Sono tre i volti con cui si è palesato, in Italia, il processo di adozione sistematica della didattica a distanza nel contesto scolastico:
1) obbligo morale e pedagogico, resosi evidente al primo manifestarsi dell’emergenza sanitaria;
2) questione metodologica e organizzativa, nella fase attuale, quando è ormai chiaro che le scuole non torneranno ad accogliere gli studenti prima dell’autunno prossimo;
3) complesso tema politico, da sviluppare adeguatamente quando il sequestro emozionale, che ha travolto i principali protagonisti dell’attuale dibattito pseudo-pedagogico, avrà restituito la lucidità necessaria per ponderare situazioni nuove e di difficile lettura.
1. L’emergenza educativa
Il fenomeno Covid-19 è globale, colpisce tutti. Ma in qualche luogo sta picchiando più duramente che altrove. Ad esempio in Italia. Le nostre consolidate strutture sociali sono state e sono tuttora travolte da eventi drammatici, tali da decimare interi gruppi familiari, da lasciar precipitare molti esseri umani nell’angoscia della morte o della solitudine, alimentando sentimenti di disperazione per fallimenti economici o frustrazioni legate a progetti appena avviati e già dissolti.
Una cultura popolare surrettiziamente illusa dall’infinita possibilità di perpetuare condizioni di benessere, narcisismo, salute e giovinezza (nonostante il costante richiamo al risveglio da parte delle condizioni reali), si crogiolava nella convinzione della facile sconfitta del negativo.
Occultato e respinto, nella forma di pericolo da allontanare dai nostri confini, o di incidenti agevolmente arginabili dalla tecno-scienza, quel negativo ha sorpreso tutti, esibendo la propria presenza attraverso l’erosione dei nostri corpi.
In una sola volta, il flusso informativo si è piegato al virus. Programmi di informazione e intrattenimento hanno istintivamente messo in campo una strategia collaudata dal sistema: inglobare per neutralizzare.
Ma in questo caso la tattica funziona solo a metà: la ridefinizione immediata della comunicazione pubblicitaria e informativa non può nulla contro il Covid-19, sebbene possa ben gestire e monitorare quel che forse più conta, cioè la lettura sociale ed emozionale del fatto biologico, entro il dato sociologico.
E allora teniamo sempre presente, in questo quadro, che l’intero immaginario collettivo è stato mobilitato per una reazione comune al virus, per generare una risposta comportamentale adeguata. Si è generato un clima, ed è un clima forse necessario. Ma che pure va compreso, perché è diventato il nuovo mondo, l’orizzonte attuale in cui ci stiamo muovendo e – ci piaccia o meno – ci costringe a prenderne atto.
Medici e infermieri, volontari della protezione civile e tante altre figure professionali obbligate dalle circostanze a svolgere il proprio servizio in situazioni di rischio, hanno pagato e stanno pagando un prezzo molto alto. Ma gran parte di essi non si è tirata indietro. In tutto il mondo ricevono per questo un dovuto plauso e riconoscimento.
Al resto della popolazione è stato chiesto invece di rimanere in isolamento, per scongiurare il contagio. Chi può, lavora da casa, grazie a quanto concesso dalle tecnologie digitali.
Ma in quel “resto”, si badi bene, ci sono anche bambini e adolescenti, del cui tempo vissuto in isolamento, mi pare si sia parlato ancora troppo poco. Nelle prime due settimane di marzo nessuno era in grado di prevedere con adeguata certezza la durata delle misure di contenimento. Ma una cosa è stata subito chiara: non sarebbe stata una breve parentesi. Purtroppo.
Se c’è una cosa che gli insegnanti colgono intuitivamente, e che forse sfugge agli intellettuali estranei alla quotidiana prossimità con i minori, è il grave rischio emotivo, cognitivo e sociale, a cui sono stati improvvisamente esposti tutti i bambini e i ragazzi, con l’interruzione della frequenza scolastica. Tutti, non soltanto i cosiddetti “marginali”, ma anche i più motivati e i più abbienti.
Perché l’isolamento in famiglia, non preparato, in congiunture critiche, e per giunta in concomitanza con una fase di crescita e maturazione personale, è sempre traumatico, e lo è per chiunque, a prescindere dall’estrazione sociale.
Naturalmente, però, nei casi di svantaggio sociale medio o acuto, l’improvvisa interruzione della frequenza scolastica può scatenare effetti molto gravi sul percorso formativo dello studente. E tale consapevolezza è stata amplificata dal fondato sospetto, coltivato da numerosi osservatori fin dai primi giorni, che la sospensione della frequenza non sarebbe stata breve (oggi possiamo calcolare un arco temporale minimo di almeno sei mesi senza scuola in presenza – da marzo a settembre – ed è una stima ottimistica).
Cominciarono a imporsi le prime domande: che fare? Rischiare che migliaia di bambini e adolescenti trascorressero intere giornate a soffrire le frustrazioni degli adulti? Che si adeguassero a un nocivo alternarsi di sonno, TikTok e Playstation?
