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21/04/2020

Ricostruzione. Qualche idea, tante resistenze...

Come si esce da questo disastro? Ce lo stiamo chiedendo tutti, di qua e di là delle consolidate differenze di classe, prospettiva sociale, aspirazioni di cambiamento. Ma le risposte – pure numerose – sollevano più interrogativi di quanto non diano risposte.

Lasciamo perdere tranquillamente il mantra confindustriale, ripetuto fino alla noia dai servi dei servi, che sogna di poter semplicemente tornare “come prima”. Un sogno che non ha fatto i conti – nemmeno quelli economici – con quello che sta accadendo, settimana dopo settimana (ognuna vale circa il 2% del Pil), figuriamoci con la situazione che avremo di fronte quando la frana si sarà stabilizzata.

A costoro dovrebbe essere sufficiente vedere le file che si formano negli Stati Uniti, ogni giorno, per ricevere un pacco viveri. Lavoratori ora disoccupati (22 milioni in sole quattro settimane), che ancora possiedono un’auto cui avevano fatto il pieno di benzina (circa 50 centesimi al litro, laggiù), ma che la usano ormai soltanto per questo.

Non gliene frega nulla, naturalmente. In quella foto vedrebbero soltanto una massa sterminata di manodopera pronta ad essere impiegata a qualsiasi prezzo. Pardon, salario...

Non mancano rare riflessioni molto più ragionate, anche in termini di “sistema”, come quella prodotta da Guido Salerno Aletta su Milano Finanza. Che stabilisce un confronto secco con la necessità di ricostruzione che fu affrontata anche alla fine della Seconda Guerra mondiale.

Lì lo Stato – una Repubblica fragilissima (il fascismo e la monarchia erano stati battuti, ma sopravvivevano in tante teste) – si fece carico di delineare una strategia economica complessa, con capitali Usa (il “piano Marshall”) e mobilitando il risparmio dei cittadini (di quelli che ne avevano...) verso l’impiego nell’economia reale.

È la stessa esigenza che ci si trova davanti oggi. Ma con significative differenze che, per l’appunto, sollevano più domande che risposte.

In entrambi i casi – allora ed oggi – si pone la necessità di cambiare modello di sviluppo. Allora da un’economia di guerra con poche fabbriche funzionanti e infrastrutture devastate dalla guerra. Oggi da un modello a centralità della finanza in direzione di un sistema produttivo ricostruito, appunto privilegiando l’economia reale.

Ma...

Allora il livello della distruzione era pressoché completo, e questo – non paradossalmente – facilitava il “ridisegno” del sistema, perché non ci potevano essere resistenze significative contro la necessità di ricostruire. Anche il movimento operaio riconosceva questa necessità, restando ben presto incastrato negli ingranaggi della macchina che ripartiva, la “tutela minacciosa” degli Usa e la spartizione stabilita a Yalta.

Oggi il livello della distruzione che ci troveremo davanti è ancora ignoto. E, in quel che sopravviverà, ci saranno resistenze fortissime. Chi privilegia il “ritorno agli assetti precedenti” non è affatto sconfitto, per il momento. Anzi, è rabbioso per le perdite, ma mantiene saldamente il potere di determinare le decisioni politiche (basta ricordare il disastro combinato l’8 marzo, quando hanno convinto il governo a rinunciare a chiudere alcune parti della Lombardia) e preme in modo irresistibile per “ripartire” come se il virus non ci fosse più.

Anche l’elezione del nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è un segno chiaro di questo potere “continuista” e suicida. Un bocconiano, uno specialista in private equity, in combinazioni finanziarie; uno che non ha costruito né guidato alcuna azienda produttiva – fino a pochissimi anni fa – e che non concepisce altre soluzioni tranne quelle che già conosce.

Le stesse che hanno portato al fallimento attuale. Peraltro non ammesso come tale (“andava tutto bene, se non c’era questo virus sopravvalutato...”).

La sterzata drastica che Salerno Aletta disegna, come minimo, presuppone sia uno Stato “forte” (nel senso di economicamente autorevole, non poliziescamente menacciuto), sia una disponibilità del “sistema” ad essere ridisegnato per un efficace passaggio dalla centralità della finanza a quella dell’economia reale. Entrambe le condizioni, diciamo così, sembrano al momento scarse.

Può essere che, proseguendo la pandemia, e dunque un’alternanza di stop-and-go (“chiudere tutto”, “riaprire tutto”), la seconda condizione si possa manifestare. La prima – la qualità di direzione complessiva della macchina statale sull’economia – invece appare certamente poco modificabile in tempi brevi. Quarant’anni di demolizione e demonizzazione dell’intervento statale nell’economia (il vero centro teorico del neoliberismo trionfante) non si superano con un atto di volontà.

