Sfugge purtroppo a molti – anche a tanti compagni che professano amore per la cultura e per l’arte – il dramma di un intero comparto produttivo del sistema Italia che, nel corso di questa crisi, rischia di passare completamente sotto traccia. E, nella quasi completa e colpevole indifferenza dei media e della politica, di naufragare e scomparire nella maggior parte delle sue piccole realtà.
Realtà che ci piacerebbe chiamare di base, per la loro stessa configurazione di entità artistiche indipendenti e fuori dal sistema della grande produzione e distribuzione.
Si tratta, in poche parole, del comparto legato alla creatività e alla cultura; ovvero, principalmente, allo spettacolo dal vivo e alle arti della scena.
A quel Teatro che, fin dai tempi del Carro di Tespi (a datare dal 535 a.c. inventore della tragedia greca, con la separazione dell’attore dal coro per dare vita ad un’azione drammatica), ha accompagnato finora il cammino dell’uomo e dei suoi linguaggi espressivi.
I teatri – come del resto le sale cinematografiche – rischiano infatti di restare chiusi per quasi un anno. E, seppur i tempi si dovessero accorciare, difficile sarà riportare il pubblico in sala, superando quella paura del contagio che, fino a quando non verrà sperimentato un vaccino sicuro o una cura adeguata, persisterà, frenando qualsiasi relazione o attività che preveda vicinanza tra le persone.
Va da sé che, data la peculiarità del lavoro attoriale – tanto in campo teatrale quanto in quello cinematografico – dove la vicinanza è essenziale, non si potranno allestire spettacoli o girare film.
A meno di non voler mettere a rischio, s’intende, la salute e la vita di attori, compagnie teatrali e troupe; o a meno di non voler dare esecuzione a protocolli surreali – nel caso del cinema – nell’illusione di garantire un’asettica sterilità sui set.
Pertanto, attori, registi, drammaturghi, scenografi, costumisti, sarte, tecnici, rischiano di restare fermi per un’intera stagione o forse più. Con danni economici incalcolabili, tanto per il settore quanto per le tasche personali.
E con conseguenze sul piano culturale francamente imprevedibili, considerando la già drammatica situazione in cui versa la coscienza critica di questo paese.
Nel pieno di una simile, disperata e irreale situazione, che fa registrare, come si diceva prima, il quasi totale disinteresse dei media e della politica – con quest’ultima che promette un ridicolo bonus di 600 € una tantum ai lavoratori dello spettacolo, allo scopo di tutelarne i “diritti” – la conduttrice di Otto e mezzo, Lilli Gruber, non ha trovato di meglio che invitare Monica Guerritore in studio, ad illustrare una sua “originale”, quanto a nostro parere irricevibile, proposta. Ossia spettacoli da allestire espressamente per la messa in onda sulle reti televisive, nientepopodimeno che!
Non solo, dunque, in completa contraddizione con la natura stessa del Teatro. Ma, cosa ben più grave, marcando una differenza di “classe” tra “teatro povero” e “grandi produzioni”.
Monica Guerritore, attrice dal talento poco più che mediocre – melodrammatica, enfatica, retorica, addirittura tautologica nell’espressività emozionale che attiene ai propri personaggi – è riuscita a mostrare, in circa mezz’ora di trasmissione, un disprezzo vergognoso non solo per il Teatro, ma per la stessa categoria attoriale, cui appartiene.
La Guerritore, infatti, dall’alto della sua fama e della sua aristocratica supponenza, chiede al Primo Ministro Conte e al non troppo competente Ministro della Cultura, il Pd Dario Franceschini, di far “passare” alcuni spettacoli in televisione.
Perché l’unico luogo deputato ad ospitare il teatro, in questo tragico momento, sarebbe, per l’appunto, la Rai.
La Guerritore, con una simile affermazione, mostra certamente una profonda mancanza di senso del proprio stesso lavoro, oltre che una mancanza di sensibilità rara per una donna di teatro.
Forse sfugge a Guerritore che la particolarità del linguaggio teatrale è quella di svolgersi dal vivo.
Ha la necessità, il Teatro, di rappresentarsi qui ed ora. Il suo rito è irripetibile e mortale, come Dioniso.
Il Teatro è Eros e Tanathos. Carne, sangue, nervi, sperma, utero, merda, morte. Ogni sera.
È riflessione dell’uomo sull’uomo. Legame emotivo tra attore e spettatore. Tra palco e platea. Dialogo tra inconscio e razionalità, percezione e ragione nell’atto del suo accadere.
Comunicazione di corpi e intelligenze. Relazione immediata tra soggetti. Atto politico ed etico. Rivoluzionario nella ri/velazione della verità.
Per questo, non può darsi in televisione, se non come spot. Per questo non è Cinema. Non è, ovvero, riproducibile, pur nell’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte.
Ma la Guerritore, con la sua dichiarazione, va ben oltre l’aspetto artistico che attiene alla sua professione. Sfocia nel classismo più elitario e volgare.
Sancisce, di fatto, la netta differenza di casta che intercorre tra lo star system – prodotto dell’organizzazione neoliberista del lavoro anche nel campo delle arti e della cultura – e l’artigianato che a quegli stessi linguaggi fa riferimento.
In un momento tanto drammatico – con teatri e cinema chiusi dal marzo scorso e la cui riapertura, come dicevamo, sembra essere prevista per marzo prossimo; con attori, registi, drammaturghi e tecnici sull’orlo di un disastro economico e della disperazione esistenziale – una simile proposta suona come un sonoro ceffone e una beffa per le piccole realtà teatrali, le compagnie indipendenti e gli artisti che sono o si collocano fuori dal sistema del protagonismo mediatico.
Soltanto chi ha spettacoli pronti e gode di una certa fama potrà vedere, infatti, eventualmente rappresentati i propri allestimenti in Rai.
Soltanto le grandi produzioni, con interpreti dal nome commercialmente spendibile, e dunque attraente per il pubblico televisivo, potranno godere della visibilità che vorrà concedere mamma Rai.
Gli altri, ovviamente, continuerebbero a vivere la pandemia all’ombra dell’indifferenza generale.
Ma la Guerritore riesce ad andare addirittura oltre.
Dopo aver mostrato – ogni volta che la Gruber le restituiva la parola – una certa piaggeria nei confronti di un Governo che, tutto sommato, ha dato in questi anni il suo contributo alla distruzione dell’intero comparto spettacolo, poco interessandosene in questo delicatissimo frangente, ha addirittura fatto appello agli sponsor privati, affinché finanzino questa miserabile operazione.
E, autocelebrandosi come eroina progressista e aperta ad ogni possibilità di contaminazione, ha proposto poi sé stessa come eventuale testimonial di... uno shampoo.
Concludendo così con la definitiva umiliazione dei suoi colleghi meno fortunati.
Ai quali, a suo dire, verrebbe generosamente devoluta una parte dei piccoli ricavi che tali rappresentazioni televisive dovessero ottenere.
Insomma, una sorta di elemosina che l’aristocratica Monica farebbe agli attori più poveri e collocati più in basso, sulla scala del successo.
Una concezione mercantile, pubblicitaria, elitaria, borghese, capitalista, del Teatro, dell’Arte, della Cultura che non avremmo voluto ascoltare in questo momento.
Teatro, arte, cultura ridotti, dalla Signora Guerritore e da altri privilegiati come lei, a prodotto, merce da discount, profitto fine a sé stesso.
Con buona pace del pensiero critico!
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