Certamente non sarebbe stato questo il precipitato empirico del loro tempo liberato, non in tutte le case, almeno. In qualche appartamento i genitori avrebbero compreso subito che i propri figli, privati dell’impegno scolastico, avrebbero rischiato un analfabetismo di ritorno, con tutte le implicazioni motivazionali che ne derivano.
Questi genitori avrebbero certamente fatto uno sforzo personale – nonostante gli impegni legati allo smart-working o alle preoccupazioni per i propri anziani – per accompagnare i figli nella lettura, in laboratori creativi in cucina o in garage; avrebbero insegnato loro una lingua straniera o l’uso di un’applicazione digitale.
Ma, onestamente, in quante famiglie ciò sarebbe stato realmente possibile? Certamente non in quelle nelle quali i genitori sono costretti a recarsi al lavoro, nonostante il lockdown, né in quelle con prole numerosa ed eterogeneità anagrafica, né in quei territori devastati dal lutto o dalla disoccupazione.
Probabilmente, nulla di tutto ciò sarebbe potuto accadere con genitori a loro volta privi dell’adeguato livello di istruzione, per condurre i propri figli in attività formative adeguate ai livelli raggiunti nei diversi percorsi scolastici.
La questione del digital divide, è pregnante, e ci torneremo prossimamente, anche perché i dati ISTAT agitati a destra e sinistra per denunciare le inadempienze del governo vanno interrogati con maggiore cautela. Non scopriamo ora le differenze di classe nel nostro Paese, che erano già sufficientemente evidenti nel diverso accompagnamento allo studio che caratterizzava le ore della giornata non trascorse tra i banchi.
Una sola cosa poteva risultare evidente a gran parte degli insegnanti, fin dal 5 marzo: in qualche modo bisognava partire. Anzi: continuare. E là dove la connessione era debole e i mezzi scarsi si è lavorato con i libri, con il telefono, con il registro elettronico. Certamente qualcosa si è mosso, nello sforzo di raggiungere tutti. Un collega di Trento mi ha raccontato la perizia con cui ha spontaneamente trascorso intere giornate al telefono per rincorrere ogni singolo allievo, con tutte le difficoltà incontrate in casi di nomadismo o di recente immigrazione.
Ed è stata proprio questa coscienza democratica, fondata su un forte sentimento del valore attribuito alla scuola dalla nostra Costituzione, che ha spinto centinaia di migliaia di insegnanti ad auto-organizzarsi, senza attendere il Ministero o i propri dirigenti scolastici (in certi casi propositivi, talvolta iper-ansiosi, talaltra evanescenti), hanno cercato di mantenere aperti dei canali di comunicazione e lavoro con i propri allievi.
Eh sì, comunicazione senz’altro, ma anche lavoro, perché la cultura e la formazione vanno avanti persino sotto i bombardamenti. Gli insegnanti coltivano relazioni comunicative forti con i propri studenti, ma possono e devono farlo solo attraverso la formula dell’insegnamento; ogni altro tipo di posizione comunicativa è fuori luogo, inappropriata, non legittima.
Dopo neanche dieci giorni dalla sospensione delle attività didattiche, in Rete e sulle chat ha cominciato a circolare un’esortazione di Daniela Lucangeli, autorevole docente di Psicologia dell’Educazione e dello Sviluppo dell’Università di Padova, con vibratissime raccomandazioni (non è chiaro chi fosse esattamente il destinatario di tali premure, se non un ormai desueto e insopportabile stereotipo di docente): “Gli insegnanti smettano di trattare gli alunni come contenitori vuoti da riempire con schede, compiti, messaggi e materiali fino tarda sera. Anziché affannarsi e consumarsi nella ricerca di piattaforme e slide dagli effetti strabilianti, tornino a concentrarsi sulla loro funzione primaria che è quella di aiutare, sostenere e accompagnare i bambini e i ragazzi nel loro percorso di sviluppo personale”.
Quel “tornino a concentrarsi” sembra presupporre, sulla base di solidi dati scientifici a me non noti, che attualmente gli insegnanti, per pigrizia o ignoranza, si siano allontanati dalla loro “funzione primaria”.
Poco oltre si ammorbidisce il tono, ricorrendo a un dolce richiamo: “in ogni istante della vostra azione educativa voi state lasciando un segno in una persona che sta costruendo non soltanto un bagaglio di nozioni e procedure, ma il proprio sé, la propria intelligenza, la struttura del suo pensiero, l’organizzazione del suo sentire e la percezione del proprio talento”.
Si potrebbe indugiare in una lunga ermeneutica di questa affermazione, ma è sempre bene ricordare – a scanso di equivoci – che gli insegnanti devono certamente avere competenze in psicologia, ma non sono e non devono pretendere di essere psicologi. E attenzione! Vale anche la reciproca.
