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29/06/2021

Le ginocchia fragili del nazionalismo calcistico italiano

Pre-partita

Non nego che a principio la questione avesse avuto anche per me un vago retrogusto di banalità: il fatto che la tematica antirazzista fosse portata, con spirito spudoratamente pedagogico, sui campi di calcio, da parte di atleti che nella maggior parte dei casi non esprimono di certo il meglio di sé nell’ambito dell’opinione e della lotta politica, sembrava in qualche modo sottolineare la natura cosmetica, artificiosa e formale dell’iniziativa.

E poi di fatto sull’antirazzismo non c’è molto da discutere: è ovvio che siamo tutti d’accordo.

Non è così ovvio evidentemente, come dimostrato dalla recente presa di posizione della nazionale italiana, che richiamandosi al dogma insormontabile dell’unità della squadra ed a uno dei più abusati discorsi degli ultimi anni, quello della “libertà di espressione”, ha deciso con modalità che li consegnerebbero, senza bisogno di play-off, al girone degli ignavi, di non inginocchiarsi, come voluto dal rituale di protesta contro il razzismo diffusosi in seguito all’assassinio di George Floyd negli USA ed al dilagare del movimento BLM su scala globale.

Le acrobazie retoriche degli opinionisti ed influencer di destra avevano già da tempo lavorato nel sobillare, attraverso curiose inversioni dialettiche, l’idea che il non sottomettersi a questa pratica politically correct fosse un impavido “atto di resistenza” nei confronti di forze manipolatrici e conformanti.

È oramai un’argomentazione comune ed efficace quella che ribalta ed estremizza i discorsi relativi alla tutela delle minoranze, e ci spiega come queste retoriche siano degenerazioni mentali di un’élite politica globalista che mira a costruire una forma di cittadinanza plasmata in funzione delle sue oscure strategie.

Seducente, ma di fatto, più che costruire un punto di vista nuovo, le critiche quasi sempre si arenano regressivamente su posizioni conservatrici e reazionarie, per quanto spesso sostenute da persone che faticano a vedere nelle nuove espressioni della “sinistra” globale una critica radicale al capitalismo, specie alle sue evoluzioni in simbiosi con il fenomeno pandemico.

Le lotte per i diritti civili sarebbero, in questa prospettiva, controcultura costruita ad hoc, la vera nemica di altre possibili forme di resistenza più vere, spesso non ben identificabili se non a partire da vaporose teorie del complotto.

In questo quadro discorsivo il calcio, (e lo sport in generale) deve quindi essere libero da inferenze ideologiche, nella fattispecie rispetto alle preconfezionate questioni citate e alla fantomatica “dittatura del politically correct,” intorno alla quale è sicuramente necessario approfondire il dibattito, ma che è ultimamente diventata una categoria che magnetizza negativamente una costellazione di fenomeni troppo ampia per essere ricondotta e semplificata ad un’espressione votata ad attrarre strategicamente antipatie più da sinistra che da destra.

Un cavallo di Troia ideologico che penetra, moltiplicandosi attraverso la circolazione di idee, il sottosuolo conversazionale delle centinaia di migliaia di commenti che incorniciano i post e gli articoli che intersecano, più o meno consapevolmente, il dominio semantico del termine.

Chi si direbbe sostenitore del politically correct? Più o meno quanti quelli che si definirebbero razzisti, negazionisti, o complottisti. Non sono certo categorie negoziali, in quanto oramai fungono da denigrazione implicita della posizione ideologica degli altri, paralizzando di fatto ogni possibilità di dialogo.

Ora però mi chiedo quanto il calcio in sé possa vantare una purezza ideologica, una verginità che ne sancisca e legittimi la posizione imparziale rispetto al fenomeno del razzismo.

Lasciamo per il momento da parte le tendenze politiche delle curve per concentrarci su quanto avviene sul campo e sulla sua funzione simbolica: il calcio, specie durante eventi come gli europei, può essere di fatto letto come la più sentita manifestazione performata delle dimensioni identitarie nazionaliste.

È imbarazzante ma realistico affermare che l’apice del nostro patriottismo si impone alle nostre viscere durante queste cicliche chiamate alle armi – TV, telecomando, pizza, birra e divano – anche esplodendo in torsioni e scatti corporei incontrollati, attraverso cui lo spirito italico si impossessa provvisoriamente della nostra volontà e nella nostra identità di fruitori, per quanto queste possano essere normalmente ricalcitranti al fenomeno.

È difficile negare che le icone più unificanti ed efficaci della storia d’Italia siano da rintracciarsi nei fotogrammi di Paolo Rossi e Fabio Grosso esultanti dopo aver segnato i gol più decisivi per la vittoria del mondiale.

Con buona pace dei partigiani da una parte e dei fascisti dall’altra, c’è qui una trasversalità ed una pervasività del nazionalismo nostrano, peraltro perfettamente innestata e visualmente percepibile nei corpi dei nostri eroi, in qualche modo inarrivabile per altri ambiti, inevitabilmente divisivi, della storia recente.

Questo senso di coesione, come in tutte le dinamiche identitarie operative, si nutre comunque di una nemesi, che possiamo dire qui sublimata nel ludico: le partite potrebbero in questo senso essere considerate delle piccole guerre in cui la conflittualità è, sì, incorporata, ma non degenera in violenza, rimanendo inscritta in una normatività ben disciplinata e giudicata.

