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19/04/2020

Smart working. Opportunità o ulteriore subalternità dei lavoratori?

Con l’emergenza coronavirus, nel nostro paese c’è stata una impennata del ricorso allo smart working con il 72% delle aziende che vi ha fatto ricorso per permettere ai propri dipendenti di proseguire il lavoro da remoto.

Come risulta da alcune inchieste uscite in questi giorni, i lavoratori italiani in smart working sono il 15% della forza lavoro. Ad oggi, il 56% delle aziende che hanno attivato lo smart working dichiara di averlo utilizzato per la prima volta, mentre il 29% l’ha esteso a più dipendenti o su più giorni rispetto al passato.

Il 79% dei lavoratori invece afferma di averlo fatto per la prima volta, per il 14,5% sono solo cambiate le modalità di fruizione, mentre per il 6,5% non c’è stato alcun cambiamento rispetto a prima.

Ma quali sono le difficoltà che stanno incontrando le aziende che sono ricorse allo smart working? Il 64,5% delle aziende dichiara che i dipendenti hanno apprezzato questa decisione. Le difficoltà comunque non mancano e il 19% delle aziende sostiene che il lavoro da remoto non stia funzionando, a causa della struttura o delle caratteristiche della propria attività che non consentono di applicarlo.

Per le aziende le maggiori criticità sono legate soprattutto a problemi di tipo organizzativo per mancanza di supervisione e controllo sul lavoro del personale (lo indica il 44%), mentre il 42% segnala problemi che si possono definire “relazionali” perché manca il confronto quotidiano e il lavorare fianco a fianco. Solo il 14% delle aziende dichiara problemi legati alla tecnologia, rilevante soprattutto per quelle aziende che hanno risposto all’emergenza ma non erano preparate a gestirla per il livello di strumenti e competenze interne.

Ma questo è il punto di vista delle aziende e continuiamo a pensare che sia errato farlo coincidere con quello dei dipendenti. Cosa ne pensano invece i lavoratori? Solo il 27% dei lavoratori intervistati apprezza esplicitamente lo smart working come modalità di lavoro, il 38% dei lavoratori si è detto fortunato di aver poter evitare gli spostamenti in questa fase di emergenza pandemica. Il 7% dice di essere meno produttivo soprattutto a causa degli impegni familiari da gestire in contemporanea con il lavoro, una percentuale che sale al 33% per le donne con figli conviventi.

E una volta finita l’emergenza?

Per il 30% delle aziende non ci saranno cambiamenti delle modalità di lavoro rispetto all’attività pre-COVID-19, mentre il 28% dovrà valutare gli sviluppi legislativi per implementare a regime lo smart working e il 24% lo abiliterà ma solo per una parte dei dipendenti.

Anche su questo i lavoratori valutano con altri criteri. Il 71% dei lavoratori vorrebbe il lavoro da remoto ma solo 1 o 2 giorni a settimana, mentre solo il 16% auspica di lavorarci a tempo pieno. Per il 13% invece è meglio lavorare in ufficio.

Tra i problemi indicati dai lavoratori impegnati nello smart working, c’è la difficoltà di ritagliarsi il tempo necessario per dedicarsi alle attività personali: il lavoro rischia di diventare totalizzante nella gestione della propria quotidianità. Per questo il 23% degli intervistati ha dichiarato di “non riuscire a staccare mai dal lavoro”, il 5% fa fatica ad organizzare il proprio tempo e il 7% trova complesso gestire e pianificare il lavoro. Un altro dei problemi indicati è la relativa capacità di connettività delle abitazioni e delle procedure di accesso ai server delle amministrazioni pubbliche: durante il lockdown, non tutte le connessioni si sono rivelate in grado di reggere un numero cospicuo di dispositivi collegati.

Uno dei problemi che balza immediatamente agli occhi – anche sulla base di dati empirici – è che il lavoro da remoto senza una ferrea regolamentazione porterebbe ad un allungamento fattuale della giornata lavorativa. Finora era normato dalla Legge 81/2017, ma dopo il boom verificatosi in queste settimane a causa della pandemia di coronavirus, quella che era una modalità lavorativa “di nicchia” si estenderà considerevolmente all’insegna di quella che ormai viene definita la “Shut In economy“.

E i rischi che si presentano possono aumentare. Uno di questi, facilmente verificabile, sono le difficoltà di connessione nelle ore di punta e la pressione aziendale sulla soluzione dei problemi, che portano molte lavoratrici e lavoratori a tentare di risolvere nelle ore serali o meno congestionate i problemi non risolti durante l’orario di lavoro previsto e normato. Inoltre viene resa risibile la separazione tra tempo di lavoro e tempo liberato dal lavoro.

Insomma il lavoro da remoto offre delle opportunità ma rischia anche di aumentare esponenzialmente il livello di subalternità di lavoratrici e lavoratori agli interessi aziendali. Il che non è mai una buona cosa.

Fonti: Infojobs, Politecnico di Milano, Sole 24 Ore

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