Nell’immediato, comprensibilmente e prevedibilmente, alcune reazioni mi sono parse prive di compostezza. L’entusiasmo dimostrato dall’ANP (l’associazione nazionale dei dirigenti scolastici) nelle conclusioni di un suo comunicato, e da alcuni gruppi di docenti-formatori da anni impegnati nel progetto di colonizzazione digitale del processo educativo, con una discutibile scelta di stile, visto il quadro tragico in cui la didattica a distanza si è resa necessaria, hanno iniziato a sfregarsi le mani nell’auspicio di una scuola che “finalmente” avrebbe imboccato la strada del cambiamento.
Non meno incauta, tuttavia, è stata la reazione di quanti hanno insistito, con un tempismo probabilmente impreciso – vista la drammaticità del momento – sulla non-obbligatorietà (per gli studenti, come per gli insegnanti) della prosecuzione di attività scolastiche a distanza.
In tal caso sono state alimentate preoccupazioni in merito alla tutela della privacy, condite con echi di luddismo, nell’idea reiterata di un rischio di sostituzione del lavoro umano con la fredda mediazione della macchina, al servizio delle potenti multinazionali e dei grandi gruppi editoriali.
Per carità, sono rischi che esistono, e anche quelle sulla privacy sono preoccupazioni fondate. Se ne dovrà tenere conto e bisognerà farsi trovare pronti. Ma prima di reagire con veemenza, data la particolarità del momento, occorreva forse maggiore cautela nei toni e nell’approccio.
Quindi, la reazione congiunta e anticipatrice di gran parte degli insegnanti ha dimostrato l’esistenza di una sensibilità che molti supponevano scomparsa. Alcuni giornali ne hanno disegnato la caricatura, stigmatizzando la mediocre ansia da completamento del programma dei docenti italiani (senza sapere che l’istituto del “programma ministeriale” è stato superato da anni).
E invece no. Senso dello Stato e della comunità, bisogno interiore di contribuire allo sforzo collettivo in un momento di inciampo, sensibilità pedagogica e orgoglio professionale, hanno fatto sì che una massa imponente di dipendenti dello Stato, spesso ridicolizzati dalle cronache, senza attendere indicazioni precise (che poi, come tali, non sono mai arrivate) hanno iniziato a lavorare in modo nuovo, facendo squadra attraverso improvvisati team di lavoro su WhatsApp, formandosi reciprocamente sulle tecnologie digitali e certamente commettendo alcuni errori iniziali, talvolta sovraccaricando di oneri didattici le famiglie o gestendo in modo maldestro le piattaforme Web. Ma la reazione c’è stata.
Facile osservare che gli insegnanti sono pagati per insegnare, e hanno fatto solo il loro dovere. Vero e non vero. Nel comune risentimento di parte della società e anche di alcuni settori interni al mondo della scuola nei confronti dell’invidiabile posizione di libertà intellettuale di cui ancora godono i docenti, si è pensato di accomunare la funzione educativa a una qualsiasi forma di smart-working.
Tuttavia, come ha correttamente osservato Anna Angelucci, in un suo approfondimento pubblicato su Roars, in nessun modo è possibile ricondurre la funzione docente alla figura contrattuale del lavoro agile, né per ragioni semantiche, né giuridiche.
Si deve sottolineare che se la macchina educativa si è mossa, è stato fatto senza adeguati mezzi, senza una specifica formazione, senza alcun tipo di tutela o cornice giuridica sulla correttezza di ciò che ci si predisponeva a fare. E senza indicazioni chiare, questo è evidente anche a un cieco.
Un rischio che, con in mano un decreto di “sospensione delle attività didattiche”, non è così naturale assumersi, soprattutto quando si ha a che fare con dei minori. Ma la macchina è partita, e salvo qualche contraccolpo, sta procedendo discretamente.
La didattica a distanza in Italia è dunque diventata fenomeno di massa in circostanze avverse, e non è stata scelta per intrinseche qualità metodologiche. Non è stata affatto una scelta. La didattica a distanza è stata avviata sulla spinta di una forte consapevolezza pedagogica, sollecitata dall’emergenza sanitaria. Quella educativa possiamo definirla un’emergenza di secondo grado, sopravvenuta in conseguenza della prima.
Ma la “scuola senza la scuola”, è ancora tutta da strutturare. Finora abbiamo improvvisato; adesso è il momento di studiare (senza riciclare format pensati per altri contesti e altri momenti), di creare e soprattutto è il momento di normare.
Siamo entrati in una seconda fase, anche grazie a quell’impulso iniziale, e ci siamo entrati con una maggiore dose di consapevolezza, quanto mai necessaria per una corretta messa a punto dei diritti, delle regole e delle finalità di ciò che stiamo facendo, dal momento che il dato cruciale si è ormai quasi consolidato: per quest’anno la scuola – quella in presenza – è finita.
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