[Nell'immagine, il grigio è il lavoro vivo] |
È un dato di fatto che le piattaforme di e-commerce – Amazon su tutte – sono state investite da un clamoroso aumento della domanda, da parte di milioni di consumatori costretti al “distanziamento sociale”, fenomeno che ha favorito la sostituzione delle relazioni materiali con le relazioni telematiche, fisicamente asettiche ma commercialmente profittevoli. La moltiplicazione geometrica dei servizi online, siano essi di chat e videochiamata, di socializzazione virtuale, di acquisto e consegna a domicilio, sta comportando non solo un ulteriore accrescimento del ruolo monopolistico di Amazon, ma anche un rafforzamento generale delle reti della logistica e delle società di intermediazione commerciale just in time (consegna di prodotti a domicilio, dai pasti ai libri). Quelle che già esistono si rafforzano, altre nasceranno per colmare un eccesso improvviso di domanda.
Dentro tale dinamica, si inseriscono i caratteri della famigerata “fase due” che, come la si voglia chiamare, riguarderà tutti i paesi toccati dal virus. Alla base di ogni “ripartenza” rimarrà il distanziamento come fattore di precauzione, e questo almeno in attesa del vaccino che, come abbiamo ormai capito, non verrà commercializzato prima della primavera 2021. Tra un anno dunque. Ma i cambiamenti, le sperimentazioni e le trasformazioni introdotte in questo anno non è detto che una volta arrivato il vaccino scompariranno. Il capitalismo non conosce il concetto di “tornare indietro”, perché è la stessa evoluzione delle relazioni sociali-produttive a non consentirlo. Una “novità”, una volta introdotta, può essere superata solo in presenza di una ulteriore “novità”. Così come le difficoltà del modello urbano del “centro commerciale” di grande capienza avverrà (ma sta già avvenendo da qualche tempo) in nome dell’e-commerce e del just in time, e non in nome della bottega di quartiere, così l’esplosione del commercio online non verrà scalfita da improbabili ritorni al “piccolo è bello”.
Questo fattore, anzi, questa sequenza interconnessa di fattori, non potrà che mutare in profondità il paesaggio economico-commerciale dei nostri territori. Pensiamo alla città e ai suoi quartieri colmi di attività commerciali: quante sopravvivranno tali e quali nella “fase due” e oltre? Come sopravvivrà un bar, un ristorante, un negozio di vestiti, un pub, una cartoleria o una paninoteca, una caffetteria o un cinema, se il distanziamento obbligatorio si tradurrà in una drastica diminuzione della clientela? Se per entrare in libreria la gente sarà disposta a sopportare qualche minuto di fila – il che è tutto da vedere – sarà uguale se quella stessa gente vorrà prendersi un caffè al bar?
La soluzione, d’altronde già in essere, è l’intermediazione di società private terze, a cui appaltare la consegna a domicilio di quei beni che una volta si sarebbero acquistati in negozio: non solo il sushi d a portar via, ma anche la spesa al supermercato; non solo il libro introvabile acquistato su Ebay o Amazon, ma qualsiasi libro; non solo il paio di Nike col 30% di sconto, ma qualsiasi capo d’abbigliamento, e senza sconto. La convenienza sarà saltare la fila, guadagnare tempo. Le gerarchie selettive mutano, ed è dentro queste che si gioca la partita delle innovazioni capitalistiche e delle resistenze operaie.
Questo, forse, non determinerà una automatica o immediata chiusura delle attività, ma sicuramente una loro riconversione parziale. La consegna a domicilio, da aggiuntiva, diverrà centrale, l’asse attorno a cui ruoterà la capacità di profitto dell’imprenditore. Tutto ciò non potrà non determinare una centralità delle società che intermediano tra produttore e acquirente. Società che si trasformeranno sempre più da intermediatori in produttori diretti, vista la capacità d’investimento nel frattempo accumulata.
Tutto ciò potrebbe non essere per forza di cose “un male”. Dipende da come si intende la vicenda nel suo complesso e dalla nostra azione politica e sindacale. Ad esempio nel mondo della cosiddetta gig economy.
Oggi il mondo dei rider è caratterizzato da una bassa sindacalizzazione, seppure in crescita. Un livello di conflittualità ancora scarso determinato non solo dai ricatti aziendali e contrattuali a cui sono legati i lavoratori, ma anche dalla composizione sociale di questi stessi lavoratori. Ovviamente, come in ogni attività economica, c’è tutto lo spettro delle relazioni sociali subordinate. Eppure i rider hanno una composizione sociale caratteristica: da un lato sono per lo più giovani studenti, che intendono il proprio lavoro come momentaneo, e volto ad arrotondare una condizione reddituale diversificata; dall’altra sono migranti, dall’altissima ricattabilità sociale e quindi dalla scarsa – ma in crescita – disponibilità alla sindacalizzazione. Il cottimo a cui è legato il rapporto di lavoro è sì strumento di sfruttamento, ma non riconosciuto come tale dalla maggior parte di una composizione che accetta lo scambio tra minori garanzie e maggiori guadagni. Le trasformazioni dell’offerta capitalistica potrebbero però cambiare l’attuale scenario.
La necessità, da parte delle aziende in questione e delle altre che nasceranno e si affermeranno, di sostenere un volume di ordini notevolmente superiore, imporrà loro di servirsi di una manodopera dequalificata e a basso costo che è poi il segreto della profittabilità di queste stesse aziende. Senza lavoro vivo e ripetitivo, nessuna valorizzazione. Ecco perché a un aumento degli ordini corrisponderà un aumento di lavoro: la digitalizzazione è un processo inarrestabile... salvo arrestarsi all’ultimo miglio, quello del lavoro manuale a basso valore aggiunto. Un lavoro che a quel punto non riguarderà più solo una platea ridotta e caratteristica, ma si generalizzerà, comprendendo tutti quei lavoratori fino ad oggi esclusi per diverse ragioni (la prima delle quali è che, come il raccoglitore di pomodori nel meridione, nessuno vuole davvero fare il rider, mansione che si lascia ai migranti “che ci rubano il lavoro”). La figura del rider, da avanguardia neo-servile attorno a cui sperimentare nuovi strumenti di controllo e produttività, potrebbe diventare una condizione generalizzata, completamente socializzata e sussunta dentro le normali relazioni lavorative.
Come detto, questo è un male. Ma anche un’opportunità di lotta. La scomparsa o riduzione di un paesaggio sociale urbano di bottegari e piccoli imprenditori e una loro “salarizzazione” in grandi aziende pienamente globalizzate non potrà non provocare un cambiamento anche nei rapporti di lavoro, nella loro disponibilità alla mobilitazione e alla sindacalizzazione. Tutto, ovviamente, “in potenza”: niente è dato in automatico, e nell’immediato non potrà che esserci un peggioramento generalizzato tanto delle condizioni di vita di chi lavora quanto di quelle di chi vive in quartieri che saranno ancor più gentrificati ed espropriati dal commercio locale, sostituito da un commercio transnazionale con opportune appendici locali. Ci si immaginava in un futuro à la Io, Robot, e invece stiamo ancora al Tallone di ferro di Jack London. Ovviamente un Jack London che, nel frattempo, ha visto Black Mirror, perché il nodo è sfruttamento + disciplinamento sociale.
Però, ci sembra, è dentro questo quadro – determinato dalla riorganizzazione della grande impresa monopolistica – che occorrerà ragionare e lottare. Un quadro che socializza la connessione tra online e just in time e la traduce in nuove forme di deprivazione tanto lavorativa quanto territoriale e abitativa. Hic rodus, hic salta.
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