittore e un nero, l’invito al dialogo su cui insiste il documento e l’attenzione che riserva ai gruppi afro-discendenti cubani mi incoraggiano a condividere alcune valutazioni.

Il documento, che si dice essere stato realizzato da “unità di ricerca e insegnamento”, propone una “forte condanna alla recente repressione del governo cubano contro artisti e attivisti che cercano la libertà artistica e la libertà di espressione” e chiama a schierarsi con tale posizione. Cosa fare con questo testo secondo il quale i media statali cubani gettino discredito su gli “attivisti, inclusi gli artisti in visita a Harvard” come “mercenari” o agenti di governi e organizzazioni straniere ostili”, senza dire la minima parola sul fatto che ci sono davvero mercenari (senza virgolette), agenti governativi e organizzazioni straniere che operano contro la stabilità nazionale a Cuba, finanziati con denaro statunitense, soldi statali, annualmente preposti a cambiare (qualunque essa sia) la realtà nazionale cubana.

C’è qualche relazione tra la consegna di questi fondi nella mani di attori cubani e gli atteggiamenti politici, (le esternazioni pubbliche organizzate come atti di opposizione) di tali attori? Non includere, come parte del panorama dell’Isola che disegna la dichiarazione – anche se, che esista un legame di causa effetto tra finanziamenti e pronunciamento politico, dovrebbe essere la costatazione minima – o è un caso di ingenuità allucinante, o è un tipico esempio di condotta da struzzo, che sotterra la testa nella sabbia per non vedere.

Inoltre, il documento – il cui scopo principale è mostrare sostegno ai partecipanti del cosiddetto Movimento di San Isidro – propone una genealogia secondo la quale questo avvenimento sorge come risposta al “Decreto 349 che criminalizza la creazione artistica indipendente”. Ancora una volta, il testo preferisce non dire che il decreto 349 non solo non criminalizza la creazione artistica indipendente, ma condanna come passibili di sanzione amministrativa e penale tutti quegli scherzi e atti razzisti in spettacoli e altri eventi pubblici all’interno del sistema istituzionale del Ministero della Cultura, nonché negli spazi non istituzionali di presentazione artistica. A questo va aggiunto che il decreto, che non è mai stato applicato ad alcun artista, è stato dibattuto tra autorità culturali e artisti in incontri tenutisi a questo scopo in tutte le province del Paese, in ambienti di dialogo costruttivo.

Utilizzare la povertà storica – oltre 200 anni – di San Isidro, (“è un quartiere povero abitato prevalentemente da afro-discendenti”, si legge nel documento), eguaglia temporalità differenti e, soprattutto, alleggerisce, fino a cancellarlo, l’enorme impatto che ebbe la Rivoluzione Cubana del 1959 che restituì dignità alle popolazioni del luogo. Ecco perché, al posto di una massa amorfa di “poveri” (abbandonati, alienati, senza accesso ad alcuna possibilità di sviluppo) lì ci sono – come nei più dissimili spazi dell’Isola — policlinici, scuole, istituzioni culturali, ecc., al servizio di un universo di persone delle più svariate professioni, razze e livelli culturali.

Sebbene la povertà cubana sia innegabile, identificarla come un detonatore di disagio sociale (articolato o meno nello spazio pubblico) senza spendere una parola sulla responsabilità immediata, diretta, che su questa esercita la continua politica di 60 anni di blocco degli Stati Uniti nei confronti dell’Isola, è una decisione doppiamente discutibile: come modello accademico di analisi di un evento sociale e come gesto etico.

A questo punto, non c’è forma ne modo che il blocco non ci obblighi a questa presa di posizione, visto che incide su tutti i campi della vita e del pensiero; soprattutto perché dipende (per la sua promulgazione e sostenibilità attraverso continue riformulazioni) dall’enorme sproporzione che esiste tra la nazione più potente di tutta la storia umana e un’isola sottosviluppata, con un’economia debole. È a partire da questo, che devono essere visti sotto altra luce gli eventuali errori commessi, in passato o nella attualità, dalle autorità dell’Isola nell’amministrazione della propria piccola economia, perché ciò che il gesto etico obbliga a non tacere è che tutto questo è avvenuto sotto una delle pressioni disintegratici più violente che un Paese abbia mai sofferto.

