In soli tre mesi, da gennaio a marzo, hanno chiuso 360 imprese artigiane e il coronavirus ha certamente dato una mano, ma non è stata l’unica causa.
Dopo anni di crisi ignorata, questa serrata forzata ha evidenziato la sordità verso un mondo che in Sardegna contava circa 60.000 imprese con 150.000 addetti. Gli artigiani, assieme a commercianti, agricoltori e pastori hanno rappresentato fino a qualche anno fa un comparto economico che era la spina dorsale della ricchezza sarda.
Poi una serie di traversie politiche, normative, fiscali, burocratiche hanno fatto la prima scrematura, cancellando tutta una serie di imprese individuali che non avevano il tempo a disposizione per assolvere alle centinaia di operazioni che lo scadenziario normativo impone. E così, in dieci anni, ci hanno salutato in 9.000. È un accanimento continuo verso una categoria che o lavora o compila carte per qualunque cosa, anche per respirare l’ossigeno.
Si chiude perché chi governa non capisce le difficoltà di chi opera senza struttura amministrativa e quindi deve pagare un consulente, che è diventato uno dei costi maggiori per l’azienda. Si chiude perché la pressione fiscale si porta via il 60% del reddito. Si chiude perché non esistono più le condizioni di finanziamento che farebbero respirare, ma anzi la banca non vuole proprio avere a che fare con una categoria a rischio continuo, e perciò nulla concede, se non a tassi che spesso rasentano l’usura.
E adesso il virus. Dall’oggi al domani si chiude e arrivederci a quando la scienza troverà il vaccino. Intanto tutti i pagamenti sono rimasti in essere.
Non è vero che ci sono moratorie, come annunciato in pompa magna, probabilmente saranno state vittime anch’esse della montagna burocratica richiesta. Domande su domande da compilare e inviare, con una confusione normativa e interpretativa incredibile, e che dovranno comunque attendere ulteriormente per la verifica ed approvazione della banca erogatrice.
Intanto si continuano a ricevere le telefonate dei fornitori, che giustamente vorrebbero pagate le commesse inviate, e si continuano a ricevere le disdette di lavori programmati e si sospende sine die il calendario operativo.
Date queste condizioni, per molti non ci sarà una riapertura. Chi lavora nei settori legati al mondo della scuola ad esempio non può permettersi di chiudere da marzo sino al prossimo settembre, nella migliore delle ipotesi. Migliaia di persone lavorano in pasticcerie che hanno dovuto regalare tutta la produzione della Pasqua, mentre i loro fornitori aspettano il saldo del dovuto. Pensiamo ai baristi che ancora non sanno quando riapriranno, così come migliaia di pizzaioli, ristoratori, etc. etc. Tutti i lavori pubblici e i cantieri bloccati, tutti gli stati di avanzamento-lavori bloccati, mentre gli interessi passivi erodono il già risicato margine di guadagno. E così l’elenco sarebbe lunghissimo. In questa situazione risulta difficile poter proporre qualcosa per la riapertura, perché in realtà non si capisce bene quando, e soprattutto come, si riaprirà.
Ma riaprire non è automaticamente sinonimo di continuità lavorativa. Riaprire vuol dire soltanto sollevare la serranda e poi aspettare che la gente riappaia, ma per riavviare l’attività bisognerebbe far ripartire i consumi, variabile economica fondamentale per un artigiano, che non è né lavoratore dipendente né lavoratore pubblico.
Pensiamo al settore turistico. Quanti operatori possono permettersi l’attesa di un anno di fermata? Un blocco così lungo spazzerebbe via migliaia di piccole imprese. Ma legati al turismo non ci sono solo ristoranti e gelaterie. Un dato per capirci: 8000 diportisti hanno già disdetto il posto barca. I 32 porti turistici stanno per dichiarare fallimento, se non ci saranno interventi normativi in materia di accise, demanio, tasse comunali, etc. Quindi, a rischio motoristi nautici, rimessaggio, operatori portuali, skipper, e a catena tutte le categorie che hanno a che fare con la cambusa. Sono solo piccoli esempi per capire cosa sta per succedere il 4 Maggio alla possibile riapertura.
Andrà tutto bene?
Noi vorremmo che le aziende del comparto di cui parliamo, aziende sempre più in difficoltà per effetto di leggi fatte a misura delle grandi imprese e delle multinazionali, continuassero ad essere la spina dorsale del mondo del lavoro sardo. Condividendo il grido di allarme espresso in più occasioni sulla stampa dai rappresentati dei diversi settori rivendichiamo per gli stessi, data la forte, diffusa e radicata presenza nell’intera isola, interventi strutturali attesi da anni, non legati solo all’emergenza.
Vogliamo lasciarci alle spalle scelte economiche sbagliate, che hanno prodotto quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, spopolamento, disoccupazione, inquinamento ed assistenzialismo.
L’artigianato è certamente uno dei settori fondamentali per un nuovo sviluppo che tenga conto delle nostre peculiarità culturali, attitudini, esperienze secolari, ed è per noi un presupposto indispensabile e da difendere strenuamente per garantire un’economia di prosperità e benessere per tutti i Sardi.
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