Hanno destato un’eco molto forte le parole con cui il presidente della Repubblica tedesca, Franz Walter Steinmeier ha inaugurato, a Berlino-Karlhorst, la mostra Dimensioni di un crimine: Prigionieri di guerra sovietici nella seconda guerra mondiale.
La mostra, organizzata in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’inizio dell’invasione tedesca dell’URSS, detta operazione Barbarossa, si tiene simbolicamente proprio nell’ex quartiere generale delle truppe sovietiche in Germania, dove fu firmata, nel 1945, la resa tedesca.
Le fotografie esposte documentano le condizioni disumane in cui furono detenuti in Germania i prigionieri sovietici, che non erano affatto trattati come prigionieri di guerra, quindi, per esempio, erano costretti a lavorare per il nemico.
I prigionieri erano denutriti, maltrattati, cadevano vittime del tifo e di malattie che, se non li portavano direttamente a morire, li debilitavano e per chi non poteva più lavorare c’era l’eliminazione fisica.
Le condizioni di detenzione esprimevano il disprezzo razziale e l’odio politico, tipici dell’ideologia nazista, per gli untermensch (essere inferiore, subumano) che potevano essere eliminati senza alcuno scrupolo.
Il discorso di Steinmeier, che è il primo presidente tedesco a prendere la parola nel quartiere generale di Karlhorst, è importante perché si pone in controtendenza a quella che è la vulgata storica, purtroppo diffusa negli ultimi anni anche in sedi istituzionali come il parlamento europeo, della lotta tra due “totalitarismi”: nazifascismo e comunismo.
Steinmeier ha reso omaggio ai 27 milioni di morti sovietici causati dalla “barbarie nazista” e ha elogiato il coraggio e l’azione dei soldati dell’Armata Rossa che consentirono di sconfiggere “il peggior regime che abbia mai devastato il pianeta”.
Il presidente tedesco ha così offerto l’onore istituzionale agli uomini e donne vittime dell’invasione nazista, nel nome della riconciliazione russo-tedesca, dicendo che il loro ricordo deve essere impresso nella memoria collettiva anche in Germania.
Una giusta visione di “riconciliazione” che, per essere realmente tale, deve passare attraverso la chiara attribuzione e assunzione delle responsabilità, poiché altrimenti è solo un insulto alle vittime e alla storia.
La scelta dell’ex quartiere generale sovietico come sede della mostra e le parole stesse di Steinmeier hanno suscitato le ire dell’ambasciatore ucraino, che ha sostenuto che tutto ciò non dà giustizia ai paesi dell’URSS che avrebbero subito l’occupazione russa.
Indignazione, quella dell’ambasciatore del regime filonazista ucraino, che è stata respinta dal presidente tedesco che l’ha definita una strumentalizzazione della storia contro “i propri vicini”, nociva anche all’amicizia con la Germania.
Le parole di Steinmeier segnano l’ammissione, da parte della massima autorità dello Stato tedesco, che l’operazione Barbarossa fu un’aggressione militare condotta oltretutto con metodi criminali e di sterminio e che il merito dell’Armata Rossa fu quello di difendere il proprio paese dall’invasione ma anche di liberare il mondo dal nazismo. È la Storia.
Tuttavia, si tratta di parole non scontate in un paese che vide, nell’immediato dopoguerra, una continuità pericolosa nel passaggio tra Terzo Reich e nuovo Stato tedesco e anche in un momento in cui sempre più si diffondono presunte ricostruzioni storiche fasulle e bugiarde che fantasticano di presunte responsabilità del “totalitarismo” sovietico.
La continuità, rispettivamente tra nazismo e fascismo e nuove repubbliche tedesca occidentale e italiana fu dettata dalla nuova collocazione nell’orbita americana dei due paesi e dalla conseguente volontà degli USA di contrastare i paesi e le forze comuniste, utilizzando anche i rottami delle vecchie strutture e parte del loro personale umano.
Tuttavia, il discorso di Steinmeier è anche una lezione severa per i politici e i rappresentanti istituzionali italiani.
Infatti l’invasione dell’URSS non fu condotta dalla sola Wehrmacht ma anche dall’esercito italiano e dalle camicie nere che ne erano fedeli alleati.
Subito dopo la guerra l’URSS presentò una lista di criminali di guerra italiani responsabili di stragi e violenze contro la popolazione civile, i soldati e i partigiani. Tali criminali non subirono alcuna conseguenza, come non le subì realmente quasi nessuno dei responsabili delle azioni criminali in Africa, nei Balcani e nelle zone del confine orientale.
Al contrario, è stata costruita una narrazione assolutoria, in base alla quale le truppe d’occupazione italiane sarebbero state più “umane” delle altre, nonostante, per esempio, che in Jugoslavia si fossero meritate l’appellativo di “brucia villaggi”, poiché dedite ad azioni di rappresaglia antipartigiana del tutto simili a quelle attuate dai tedeschi in Italia.
Ciò senza considerare le falsificazioni e i deliri nazionalisti che ogni anno accompagnano la giornata del 10 febbraio, in occasione della quale, per esempio, nel 2019, l’allora presidente del parlamento europeo Tajani inneggiò sconsideratamente a “Istria italiana e Croazia italiana”.
In tale contesto, anche l’invasione dell’URSS è stata narrata, in Italia, in una chiave che considera solo la tragedia della ritirata, che vide morire migliaia di nostri militari, ignorando che essi erano stati inviati, in realtà, per condurre una guerra di invasione e di sterminio.
Anche nelle scuole, mentre sono lettura corrente brani dei libri, pure importanti, che raccontano la ritirata di Russia e l’impreparazione delle truppe italiane, si transige volentieri sul fatto che tale disastro fece seguito a un’aggressione militare e a una barbara occupazione e si tende ad addossare ai soli tedeschi le responsabilità dei gesti disumani compiuti anche dalle nostre truppe.
Ancora una volta la Storia va raccontata tutta e non solo per ciò che conviene.
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