Le stesse tensioni identitarie ritualizzate nella performance sportiva sono però slatentizzate nel pubblico, ed è emblematico il fatto che nelle fasi successive alle partite capiti che le tifoserie (non necessariamente delle nazionali, anzi, la scala campanilistica è la solida base di questo sistema segmentario) si cerchino e si scontrino quasi a voler riaprire il conflitto “giocato” in uno spazio normativo meno strutturato, in cui l’aggressività nutrita dal sentimento identitario possa cedere alla violenza come estrema soluzione con le forze dell’ordine ad arbitrare.

Lo sport, ma direi soprattutto il calcio, forse proprio per la mascolinità tossica in cui spesso è invischiato, ritualizza e sublima, ma anche libera le forze conflittuali a cui allude, reificando appartenenze altrimenti più porose, frammentate ed incerte.

C’è quindi da un lato un potenziale emancipatorio rispetto alla dimensione identitaria (pensiamo ad esempio al cortocircuito innescato dalle “naturalizzazioni” dei calciatori), ma, nell’evidenza delle coreografie e i cori da stadio, nell’atmosfera solenne che accompagna gli inni, nei contrasti e gli sciami emotivi che lo propagano oltre i 90 minuti giocati, rimane in primo luogo un’espressione di forme identitarie che rimandano ad un pensiero di destra, sicuramente lontano da internazionalismo e lotta di classe, se vogliamo con queste intendere il cuore ideologico della sinistra.

Forse più compatibile con l’universalismo antirazzista e antiomofobo ed i suoi tentativi di istituzionalizzazione, in un prospettiva relativa al potenziale più che allo stato attuale delle cose.

In questo senso l’iniziativa pedagogica dell’inginocchiamento non è strutturalmente banale se pensata all’interno del contesto specifico, all’ambiente antropologico che lo circonda ed al suo identitarianismo sistemico.

Soprattutto rimane la sensazione che il rifiuto dei calciatori di inginocchiarsi non derivi tanto dalla fantomatica “libertà di espressione” e da una spontanea ribellione alla “dittatura del politically correct”, ma più semplicemente dalla necessità di non mettere in discussione il versante divisivo di cui si nutre l’apparato calcistico come fenomeno sociale, in buona parte vincolato alla sensibilità destroide delle sue tifoserie.

Il suo senso, a mio modo di vedere, non si è rivelato tanto nella proposta in sé, nel suo imporsi dall’alto al senso comune, ma proprio nelle crepe che ha creato negli spogliatoi, e, nel caso italiano, nel cedimento, con dinamiche palesemente maggioritarie, a quelli che sono i meccanismi identitari dell’habitat culturale che lo circonda.

Non sarà mai infatti in discussione la simbologia patriottica su cui si innesta “naturalmente” la performance, né tanto meno i marchi e gli sponsor che ne decorano le scenografie, per quanto anch’essi ideologicamente connotati, questa volta al consumismo.

Per la gioia di chi deamicisianamente ritiene necessario imprimere l’etica anche ad una serata pizza-birra-TV, è in conclusione il pensiero antidivisivo e non alterizzante, come quello “banalmente” antirazzista, a costituire una minaccia al cuore dell’apparato calcistico e alle sue strutture soggiacenti, a far vacillare le tassonomie che richiama, ad attenuare eccessivamente una polarizzazione che è di per sé parte della ricezione dell’evento.

Questo ci diranno gli azzurri ogni sera, quando impettiti stoneranno fuori tempo l’Inno di Mameli: “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, ma non aspettatevi molto altro”.

Post-partita

Era dalla famigerata estate del 1990, quando avevo 9 anni, che lo spirito del nazionalismo, con ricorrenza biennale, riusciva subdolamente ad aggirare il mio raziocinio e a possedermi, attraverso saliscendi emotivi e immedesimazione corporea rievocati da mondiali ed europei.

All’epoca dell’infausta iniziazione, lo ricordo bene, mentre Caniggia segnava per l’Argentina, io stavo leggendo Topolino, e mio padre mi aveva fatto notare, un po’ turbato dalla mia apatia, che nel frattempo “stavamo perdendo”.

Ma lasciamo perdere le derive psicanalitiche, e con queste l’idea che sia stata colpa della mia distrazione se l’Italia delle notti magiche si sia fermata alla semifinale.

Lo ammetto, ho sempre vissuto con un certo fastidio questo innesto ideologico come un corpo estraneo, mai ben integrato nel mio habitus di antropologo svisceratore di reificazioni identitarie.

Ieri (e di questo devo ringraziare anche le impacciate dichiarazioni di Chiellini sulla “lotta al nazismo” che verrà portata avanti nei prossimi mesi, probabilmente attraverso letture critiche del Mein Kampf durante l’intervallo), quasi magicamente l’esorcismo è finalmente avvenuto.

La mia pancia si è però impulsivamente orientata verso l’Austria, forse per ingenua concessione allo sterile assioma strategico “i nemici dei tuoi nemici sono tuoi amici”. Ma per il momento ci accontentiamo del compromesso dell’inversione, sostenuta dalla immancabile romantica simpatia per la parte più svantaggiata.

Per tutta la partita, che ho seguito presso un centro di accoglienza per immigrati, ho quindi intimamente tifato per la squadra avversaria. In vortice inatteso di stati d’animo, un malcelato “spaesamento” (nella declinazione etimologica e figurata del termine), avrebbe lasciato presto spazio ad un solido e necessario senso di liberazione, perfettamente contrappuntato dall’esultanza di pakistani e ghanesi sui gol di Chiesa e Pessina.

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