Per quanto riguarda il cosiddetto Movimento di San Isidro, ci sono alcuni secondi di una registrazione fatta con un cellulare in cui Luis Manuel Otero Alcántara (il principale protagonista) parrebbe star rispondendo ad alcune domande critiche rivoltegli da una donna anziana. Otero, visibilmente turbato, la rimprovera con una frase: “Ecco perché meriti di mangiare ‘perritos'”. Per chi non conosce Cuba, la scena parla di umili pacchi di “würstel”, che non è solo ciò che questa povera donna riesce a comprare, ma ciò che lo Stato (la cui struttura economica è colpita senza sosta dagli attacchi diversificati che si tessono per conformare il bloqueo), solitamente riesce ad offrire alla sua popolazione. Il fascino della scena, un istante isolato nell’esecuzione del personaggio, pochi secondi senza apparente significato, sta proprio nello scambio che rende trasparente che “il vero” non riguarda gli artisti che si oppongono a un decreto ministeriale, né i “diritti umani”, né gentili richieste di “dialogo e comprensione”, ma la proiezione di un attore politico situato sulla linea del ritorno di Cuba nel circuito dello stesso capitalismo dipendente da cui un tempo fuoriuscì.

Se la penuria dovuta all’impossibilità di rifornimento in condizioni di ostilità esterna è dolorosa ciò che è veramente terribile e spregevole è che Otero, con una totale vacuità politica, fa due cose spaventose: presenta se stesso come un presunto leader razziale, ma parla con una donna, anche lei nera, con il linguaggio dell’autoritarismo e un’assenza di empatia che la memoria di questi settori poveri registra come proveniente da quella egemonia bianca che li ha sempre repressi. E, peggio ancora, la sua risposta porta implicita la certezza che – qualunque sia il modello di mondo post-socialista che Otero immagina per il Paese – settori poveri come quelli che questa donna rappresenta (da San Isidro a tutte le aree di povertà), riceveranno qualcosa di meglio.

Certo, sarebbe facile qui, a questo punto esatto, introdurre un commento ironico e affermare che, anche se così fosse, il povero nel mondo post-socialista mangerà meglio. Ma allora bisognerebbe anche sostenere l’affermazione che questa è una verità universale per ogni sottosviluppo del capitalismo globale o (come ho sentito in numerose occasioni) unire due realtà in un binomio sorprendente: sostenere che il post-socialismo cubano sarà pieno di possibilità, grazie all’alto livello di istruzione e cultura della popolazione (dovuto alla Rivoluzione stessa, che è negata!), e identificare e tradurre questa popolazione con un alto livello di formazione, come riserva potenziale di operai, tecnici, impiegati e professionisti di ogni genere al servizio di quella trasformazione del Paese che si produrrebbe quando avverrà l’incontro finale con il grande capitale (che è molto difficile che non sia in gran parte statunitense).

Questo sogno di resa, incapace di percepire la violenza della povertà che il capitale genera nelle aree del sottosviluppo, è portatore di un dibattito su passato-presente e riduce il soggetto popolare al livello di mangiare o meno qualcosa di meglio di quel “würstel”, senza riuscire a vedere, interpretare o collocare nelle sue strutture di analisi quelle garanzie che – per lo sviluppo della persona umana – lo Stato socialista di un Paese povero offre alla sua popolazione in termini di sanità, istruzione (entrambe gratuite e universali), la tutela del lavoro e la sicurezza di non dover mai essere costretti a lasciare l’abitazione per motivi economici.

Tutto ciò senza tener conto che la riduzione dell’orizzonte di espressione dei settori poveri che questa donna incarna (ad esempio, situando l’avvenimento a livello di una conversazione sul cibo), annulla l’opzione di libertà che quella persona ha scelto per se stessa; vale a dire che essendo agli antipodi di Otero (ed è per questo che la rimprovera), allora bisogna accettare che lei abbia deciso di dedicare la propria vita (ed è così trattandosi di una una persona anziana), ad un modo di esistere nel Paese dove la scala di misurazione della libertà e, soprattutto, i percorsi per raggiungere la realizzazione umana sono diversi. La chiave qui sta nel chiederci se forse la fusione tra il colore della pelle (nera) della donna, la sua età, il quartiere in cui vive (il San Isidro della povertà storica) e la differenza di giudizio rispetto a Otero, non significhi semplicemente che la donna giudica la realtà del presente e prende posizione a partire da una memoria di esclusione continuamente riattivata attraverso le tutele e le opportunità di realizzazione, crescita e libertà di essere che questi settori hanno ricevuto con la Rivoluzione. Dove, nel documento di Harvard, si sentono le parole di questa donna portatrice di verità e simbolo – in tutto il Paese – della voce dei neri (o no) che, nei settori popolari, si posizionano agli antipodi del “movimento” di San Isidro?

