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24/08/2021

Il dilemma di Jackson Hole

Il prossimo fine settimana, i banchieri centrali di tutto il mondo si incontreranno nel ridotto, causa Covid, raduno annuale a Jackson Hole, Wyoming, Stati Uniti. I banchieri ascolteranno il presidente della Fed Jay Powell e la segretaria del Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen e si immergeranno nei paper accademici commissionati a vari “economisti monetari” mainstream.

La grande questione è se è il momento per le banche centrali di ridurre i loro acquisti di titoli di Stato e addebiti progettati per pompare denaro a credito nelle economie, che avevano lo scopo di evitare un crollo delle imprese durante il rallentamento pandemico. Nel 2020 da Covid, la Federal Reserve ha fatto acquisti equivalenti all’11% del Pil degli Stati Uniti, la Banca d’Inghilterra al 14% del Pil del Regno Unito e molte altre banche del G7 a circa il 10% dei Pil nazionali.


Questi acquisti sono chiamati “quantitative easing” (Qe). Invece di abbassare i tassi d’interesse per incoraggiare i prestiti, dall’inizio della Grande Recessione nel 2008-9, le banche centrali hanno scelto di aumentare bruscamente la quantità di dollari, euro, yen e sterline pompati nel sistema bancario e finanziario. I tassi d’interesse “politici” (cioè quelli a breve termine) erano già stati spinti verso lo zero e sottozero. L’unica arma rimasta alle banche centrali per stimolare le economie era quella di “stampare” denaro, in pratica comprare titoli di Stato e obbligazioni societarie dalle istituzioni finanziarie che li detenevano e sperare che le banche prestassero quel denaro alle imprese.

Per tutta la durata della Lunga Depressione (come la chiamo io) dal 2009 al 2019, il livello delle attività delle banche centrali in queste obbligazioni è salito alle stelle. A dicembre 2019, le attività detenute dalla Federal Reserve negli Stati Uniti erano valutate al 19,3% del prodotto interno lordo dell’economia statunitense. Questo si confronta con il 39,6% per la Bce, e il 103,5% per la Banca del Giappone (novembre 2019). E le banche centrali hanno acquistato 834 milioni di dollari all’ora negli ultimi 18 mesi.

Dall’inizio della pandemia, il bilancio della Fed è più che raddoppiato a 8 trilioni (mila miliardi) di dollari. La Banca centrale europea ha un patrimonio totale di oltre 8 trilioni di euro, la Banca del Giappone ha circa 6 trilioni di dollari, mentre il Regno Unito ha raddoppiato il suo programma di Qe a 895 miliardi di sterline. Le principali banche centrali possiedono ora più di 18 trilioni di sterline in titoli di Stato e altre attività, un aumento di oltre il 50% rispetto ai livelli pre-pandemici.


Le domande che le autorità monetarie si pongono sono: se questo enorme aumento e livello di credito a) funziona per mantenere le economie in crescita; b) se è ancora necessario data la presunta ripresa delle economie con la fine della pandemia; e c) se sta aumentando il rischio di un crollo finanziario a meno che non si agisca per frenare il Qe.

La Fed sta ancora comprando 120 miliardi di dollari al mese in titoli di Stato statunitensi e titoli garantiti da ipoteca per mantenere bassi i tassi di interesse a lungo termine. Ma il dibattito è in corso tra i membri della Fed se mantenere il Qe a questo livello per assicurare la ripresa o se questo livello di iniezione monetaria debba essere frenato ora, prima che l’alta inflazione si instauri, i tassi di interesse aumentino e si verifichi un crollo finanziario.

Ma l’ultima volta che la Fed ha provato a ridurre (tapering) la sua generosità monetaria nel 2013 con la motivazione che le economie si erano riprese dalla Grande Recessione, ha portato a un crollo dei mercati azionari e delle valute dei mercati emergenti, aumentando il peso del loro debito. Anche solo il recente discorso tra i leader della Fed sulla questione ha fatto crollare i mercati azionari la scorsa settimana.