Domande, per l’appunto.

Buona lettura.

***** 

Serve una Stella polare

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Per guidare la ripresa del Paese, occorre una strategia chiara: ad un medesimo tempo, come si fece già in Italia nel Dopoguerra, si deve abbattere il debito pubblico esistente, stavolta immettendo liquidità nel sistema bancario, e riportare il risparmio delle famiglie verso l’economia reale.

QE per le Imprese – Abbattere il debito pubblico immettendo liquidità nel sistema bancario.

Solo tenendo fermo il timone del Carro, questo tirerà dritto e le ruote dell’economia torneranno a girare veloci.


Non è il maggior debito pubblico il volano principale da attivare per la ripresa economica. Non convincono, quindi, le mozioni degli affetti, gli appelli alla sottoscrizione patriottica di emissioni straordinarie.

Già nel Dopoguerra, il debito pubblico ereditato da quella infausta ventura venne abbattuto in termini reali con una fiammata inflazionistica, allora ritenuta assai preferibile rispetto ad un prelievo patrimoniale.

Le iniziative in corso da parte della Bce devono essere colte al volo, modificandole adeguatamente, per monetizzarne una ben cospicua quota di debito pubblico, immettendo nuova liquidità nell’economia reale, non sui mercati finanziari. Nessun valore sarà sostenibile per gli asset quotati, nonostante le manovre di sostegno da parte delle Banche centrali, se l’economia reale non tornerà ad essere vigorosa.

Stavolta si tratta di immettere nuova liquidità nel sistema bancario a fronte del ritiro definitivo dei titoli di Stato da questo detenute. La Bce deve rinunciare al signoraggio sulla liquidità corrispondente, da destinare al finanziamento dell’economia reale.

Deve essere direttamente la Banca d’Italia, stavolta, a gestire questa componente del Pepp (Pandemic Emergency Purchase Program) già deciso dalla Bce, ed in via di ulteriore ampliamento. Il debito pubblico in circolazione va dunque abbattuto, in ragione del 20% del pil, in ciascun Paese dell’Eurozona.

Dobbiamo uscire dalla crisi con un rapporto debito/pil invariato: questa è l’unica solidarietà europea possibile, realistica e praticabile. Non serve modificare i Trattati, non serve ricorrere al Mes, non serve una emissione comune di Recovery Bond da parte della Unione europea. Occorre solo coordinare la politica monetaria con quella fiscale.

Riducendo le detenzioni bancarie di debito pubblico, soprattutto in Italia, con il Qe per le Imprese si migliora anche il rating degli istituti e si avvia quel processo di riduzione del rischio da debito sovrano che su di esse incombe, e che da tempo è auspicato.

Vanno però cambiate le modalità di immissione della liquidità: le aste devono essere effettuate a livello nazionale, da parte di ciascuna Banca centrale, ritirando unicamente i titoli di Stato detenuti dalle banche sottoposte alla loro rispettiva giurisdizione.

Si eviterà così il paradosso cui abbiamo assistito in questi anni per la modalità di gestione accentrata delle aste del Qe sulla Piazza di Francoforte, con la Banca d’Italia che iscriveva in continuazione i titoli di Stato che venivano acquistati all’attivo del proprio bilancio, mentre la liquidità del suo passivo fluiva direttamente all’estero peggiorando il saldo dell’Italia nel sistema di pagamenti Target 2.

Per quanto riguarda gli acquisti di titoli di Stato operati finora dalla Bce, nel complesso, alla data del 13 aprile scorso, le detenzioni di titoli di Stato della Banca d’Italia derivate dalla attivazione dei Qe (principalmente attraverso il PSPP – Public Sector Purchase Program) ammontavano a 382,5 miliardi di euro. L’ammontare complessivo di acquisti di titoli del debito pubblico, nell’eurozona, è stato invece pari a 2.262 miliardi di euro.

Le Banche italiane, alla fine del terzo trimestre del 2018, detenevano titoli di Stato italiani a medio e lungo termine per 317 miliardi di euro: è una cifra che si avvicina al 18% del pil di quell’anno. Ed è questa, grosso modo, la cifra cui si dovrà avvicinare per l’Italia l’ammontare degli acquisti da gestire sulla base del Qe per le Imprese, rimodellando ed ampliando il Pepp già in corso, e su cui c’è l’intenzione da parte della Bce di insistere rispetto ai 750 miliardi già previsti fino alla fine dell’anno in corso.