Ho ancora una cosa da dire rispetto al carattere differenziatore e spaventosamente esclusivo della proposta, cioè a dire, sul modo in cui tre istituzioni accademiche si posizionano di fronte alla situazione politica di un Paese situato in un continente le cui recenti dinamiche fanno parte di situazioni di sconvolgimento politico che includono omicidi, mutilazioni, sparizioni e torture (tra le varie forme di violenza poliziesca), corruzione politica ad altissimi livelli, colpi di stato che seguono il modello del “lawfare”, rapimenti politici, omicidi di giornalisti, carovane di migliaia di persone disperate per la povertà, ecc. In questo modo, un frammento come il seguente sul quartiere di San Isidro risulta grottesco, ridicolo, vergognoso e orribilmente offensivo e crudele (soprattutto molto crudele) per coloro che hanno subito spaventose violenze di stato negli ultimi tempi in America Latina.

“La natura, la qualità e l’intensità della violenza di stato scatenata contro i suoi residenti assomiglia a forme di violenza razziale di stato in altri paesi d’America, compresi gli Stati Uniti, che abbiamo anche energicamente denunciato dalle nostre piattaforme. Contano anche le vite dei neri cubani”.

Dato che in quel San Isidro tanto immaginato e difeso non si verifica assolutamente nessuna delle varietà di violenza che ho menzionato prima, farò una richiesta pubblica ai miei colleghi: vi prego di avere l’onestà e il coraggio di ripetere e spiegare quanto affermato ai parenti dei morti, torturati, mutilati, desaparecidos, alle donne violentate, a coloro che hanno perso la vista, alle famiglie dei leader sociali e dei giornalisti assassinati in tutti questi paesi del continente. Non in congressi, cattedre, riviste e documenti cartacei o virtuali, in una cabina radiofonica o di fronte a una telecamera, ma davanti a persone vere, in carne e ossa, guardandole negli occhi, persone le cui vite (o quella dei loro cari) sono state distrutte sia dalla violenza di stato nella sua variante repressiva e punitiva sia dall’abbandono dello stato stesso, altra faccia, quest’ultima, della violenza. Per quanto ne so, non esistono documenti che – pubblicati da questa triade di istituzioni di Harvard – facciano riferimento, con la stessa urgente preoccupazione (e mai meno), alla situazione dei “diritti umani” in nessun altro Paese del continente. Parallelamente, non esistono neanche – che io sappia – le imperative dichiarazioni e solidarietà del leader del Movimento San Isidro e di chi lo segue con lotte sociali come quelle che, nell’ultimo anno, si sono svolte in Bolivia, Cile o Colombia, tutte con una significativa componente di attivismo politico di sinistra.

Ma ancora peggio è che non siamo neanche a conoscenza delle dichiarazioni congiunte del David Rockefeller Center for Latin American Studies, dell’Hutchins Center for African and African American Research e dell’Institute for Afro-Latin American Research dell’Università di Harvard (e sì, che lo chiedo “con la stessa urgenza e intensità di preoccupazione e non meno”), riguardo alla situazione dei “diritti umani delle comunità nere negli Stati Uniti”. Non sulla base dell’idea che si tratti di “errori” o “problemi” transitori e correggibili del sistema, ma piuttosto focalizzati sulla comprensione della sofferenza come una questione di “diritti umani” che, proprio perché tale (ad esempio), ben meriterebbe petizioni di solidarietà e campagne di condanna internazionale in ogni tipo di organismo e scena politica.

Parlare come se la violenza strutturale che il modello capitalista produce, come elemento della sua stessa logica interna, non sia questione di “diritti umani” ma di altro ordine, (qualunque cosa si dica e si immagini), o è un impoverimento degli strumenti dell’analisi socio-politica, una manipolazione della conoscenza, uno inganno carico di obbedienza ideologica, o un volgare atto di doppiezza morale.

