Da quel momento in poi, 6 inviati Onu (l’ultimo dimissionario a inizio aprile, il libanese Ghassan Salamé), embarghi, risoluzioni per i controlli degli spazi aerei e marittimi si sono alternati, senza mai di fatto riuscire a convogliare verso il dialogo gli “spiriti animali” sprigionati dalla guerra al Rais.
Né tanto meno ci sono riusciti, stando alle notizie degli ultimi giorni, la Conferenza di Berlino, il pericolo dell’estensione dei contagi da coronavirus e le imminenti commemorazioni del Ramadam, che per quest’anno entra in vigore proprio il 24 aprile.
Una settimana fa infatti il Governo di accordo nazionale (Gna) guidato Fayez al Serraj, quello riconosciuto dalla “comunità internazionale”, ha inaugurato la prima controffensiva dallo scorso giugno (quando aveva riconquistato la città di Garian) sul fronte occidentale, con l’obiettivo di allargare l’aera di controllo intorno alla capitale Tripoli e costituire un blocco che si estenda fino ai confini della Tunisia, riuscendo a infliggere la peggiore sconfitta all’“uomo forte della Cirenaica” dall’inizio della campagna.
Giovedì 23 Sarraj ha infatti incontrato il parigrado tunisino Kasi Saied per «migliorare le relazioni bilaterali – i gruppi armati berberi pro-Gna controllano tutti i valichi di terra con la Tunisia, come quello di Ras Jedir e di Wazzin-Dehiba (Agenzia NOVA) – e per coordinare gli sforzi nei due paesi per affrontare la pandemia di coronavirus».
La riconquista delle città costiere nordoccidentali sta inoltre permettendo a molti lavoratori tunisini che si trovavano in territorio libico di rientrare in patria in vista dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, la continuazione del conflitto segna l’inefficacia di qualsiasi sforzo diplomatico messo in campo negli ultimi e negli ultimissimi tempi.
Il “cessate il fuoco” è rimasta parola muta su carta, le due parti hanno continuato a ricevere materiale bellico via terra, mare e cielo, in particolare partite di droni, di provenienza emiratina per il Generale Haftar, turca per Tripoli (Ispi).
La Conferenza di Berlino di fine gennaio scorso sembra aver permesso nient’altro che la riorganizzazione delle forze di Serraj, in pieno sbandamento dinanzi l’avanzata del Generale al momento della sua convocazione, ma nulla delle promesse di pace sono fino a oggi divenute realtà.
E forse difficilmente poteva essere il contrario, in una Conferenza presieduta da tutti gli attori “esterni” (ma non per questo meno interessati) al conflitto, che non è pero riuscita a riunire in uno stesso tavolo i diretti contendenti.
Il fallimento della Conferenza fa il paio con quello dei sogni di “grandezza geopolitica” dell’Unione europea, un’accozzaglia di interessi nazionali (oltre che di classe) ben delineati nei Trattati che la costituiscono, impegnata inoltre in questi giorni nel difficile fronte interno a seguito delle misure asimmetriche messe in campo per contrastare la pandemia, che non può giocare un ruolo significativo in assenza di una strategia unitaria da mettere sul piatto.
Ma fa il paio anche con quello dell’Onu. Le Nazioni unite sono all’ennesimo fallimento, come in Siria e in Yemen, solo per citare gli ultimi. In Libia ci siano in circolazione 20 milioni di armi, a fronte di una popolazione di 6 milioni di abitanti, una parte sì figlia dell’arsenale di Gheddafi saccheggiato dalle milizie, ma un’altra ben corposa conseguente all’impossibilità di fermare il rifornimento della fazioni in campo.
«In coincidenza dell’avvio del Ramadan, il mese sacro per le comunità islamiche di tutto il mondo, l’Italia sostiene con convinzione l’appello lanciato dalla rappresentante speciale aggiunta del segretario generale delle Nazioni Unite, Stephanie Williams, per una tregua umanitaria in Libia», recita la nota della Farnesina rilasciata la mattina del 24 aprile.
Nelle file della diplomazia italiana, e non solo, preoccupa l’escalation ideologica che sarebbe alla base del sempre maggiore investimento che gli Emirati arabi uniti stanno attuando, di concerto con l’Egitto – e secondo l’organo d’informazione “Middle east eye” col sostegno anche del Mossad – sul Generale Haftar, per sconfiggere le organizzazioni islamiste che sostengono il debole governo di Tripoli, a cui invece il supporto dei turcomanni inviati da Ankara è ripagato con l’unificazione delle Zone economiche esclusive marittime a nord di Tripoli, ricca di risorse e crocevia commerciale decisivo nel collegamento tra l’Asia e il Vecchio continente.
Le pressioni emiratine ed egiziane sono riuscite inoltre a far rigettare via Stati Uniti la candidatura dell’ex ministro degli esteri algerino, nonché inviato di pace per l’Unione africana, Ramtane Lamamra, considerato troppo vicino ai desiderata di Tripoli.
Ragioni ideologiche dunque, in sostegno alle sempre presenti motivazioni commerciali – oltre alle già citate, ricordiamo anche i ricchi giacimenti petroliferi sotto il controllo attuale del Generale, che peraltro continua il blocco delle esportazioni del petrolio libico – quadro che non fa ben sperare per una risoluzione pacifica del conflitto.
Neanche in tempi di pandemia e di Ramadam.
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