In pratica, considerando per l’Italia un importo complessivo di nuova liquidità per 300 miliardi di euro, da destinare unicamente al settore bancario, ci si avvicinerebbe al 20% del pil. Questo importo sarebbe destinato per due terzi al finanziamento delle imprese e solo per un terzo alla copertura delle maggiori emissioni nette derivanti dall’incremento del deficit pubblico per l’anno in corso. In pratica, nel portafogli delle banche italiane, le detenzioni di titoli pubblici dovrebbero ridursi ad una ottantina di miliardi di euro.

La liquidità aggiuntiva incassata dalle banche italiane, verrebbe obbligatoriamente destinata, per 250 miliardi di euro, al finanziamento delle imprese e per le sole operazioni relative alle attività produttive localizzate in Italia. Si riprenderebbero i vincoli di destinazione produttiva già più volte introdotti dalla Bce con le Ltro (Long Term refinancing operation), ma con una differenza fondamentale: in questo caso, non si tratterebbe dei finanziamenti a termine, a tre anni, a fronte di collaterali offerti dalle banche: una duplice condizione che ha sempre fortemente pregiudicato sia la efficacia per le imprese delle operazioni di Ltro sia la capacità delle banche di offrire a tal fine validi collaterali.

Non casualmente, l’art 7 del decreto legge Salva Italia, il primo provvedimento d’urgenza varato dal governo Monti, compì una autentica acrobazia finanziaria: le banche italiane erano autorizzate ad emettere titoli obbligazionari, su cui lo Stato forniva la propria garanzia sovrana, che sarebbero serviti alle banche stesse come collaterali necessari per ottenere la liquidità da parte della Bce. Con questa liquidità, ottenuta dalla Bce pagandola un niente, le banche si comprarono i titoli di Stato italiani che fruttavano loro ricchi interessi. Anche se lo Stato italiano incassava regolarmente il prezzo fissato per fornire alle banche la sua garanzia, queste si sistemavano alla meglio i bilanci mentre le aziende fallivano. Non è questo il meccanismo, paradossale, che ora va riprodotto.

Un ulteriore vantaggio del Qe per le Imprese risiede nel fatto che la nuova liquidità per le banche non deriva dalla necessità di smobilizzare altri asset che, in questo momento, potrebbe determinare minusvalenze rilevanti.

Sui finanziamenti bancari alle imprese, agevolati dalla nuova liquidità, ben si potrebbe appoggiare la garanzia pubblica di cui si discute, ma senza apporre scadenze di sorta. Il finanziamento dovrebbe essere commisurato in percentuale all’ultimo fatturato, ed essere concesso a tempo indeterminato, fino alla chiusura della attività, senza prevederne la restituzione a termine.

Detassare gli apporti di risparmio al capitale produttivo.

Il tanto invidiato patrimonio delle famiglie italiane, le cui attività finanziarie ammontavano nel 2018 a 4.190 miliardi di euro a fronte di passività per appena 941 miliardi, deve tornare al centro del sistema produttivo. Ma deve ritrovare la convenienza legale e fiscale per rimetterlo in moto.

È il momento di ribaltare le convenienze: occorre riportare la ricchezza delle famiglie verso gli impieghi nell’economia reale. Da troppo tempo si privilegia l’impiego finanziario, soprattutto all’estero, anziché l’investimento direttamente produttivo.

È la nostra stessa Storia che ci insegna come fare, perché è già stato fatto, assai bene e con risultati duraturi. L’Italia del Dopoguerra non fu ricostruita aumentando la spesa pubblica, né finanziandola con nuove tasse né ricorrendo al deficit, ma mobilitando il risparmio privato, silente ed inoperoso. La ricostruzione del patrimonio immobiliare, la realizzazione delle case di “civile abitazione” che ancora oggi rappresentano un fattore di enorme stabilità del nostro sistema sociale, fu agevolata fiscalmente, garantendo in cambio di quell’impiego finanziario una esenzione venticinquennale dalle imposte. Lo stesso bisogna fare oggi.

Occorre rendere fiscalmente conveniente, e soprattutto stabile nel tempo, il vantaggio derivante da ogni nuovo apporto finanziario che venga effettuato dall’imprenditore che abbia una partita Iva e dai soci dell’impresa: va disposta la completa defiscalizzazione dalle imposte sul reddito personale e di impresa, per la durata di dieci anni e per un importo pari a dieci volte gli utili, a condizione che questi siano reinvestiti e non vengano distribuiti.

Serve un meccanismo fortemente premiale, che lasci ampia libertà di scelta, ma che incentivi la destinazione delle risorse personali allo sviluppo della impresa.

Bisogna tornare a produrre. Occorre risolvere la contraddizione dell’Italia, che un po’ tutti ormai ci rimproverano: quella di essere diventata un Convento povero, abitato da Frati ricchi e tirchi. Il tempo dei rentier è finito.

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