E questo è il problema – sembra che le banche, gli investitori di borsa e i governi siano diventati “dipendenti” dal risolvere i loro problemi facendo “stampare” alle banche centrali sempre più denaro. La cosa più importante è che, lungi dall’aiutare a ripristinare gli investimenti produttivi e la crescita della produttività durante la Lunga Depressione, tutto ciò che i tassi di interesse zero e il Qe hanno fatto è stato quello di spingere i mercati azionari e obbligazionari ai massimi storici.

Come ha concluso uno studio empirico: “la produzione e l’inflazione, in contrasto con alcuni studi precedenti, mostrano un impatto insignificante fornendo la prova dei limiti dei programmi della banca centrale” e “la ragione del trascurabile stimolo economico del Qe è che il denaro iniettato ha finanziato la crescita dei prezzi delle attività finanziarie, più che il consumo e gli investimenti”.

Tutto ciò che le iniezioni monetarie hanno fatto è permettere alle banche e agli speculatori finanziari di accumulare quantità massicce di quello che Marx chiamava “capitale fittizio”, cioè non investimenti in attività che creano valore nell’economia reale, ma in azioni e obbligazioni e criptovalute – un mondo fantastico in cui pochi diventano miliardari mentre i lavoratori che non hanno azioni e nemmeno case di proprietà non vedono alcun aumento dei redditi reali o della ricchezza. Il Qe è stato uno dei principali responsabili dell’aumento della disuguaglianza dei redditi e della ricchezza nelle economie del G7 negli ultimi dieci anni.

Come i banchieri centrali, l’economia tradizionale è divisa sulla necessità di continuare con i prestiti governativi e i Qe o se questa continuazione porterà a un disastro finale.

I keynesiani, i post-keynesiani (compresi i “teorici monetari moderni”, MMT) rimangono fortemente a favore. Secondo loro, non c’è bisogno di preoccuparsi dell’aumento del debito pubblico o anche di quello delle imprese. Se i governi ricorrono al tentativo di tagliare i loro debiti come hanno fatto durante la Lunga Depressione (senza molto successo), una tale politica di “austerità” non farà che ritardare la ripresa economica e persino invertirla. I keynesiani ignorano l’evidenza che la spesa pubblica e i deficit hanno avuto comunque poco effetto sul raggiungimento della ripresa economica.

Ma in questo periodo post-Covid, alcuni keynesiani stanno avanzando un altro argomento in favore del Qe e per la generosità monetaria e fiscale. Mark Sandbu, il corrispondente europeo di economia del Financial Times, ha proposto quella che chiama una “nuova idea”, cioè che il Qe, insieme al tipo di stimolo fiscale che il presidente americano Biden sta perseguendo, spingerà effettivamente i salari quando l’inflazione aumenterà. Questo darà nuovo potere contrattuale ai lavoratori e ripristinerà il “conflitto di classe” sul posto di lavoro.

Sandbu riconosce che i datori di lavoro vorranno resistere a questa situazione perché potrebbe danneggiare i loro profitti e si riferisce al famoso articolo post-keynesiano di Michal Kalecki sul perché gli aumenti salariali e la piena occupazione sono contrastati dai capitalisti. Ma Sandbu è ottimista su questo conflitto.

Partendo dalla premessa keynesiana che ciò che conta in un’economia non sono i profitti, ma una sufficiente “domanda effettiva”, ritiene che l’aumento dei salari “può incoraggiare i datori di lavoro ad aumentare sia la produttività del lavoro che la produzione, se si aspettano una forte crescita della domanda”. Così sarà possibile avere “quello che Kalecki chiamava capitalismo di piena occupazione”, perché possiamo promuovere “una visione illuminata dell’interesse personale dei proprietari del capitale”.

Così, “lungi dall’essere il conflitto di classe un gioco a somma zero, gli incentivi alla produttività derivanti da un maggiore potere dei lavoratori possono anche aumentare i profitti”. Quindi è il più perfetto di tutti i mondi possibili: i lavoratori ottengono salari più alti e i capitalisti ottengono profitti più alti – tutto grazie al Qe, alla Bidenomics e all’inflazione.