Oltre a tutto ciò che è stato detto, disprezzare la molteplicità degli sforzi con propositi egualitari, intrapresi dallo Stato cubano dal 1959, con un capriccioso atto di prestigio – grazie al quale il documento applica a Cuba un’interpretazione del passato, presente e futuro tipico della nazione statunitense – è un’assurdità teorica che rasenta la mostruosità etica; perché una parte sostanziale di ciò che lo Stato cubano non è stato in grado di offrire a queste popolazioni afrodiscendenti del Paese (o al popolo in generale) si deve, esattamente, agli impatti brutali e persino extraterritoriali, sostenuti e intrecciati dalle politiche di ostilità imperiale degli Stati Uniti e dei suoi vari alleati.

Come si può comprendere o accettare la trasposizione a Cuba che il documento compie delle dinamiche delle comunità povere afroamericane attraverso l’uso della frase: “Anche le vite dei neri cubani contano”[1]? Dove si trovano a Cuba gli aspetti più sordidi e aggressivi di un modello di oppressione strutturale all’interno delle comunità povere?

Quando il precedente governo degli Stati Uniti fece della distruzione dell’economia cubana uno degli argomenti preferiti del suo discorso, (molti ricorderanno l’espressione minacciosa di Trump mentre, parlando dei suoi prossimi progetti contro l’Isola, avvertiva – in un intervento televisivo – i suoi seguaci e il mondo: “Non sanno cosa li aspetta”), come fanno gli accademici a non trovare alcuna relazione tra le dinamiche che possono svolgersi negli spazi di povertà a Cuba e l’articolazione della perfidia imperiale?

Lascio come conclusione una felice coincidenza. Recentemente, in quel luogo di povertà storica che è San Isidro, è stato inaugurato un complesso culturale, il cui nome è “Oficio de Isla”, un’istituzione aperta destinata alla comunità, allo scambio e all’espressione artistica. Ciò è avvenuto, nonostante e in mezzo a numerose restrizioni economiche derivanti ​​dall’attuale pandemia di Covid-19; cioè esattamente quando conta di più l’ultimo dei centesimi, perché non ce ne sono quasi più.

La coincidenza è particolarmente interessante perché “Oficio de Isla” è il titolo di uno spettacolo teatrale, che in quello stesso quartiere ha avuto numerose rappresentazioni lo scorso anno e che coinvolge interamente la stessa Università di Harvard da cui ora proviene questo documento. L’opera presenta una storia di resistenza nazionale basata sulla famosa visita di oltre 1200 insegnanti cubani all’Università di Harvard durante l’estate del 1901.

Vivere è un’esperienza così strana che in questa storia mi tocca un luogo particolare. Ho trascorso un intero anno accademico ad Harvard, come invitato con una borsa di studio di ricercatore proprio per due delle istituzioni che firmano il documento di cui sto parlando.

Nello stesso periodo, il regista Danny González Lucena svolse il lavoro di ricerca per il suo documentario “Los Cubanos de Harvard” di cui ho avuto l’onore di essere co-autore. Devo raccontarlo perché è stato questo documentario che ha ispirato lo spettacolo teatrale “Oficio de isla”, ideato da Arturo Sotto e diretto da Osvaldo Doimeadiós. Il titolo dell’opera, a sua volta, era il nome scelto per il complesso culturale che ho citato prima, situato proprio nello stesso quartiere di San Isidro di cui ci parla il documento di Harvard.

Di fronte al triste esempio di “interventismo accademico” che vede protagonista il trio di istituzioni citato, plaudo a ciò che – proprio per quei settori popolari – rappresentano lo spettacolo teatrale e il complesso culturale “Oficio de Isla”: un’altra via di accesso alla conoscenza e alla fruizione della migliore cultura, uno spazio di sviluppo spirituale, un altro esempio di interazione tra popolo e istituzione e, non in misura minore, un altro episodio della storia della resistenza e della cultura nazionale.

Note:

[1] Il riferimento è allo slogan e al movimento “Black lives Matter” degli Stati Uniti utilizzato dagli estensori del documento in modo spregevolmente strumentale, assumendo una posa fintamente progressista, (n.d.t.).

Fonte

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