di Maurizio Vezzosi
L’Armenia è andata al voto nel trentesimo anno dalla fine della storia sovietica. L’atmosfera che ha caratterizzato il Paese nei mesi scorsi, durante la campagna elettorale e nella giornata del 20 giugno è stata particolarmente tesa ed esacerbata dai contrasti politici.
Le tensioni sono riconducibili principalmente alla sconfitta che l’Armenia ha subito lo scorso autunno nella guerra contro il vicino Azerbaigian ed ai problemi economici del Paese. Benché le liste candidate fossero oltre venti, la tornata elettorale è stata percepita come un testa a testa tra il primo ministro dimissionario Nikol Pashinyan e l’ex primo ministro Robert Kocharian.
L’affluenza ha visto la partecipazione di circa la metà degli aventi diritto al voto: un dato stabile, sostanzialmente in linea con le precedenti elezioni del 2018, che conferma sfiducia e scetticismo nei confronti del sistema politico da una parte considerevole della società armena.
Ben pochi precedenti storici hanno visto un primo ministro vincere una competizione elettorale dopo aver messo la propria firma su una capitolazione militare, gravosa da un punto di vista economico e politico. Il risultato elettorale ha sconfessato le aspettative di molti osservatori stranieri così come buona parte dei sondaggi preelettorali: secondo questi ultimi né Nikol Pashinyan né Robert Kocharian avrebbero avuto la possibilità di formare un governo senza l’appoggio di altre forze politiche. Il 53% dei votanti ha scelto l’ex giornalista e primo ministro dimissionario Nikol Pashinyan, il 21% la coalizione Hayastan (in italiano: Armenia) a sostegno di Robert Kocharian.
La coalizione Hayastan ‒ a sostegno di Robert Kocharian ‒ insieme ad altre formazioni politiche, ha annunciato che non riconoscerà l’esito delle elezioni, sostenendo che queste sarebbero state condizionate da pesanti irregolarità: rispetto a ciò la coalizione Hayastan ha già annunciato un ricorso presso la Corte costituzionale per chiedere che il risultato elettorale venga invalidato.
La giornata elettorale del 20 giugno è stata caratterizzata da alcuni episodi di violenza e dalla segnalazione di un numero cospicuo di irregolarità: nel caso in cui queste dovessero effettivamente avere una rilevanza significativa imponenti mobilitazioni dell’opposizione sarebbero da attendersi nelle prossime settimane.
Nei fatti, l’atteggiamento che l’opposizione assumerà resta un’incognita: a quest'incognita si sovrappone quella di una possibile reazione da parte dell’esercito. Nei primi mesi dell’anno, del resto, i vertici militari avevano sfiduciato Nikol Pashinyan in relazione alle scelte portate avanti da quest’ultimo nel conflitto con il vicino Azerbaigian: un fatto che aveva reso verosimile la possibilità di un colpo di Stato.
La pesante sconfitta subita dall’Armenia durante lo scorso autunno ha comunque inciso notevolmente sul consenso reale di Nikol Pashinyan, che rispetto alle elezioni del 2018 si è ridotto di circa 200.000 voti. Il consenso nei confronti dell’ex giornalista sembra mosso in buona misura dalla logica del voto di protesta, ad esempio nei confronti dell’ex primo ministro Robert Kocharian e di Serzh Sargsyan, figure accostate al malaffare ed alla malapolitica da una parte consistente dalla società armena.
Un orientamento favorevole al rapporto con l’Unione Europea e gli Stati Uniti ha sempre caratterizzato le posizioni di Nikol Pashinyan in politica estera, così come quelle di almeno una parte della sua base elettorale: ostentare una certa antipatia nei confronti di Mosca ha permesso a Nikol Pashinyan di polarizzare il consenso di quella porzione di società armena più orientata verso l’Unione Europea e gli Stati Uniti, anche in relazione ai legami della diaspora.
Allo stesso tempo, il discorso sostenuto da Nikol Pashinyan ha spinto il senso comune di una parte del Paese ad associare problemi seri, come quello della corruzione, al retaggio sovietico ed al presente legame con Mosca.
Ciononostante, anche durante lo scorso mandato, la politica del governo Pashinyan nei confronti di Mosca ha fatto i conti con il ruolo cruciale che la Federazione Russa riveste per la piccola repubblica caucasica nell’ambito energetico, in quello economico ed in quello della difesa: del resto, senza l’intervento della forza d’interposizione russa, anche l’ultima guerra combattuta lo scorso autunno contro l’Azerbaigian sarebbe costata all’Armenia una sconfitta di gran lunga peggiore di quella subita.
Intanto lunedì 21 giugno i sostenitori di Nikol Pashinyan si sono radunati nella centralissima Piazza della Repubblica della capitale armena ‒ dove si trova il palazzo del governo ‒ per celebrare il risultato. Sia durante la conferenza stampa notturna, sia durante il comizio postelettorale Nikol Pashinyan è intervenuto calandosi nel ruolo di guida della nazione armena, parlando di un «mandato di ferro» da portare avanti imponendo la «dittatura della legge»: un’espressione, quest’ultima, spesso utilizzata dal presidente russo Vladimir Putin.
I risvolti concreti del voto potranno misurarsi soltanto negli sviluppi delle prossime settimane e dei prossimi mesi: nel frattempo le problematiche strutturali della piccola repubblica ex sovietica in campo sociale ed economico restano irrisolti: rispetto a questi, un piano di reindustrializzazione del Paese appare come l’unica opzione concreta per contrastare disoccupazione e disuguaglianze.
Oltre all’attivismo di Ankara nella regione, il nuovo governo si troverà ad affrontare anche il problema della definizione dello status dell’Artsakh, area contesa con il vicino Azerbaigian sin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e presidiata da alcuni mesi dal contingente russo composto da circa 2.000 militari.
Malgrado il risultato elettorale e l’entusiasmo dei sostenitori di Nikol Pashinyan, il futuro della piccola repubblica ex sovietica resta in bilico ed immerso nella complessità del contesto caucasico.
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