Questo, naturalmente, non è il punto di vista dell’altro lato dello spettro mainstream. Questi ultimi sono più vicini all’opinione che i governi e le banche centrali non dovrebbero intervenire nei mercati e nelle economie e “distorcere” i tassi d’interesse naturali e causare un “sovrainvestimento” nelle attività finanziarie che porta a un crash.

Nello stesso numero del Financial Times in cui Sanbu presentava la sua visione a là Leibniz delle economie capitaliste, John Plender era severo nella sua condanna del Qe e di tutte le sue opere. Plender ha osservato che “le banche centrali sono state impegnate a riempire la ciotola del punch attraverso i loro continui acquisti di obbligazioni per mantenere bassi i tassi d’interesse mentre conducevano un interminabile dibattito su quando e come rimuovere il sostegno. Le loro proteste sul fatto che il rischio di inflazione è ‘transitorio’ sembrano sempre più discutibili”.

Plender fa notare che “le affermazioni dei banchieri centrali che il Qe aumenterebbe il prodotto interno lordo sono meno convincenti ... nel frattempo, la politica monetaria non convenzionale sta creando sempre maggiori vulnerabilità di bilancio”. I keynesiani non riescono a riconoscere che, sebbene i tassi d’interesse vicini allo zero mantengano basso il costo del servizio del debito pubblico e aziendale, il Qe accorcia la scadenza di quel debito. Questo significa che i governi e le aziende devono rinnovare quel debito a intervalli più brevi.

Come commenta Plender, “la Banca dei regolamenti internazionali stima che dal 15% al 45 % di tutto il debito sovrano delle economie avanzate è ora, de facto, overnight (da estinguere nell’arco di un giorno lavorativo, ndt). Nel breve periodo, questo produce un risparmio netto di interessi per i governi. Ma la loro maggiore esposizione ai tassi fluttuanti aumenta la vulnerabilità all’aumento dei tassi d’interesse”.

Nelle economie avanzate, il Fmi stima che il rapporto debito pubblico/Pil sia passato da meno dell’80% nel 2008 al 120% nel 2020. Il conto degli interessi su quel debito è tuttavia sceso nel periodo, incoraggiando la convinzione panglossiana che il debito debba essere sostenibile. Un’impennata simile nel settore delle imprese non finanziarie globali ha portato il debito a toccare il massimo storico del 91% del Pil nel 2019.

Plender prosegue: “su questo sfondo, la ricerca di rendimento da parte degli investitori ha causato un grave mispricing del rischio, insieme a una diffusa cattiva allocazione del capitale”. In continuità con la Scuola austriaca, Plender prevede che “il fattore scatenante ora potrebbe essere una combinazione letale di inflazione crescente e instabilità finanziaria. La difficoltà è che le banche centrali non possono portare via la ciotola del punch e aumentare i tassi senza minare i deboli bilanci e portare una palla da demolizione all’economia”.

L’ex governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan, ha sollevato le stesse preoccupazioni in un pezzo per il Gruppo dei 30, una non ben nota associazione di istituzioni governative e banche centrali. Intitolato I pericoli del Quantitative Easing senza fine, Rajan sottolinea anche i rischi di lasciare che il Qe prosegua. Ritiene che l’impetuoso desiderio di fare soldi nei mercati finanziari con il credito a interesse zero rischia un crollo finanziario lungo la strada.

La sua preoccupazione è anche che i costi di interesse del governo potrebbero aumentare bruscamente con l’aumento dell’inflazione. “Se il debito pubblico è intorno al 125% del Pil, ogni punto percentuale di aumento dei tassi d’interesse si traduce in un aumento di 1,25 punti percentuali del deficit fiscale annuale come quota del Pil... e ciò che conta non è la scadenza media del debito, ma piuttosto la quantità di debito che maturerà rapidamente e dovrà essere rinnovato a un tasso d'interesse più alto”.

