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24/04/2020

La guerra mondiale del petrolio, tra geopolitica e finanziarizzazione

Le misure per contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19 in Cina – maggiore consumatore mondiale – hanno causato da gennaio una notevole contrazione della domanda petrolifera. Questo ha portato alla precipitazione delle relazioni tra i maggiori produttori mondiali che siedono nel cartello allargato OPEC PLUS in merito a come affrontare la situazione.

In particolare lo scontro tra Arabia Saudita e Russia ha provocato in un primo momento la fine della governance del mercato petrolifero che teneva dal 2016. La guerra dei prezzi è iniziata proprio quando la pandemia cominciava a mietere le sue vittime al di fuori della Cina, diventando un ennesimo fattore di criticità e facendo precipitare il confronto geo-politico.

Si è venuta a creare una situazione che non si ripeteva dagli anni '30 del secolo scorso: una straordinaria eccedenza di produzione rispetto alla domanda e prezzi quindi al ribasso, con l’Arabia Saudita disposta ad inondare il mercato con il proprio greggio a prezzi stracciati, mentre il petrolio di scisto veniva quotato molto al di sotto del suo valore di produzione.

Di questo conflitto ne hanno fatto le spese in particolare gli Stati Uniti (da poco tornati primo produttore mondiale) e i Paesi membri del cartello petrolifero allargato – come Algeria, Angola e Nigeria per l’Africa alle prese loro stessi con la pandemia – così come anche i paesi membri dell’OPEC Plus al centro della politica di sanzioni statunitense, tra cui Iran e Venezuela, oltre a Messico e Iraq per cui la rendita petrolifera è una parte rilevante della propria economia.

Questa corsa verso il baratro sembrava si fosse arrestata, della prima metà d’aprile, con il più consistente accordo di tagli alla produzione petrolifera nella storia mondiale. Questo era stato raggiunto prima in sede OPEC Plus (a parte il Messico) e poi “suggellato” nel G20 dell’Energia. Era stato deciso un taglio per i mesi successivi di un decimo della produzione globale “a scalare” per gli anni successivi a fronte di una diminuzione della domanda di un terzo, con tutti i global player che si erano “diplomaticamente” resi disponibili ad ulteriori misure.

Ma i prezzi delle due qualità di riferimento – Brent e WTI – non si sono affatto rialzati, con il primo ben sotto i 30 dollari al barile ed il secondo sotto i venti, alla fine della scorsa settimana.

Quello che sembrava quindi un successo diplomatico delle pressioni statunitensi e che aveva fatto esclamare allo stesso Donald Trump «un grande accordo per tutti», non ha sortito alcun effetto sulle quotazioni petrolifere.

Anzi, questo lunedì il mercato in cui è quotato il greggio texano ha avuto una seduta caratterizzata per lungo tempo da “prezzi negativi” e nei giorni successivi questa dinamica ribassista ha riguardato in parte anche il Brent.

Ma la volatilità del prezzo è dovuta anche alla finanziarizzazione dell’industria petrolifera, un fenomeno con cui la stessa OPEC, alcuni anni fa, aveva tentato di fare i conti, passando dalle dure critiche agli speculatori degli anni precedenti agli incontri in pompa magna con i vertici degli Hedge fund del settore.

Infatti ai nostri giorni il petrolio è soprattutto un prodotto finanziario, e come tale è soggetto alle oscillazioni derivanti dalla speculazione. È proprio per lo scollamento dalla realtà economica degli strumenti finanziari utilizzati che ci siamo trovati di fronte all’assurdo economico dei “prezzi negativi”.

Insomma, il combinato disposto delle tensioni derivanti dalla sempre più aspra competizione internazionale fra macro-blocchi e dalla contraddizione fra finanziarizzazione e fondamentali economici, unito all’innesto del “cigno nero” del coronavirus, sta generando scombussolamenti senza precedenti in un mercato dal forte valore simbolico.

Questo avrà certamente pesanti ripercussioni, pur con magnitudini diverse, sulle economie di tutti gli attori internazionali in gioco: un ulteriore elemento della profonda crisi sistemica che stiamo attraversando.

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