Non c’è dubbio che l’interesse netto sul debito pubblico è attualmente molto basso, solo poco più dell’1% del Pil all’anno rispetto a un tasso di crescita del Pil del 2-3% all’anno. Ma il Peterson Institute sostiene che coloro “che credono che i tassi non saliranno quasi certamente sono troppo fiduciosi nelle loro stesse opinioni. Le forze che hanno contribuito ad abbassare i tassi sono universalmente difficili da prevedere, e anche modesti cambiamenti nei tassi possono produrre movimenti considerevoli nell’interesse netto come quota dell’economia in futuro”.

Ecco il dibattito mainstream. Da un lato, l’aumento del debito pubblico e aziendale non è nulla di cui preoccuparsi perché il Qe e lo stimolo fiscale otterranno l’obiettivo della ripresa economica e l’inflazione si dissolverà. Inoltre, l’aumento dei salari potrebbe incoraggiare i capitalisti a investire e quindi ad aumentare la produttività per pagare qualsiasi aumento dei tassi di interesse quando le banche centrali diminuiranno la loro spesa.

D’altra parte, si pone l’argomento che tutto questo Qe sta solo andando a favore della speculazione finanziaria, causando cattivi investimenti e inflazione, i quali saranno fermati solo da qualche crash finanziario di proporzioni disastrose.

Qual è il punto di vista marxista su questo dibattito? Beh, a mio parere, i keynesiani e gli austriaci hanno sia ragione che torto.

L’aumento del debito pubblico e anche l’aumento del debito aziendale non deve essere un problema se le economie si riprendono per raggiungere e sostenere un buon tasso di crescita del Pil reale e dei profitti per le aziende. Il rapporto tra debito pubblico e Pil può essere ridotto o almeno gestito se la crescita del Pil è più alta del tasso di interesse corrente. Quindi i keynesiani hanno ragione e gli austriaci torto.

Ma gli austriaci hanno ragione sul fatto che il continuo aumento del capitale fittizio al posto dell’investimento in capitale produttivo sta gettando le basi per un prossimo crollo se la ripresa economica dovesse vacillare. Una volta che un consumatore di droghe diviene dipendente è difficile disintossicarlo dalla droga, mentre la crisi di astinenza potrebbe uccidere il paziente.

Come ha detto Plender, “l‘imperativo dovrebbe piuttosto essere quello di assicurare che l’esplosione del debito post-pandemia trovi la sua strada nell’investimento produttivo”. Esattamente, ma come può essere fatto se i capitalisti non vogliono investire in modo produttivo? Ciò che decide il livello di investimento produttivo è la sua redditività per i capitalisti, e la sua redditività rispetto alla “ricerca di rendimento” della speculazione sui mercati azionari e obbligazionari che il Qe ha coltivato.

Lasciatemi ripetere ancora una volta le parole di Michael Pettis, un fermo economista keynesiano: “la linea di fondo è questa: se il governo può spendere fondi aggiuntivi in modi che fanno crescere il Pil più velocemente del debito, i politici non devono preoccuparsi dell’inflazione incontrollata o dell’accumulo del debito. Ma se questo denaro non è usato in modo produttivo, è vero il contrario”.

Questo perché “creare o prendere in prestito denaro non aumenta la ricchezza di un paese, a meno che ciò non si traduca direttamente o indirettamente in un aumento degli investimenti produttivi... se le aziende statunitensi sono riluttanti a investire non perché il costo del capitale è alto ma piuttosto perché la redditività prevista è bassa, è improbabile che rispondano investendo di più”.

La redditività nei settori produttivi delle maggiori economie era vicina al minimo storico prima che la pandemia colpisse. Il crollo della pandemia ha fatto scendere ulteriormente la redditività e senza dubbio sta recuperando velocemente in questo momento. Ma la redditività arriverà a livelli che sosterranno gli investimenti per aumentare la produttività nei prossimi anni, specialmente se gli aumenti salariali inizieranno a comprimere i margini di profitto?


Tale questione non sarà parte del dibattito a Jackson Hole questa settimana.

Da: The next recession blog

Fonte

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